A Milano l’arte, le collezioni, la storia dell’incontro fra due culture. Quando l’Europa si innamorò del Sol Levante

Domenico Tintoretto, “Ritratto di Ito Mancio”, 1585

MILANO, mercoledì 2 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Il giovane, nemmeno ventenne, è ritratto di tre quarti, a mezzo busto. Ha i lineamenti orientali e veste un abito ispanico del XVI secolo, con una vistosa gorgiera bianca. L’espressione è regale, fiera ma non boriosa, con qualcosa di magnetico. La dicitura lo identifica con Ito Mancio, capo dell’Ambasceria del Tensho: quattro principi giapponesi convertiti che, scortati da gesuiti, giunsero in Europa, e in Italia, intorno al 1590.
Commissionato a Jacopo Robusti il Tintoretto (e in tempi recenti attribuito al figlio di lui, Domenico, ritrattista più abile del padre), il dipinto è ora esposto per la prima volta in Italia e in Europa nell’ambito del progetto “Oriente Mudec”: due mostre distinte e complementari che, fino al prossimo 2 febbraio, racconteranno, negli spazi espositivi del museo milanese, l’incontro culturale (artistico in primo luogo, ma anche storico ed etnografico), e i successivi reciproci scambi, fra il Paese del Sol Levante e il Vecchio Continente, Italia e Francia soprattutto.
Di particolare impatto, per rarità e bellezza, la sezione dedicata alla Collezione del conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua: lacche, porcellane, bronzi, tessuti, armi e armature da samurai che, negli anni Settanta dell’Ottocento, il nobile collezionista raccolse all’interno del già allora favoloso Museo Giapponese da lui allestito nella propria casa sul lago di Como, a Moltrasio. Oggetti preziosi che evocano un immaginario dell’Oriente al tempo ancora più sognato che conosciuto, ma che proprio in quel periodo, anche in conseguenza delle forti relazioni che i commercianti lombardi della seta instaurano con l’Asia, inizia a delinearsi come vero, e fattivo, scambio culturale.

Léon François-Comerre, “Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese”, 1885 circa. Photo Michiel Elsevier Stokmans

Lo stesso dal quale deriva quella sorta di profonda fascinazione che va sotto il nome di Giapponismo, vero e proprio modello per i nascenti movimenti modernisti in Europa, oggetto di crescente interesse in campo letterario, artistico e musicale. E ora testimoniato, nelle sale del Mudec, da oltre 170 fra dipinti, stampe, oggetti d’arredo, sculture, fotografie. Con particolare riguardo agli artisti italiani, da De Nittis a Chini, a Segantini, ma senza dimenticare i pittori francesi che nel medesimo periodo subirono, e trasmisero attraverso le loro opere, l’incanto del lontano Oriente: Van Gogh, Gauguin, Fantin-Latour, Toulouse-Lautrec, Monet. E senza trascurare dipinti quali il purpureo “Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese”, di Comerre, o “La giapponesina”, di Induno, o ancora i lavori del mercante, poi critico d’arte, quindi pittore milanese Vittore Grubicy de Dragon.
Mentre, in parallelo, si susseguono opere di differenti scuole e movimenti artistici giapponesi attivi tra il 1890 e il 1930, raramente oggetto di esposizione. Una su tutte, l’incantevole “Notte di neve”, xilografia del 1923 di Ito Shinsui.
Né poteva mancare, in una mostra di questo calibro, la testimonianza delle influenze che il mondo orientale, giapponese in particolare, ha avuto sulla musica occidentale. Inevitabili quindi i rimandi a Puccini e alla sua “Madama Butterfly”. Grazie alle videoinstallazioni, che accompagnano il visitatore lungo tutto il percorso museale, e soprattutto a una selezione, frutto della collaborazione con il Teatro alla Scala, di alcuni fra i più bei costumi di scena dipinti a mano e indossati, fra il 1925 e il 1986, dalle cantanti liriche che hanno dato voce, sul palco scaligero, all’immortale vicenda della piccola Cho Cho San.

“Quando il Giappone scoprì l’Italia. Storie d’incontri (1585-1890)” e “Impressioni d’Oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone”, Mudec, Museo delle Culture di Milano, via Tortona 56, fino al 2 febbraio 2020

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