
Milano. Marina Rocco e Matteo De Blasio in una scena di “Gli innamorati” di Goldoni, al Teatro Franco Parenti (foto di Fabio Artese)
(di Paolo A. Paganini) Bizze, dispetti, ripicche, smanie, permalosità, gelosie, cocciutaggini, orgoglio, rissosità… Se questo è amore! E invece sì. Goldoni, nel 1759, dopo molte distrazioni romane, ritornando a Venezia con sosta a Bologna, scrisse, in una quindicina di giorni, “Gli innamorati” (nei “Mémoires” dedica poche righe, ma enuncia anche il suo metodo di lavoro: auree riflessioni per chi vuol scrivere di teatro).
La commedia, in italiano, rispetta quel campionario di malagrazia bisbetica e tormentona che abbiamo appena enunciato. In una città di oziose e capricciose futilità, tra i pochi nobili e i molti “cittadini”, cioè tra nullafacenti con danée ed altri che s’industriano a farne, due giovani milanesi ventenni, Eugenia e Fulgenzio, la meglio gioventù meneghina, impiegano il loro tempo a tormentarsi, “per amore”. Uno perché antepone l’onore alla passione (il fratello, da lungo assente per lavoro, gli ha affidato la moglie perché ne avesse cura ed attenzioni, con ciò trascurando l’amante), l’altra perché, divorata dalla gelosia per l’odiata cognata dell’amato bene, antepone la passione a qualsiasi altro valore, senza rendersi conto – l’una e l’altro – dell’incoerenza e sproporzione delle loro parole e delle loro azioni.
Già, in passato, venne definita “una tragedia delle anime”, espressione d’un amore che “è una disperata impossibilità, un sogno vano di annullare due esseri per farne uno solo”. Commedia della gelosia e del puntiglio, è tutta giocata sul dialogo e precede la serie dei capolavori dialettali, ne è anzi una specie di esercizio propedeutico prima di arrivare al “massimo di raffinatezza espressiva”, come, che so, nella “Famiglia dell’antiquario”, nella “Bottega del caffè”, nella “Locandiera”.
Già, nel 1950, “Gli innamorati” fu una specie di banco di prova del giovanissimo Strehler, al Piccolo Teatro, allora atteso dai più, Dino Buzzati in testa, per vedere come se la sarebbe cavata, “senza capriole, saluti, girotondi e balletti”, senza cioè poter “sfogare il suo funambolismo”. Se la cavò, eccome. Così come adesso se l’è cavata Andrée Ruth Shammah nella Sala Grande del milanese Teatro Franco Parenti, con uno staff attoriale da encomio solenne.
Senza azione, tutta giocata sulla parola (in due tempi di un’ora e quindici e di 35 minuti: volati via d’un fiato), la commedia ha tre protagonisti assoluti: in successione di merito, Marina Rocco (Eugenia), Matteo De Blasio (Fulgenzio), Umberto Petranca (Fabrizio, zio e tutore di Eugenia), tutti attori di Filippo Timi in “sinergia” con la Shammah. La prima, trentaduenne attrice di cinema teatro e TV, è una simpaticissima amante viperina, scatenata in una performance ch’è un perfetto paradigma della gelosia, delle bizze e dell’arte di fare impazzire un uomo, che qui è un ormai fuori di zucca Fulgenzio, sempre al limite (oh, mio dio) di dare un solenne sganascione all’insopportabile amante. E, per fortuna, tra i due c’è Fabrizio, una delle più squisite macchiette dell’inventiva goldoniana, che stempera mitiga e diverte con i suoi assurdi esagerismi elogiatori.
Roberto Laureri, Elena Lietti, Alberto Mancioppi (personaggio “saggio” e squisito dicitore delle didascalie e di una sintesi della praefatio goldoniana), Silvia Giulia Mendola e Andrea Soffiantini (il simpatico servitore Succianespole) sono giusto corretto generoso contorno di un allestimento che piace, anche senza i vertici di ben più impegnate commedie di Goldoni, che qui ha trovato nella Shammah una garbata, onesta e tenera mess’in scena (costumi e scena di Gian Maurizio Fercioni: azzeccati, come sempre! Musiche di commento di Michele Tadini, appropriate e suggestive, senza sopraffare).
Tutti in scena in un gran finale di applausi. Mancava solo l’antica passerella di variettistica memoria!
“Gli innamorati” di Goldoni, regia di Andrée Ruth Shammah. Al Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14, Milano. Repliche fino a domenica 6 aprile.
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