Abiti come opere d’arte d’un maniacale stilista british. Nulla lo distrae. Imprevedibile finale gotico (lezione di Hitchcock)

(di Marisa Marzelli) Stanno uscendo a ridosso della consegna degli Oscar i migliori pretendenti alla statuetta. ComeIl filo nascosto di Paul Thomas Anderson (i suoi cultori lo chiamano con l’acronimo PTA), regista americano che si cimenta qui in un’ambientazione totalmente “british”. È un film complesso, in parte misterioso, sontuoso ma anche ossessivo e disturbante. Comincia in un modo e va a finire come non ti aspetti. È in corsa agli Oscar come miglior film, regia, attore protagonista (Daniel Day-Lewis, che di statuette ne ha già vinte tre, per cui è difficile che gli assegnino la quarta, sebbene lui abbia espresso l’intenzione di non recitare più davanti alla macchina da presa), attrice non protagonista (Lesley Manville), costumi, colonna sonora (di Jonny Greenwood delbgruppo inglese Radiohead).
Anderson, premiato e osannato come uno dei migliori autori americani tra i 40 e i 50 anni, è famoso almeno per Boogie Nights L’altra Hollywood (1997), Magnolia (1999), Il petroliere (2007) e The Master (2012) mentre il suo penultimo lavoro Vizio di forma (2014) è stato giudicato complicato e poco comprensibile.
Il filo nascosto (PTA firma soggetto, sceneggiatura, regia e co-produce) è ambientato nel mondo dell’alta moda inglese degli anni ’50. Nella maison di Reynold Woodcock (il nome dello stilista è inventato ma pare che il regista si sia ispirato a Balenciaga) si creano abiti che sono come opere d’arte e vestono esponenti della famiglia reale, signore aristocratiche e dive del cinema. L’ambiente è lussuoso ed esclusivo ma l’azienda è gestita in modo artigianale, con sarte esperte e belle indossatrici da Woodcock (Daniel Day-Lewis), che è il creativo, e dalla sorella non sposata Cyril (Lesley Manville), arcigna e inflessibile direttrice degli affari. Woodcock è chiuso nel suo mondo di stoffe e disegni, altezzoso e maniaco di ordine e regole che non devono distrarlo dal lavoro. Si ritiene uno scapolo impenitente, le donne sono di passaggio: le sceglie, le plasma perché indossino i suoi modelli e quando si stufa escono dalla sua vita e dalla casa di mode. Assecondato dalla sorella, con la quale ha un ottimo rapporto perché si sono suddivisi i compiti, in modo che l’impegno dell’uno sia di supporto a quello dell’altro. Ma il protagonista, sotto una corazza di apparentemente non scalfibile aplomb, ha i suoi tormenti. È ossessionato dal fantasma della madre in abito da sposa ed è uso nascondere nei suoi splendidi vestiti dei bigliettini, introvabili perché celati nelle cuciture.
Tutto procede con successo, finché nella vita dello stilista compare Alma (il nome è già un indizio), cameriera in un bar di campagna, dalle origini sconosciute, probabilmente immigrata dall’est (va ricordato che siamo nel dopoguerra). Non è una gran bellezza (l’attrice è la lussemburghese Vicky Krieps), ma è tenace e volitiva. Lui ne fa la sua musa, si compiace di esserne il Pigmalione. Poi si rende conto che la presenza di lei lo disturba nel processo creativo e diventa insofferente. A questo punto… non si può continuare a raccontare perché il tono gotico del plot, sinora incombente (Anderson ha dichiarato di aver preso libero spunto da Rebecca – La prima moglie di Hitchcock, soprattutto per il ruolo, nella gestione del menage, della sorella e anche perché la lezione di Hitchcock è che “niente è come sembra”), subisce un’accelerazione. Ma non nella direzione che lo spettatore si aspetta.
L’alta moda non è il tema del film, ma è la metafora degli autentici significati. Sotto le mentite spoglie di eleganza e glamour si nascondono le crepe non visibili e non dichiarabili di una grande passione malata e distruttiva. Sotto i bei vestiti si cela la realtà di sentimenti che giocano la partita del potere in amore, dove uno è il dominante (spesso chi sembra più fragile) e l’altro il dominato. Anderson propone analisi e l’interpretazione (chiaramente dal punto di vista maschile) dell’eterna guerra dei sessi. Basti pensare a come Woodcock possa essere infastidito e disturbato dal rumore che fa Alma a colazione imburrando e mangiando un crostino di pane. Un rumore che, amplificato dall’audio, sente solo lui. E il tema del cibo, dei pranzi, del cucinare tornerà più volte come un leitmotiv.
Ma c’è spazio anche per qualche altro tema, come il processo misterioso della creazione artistica, l’ego del creativo e l’indifferenza o il non essere all’altezza di chi acquista l’arte solo perché ha i soldi per farlo.
Ottimi tutti gli interpreti, la confezione delle immagini, virtuosistica la regia che approccia vari generi, dalla commedia sentimentale al mélo, sino appunto al gotico, al thriller e all’horror. Un film per qualche verso apparentabile nella struttura a La forma dell’acqua di Guillermo del Toro, anche se nel caso del regista messicano la ricchezza di contenuti è resa in modo più semplice ed emotivamente comprensibile. Il filo nascosto, invece, spiazza perché tra la prima e la seconda parte c’è un cambio di passo, l’eleganza e il bon ton cominciano a sfrangiarsi, in tanto controllo formale irrompe un linguaggio più triviale. Ad una prima visione il film può risultare persino ostico; forse anche perché inserisce come sovrastruttura narrativa flash in cui Alma si confessa, come ad uno psicoanalista, ad un personaggio che sino ad un certo punto del plot non si sa chi sia.
Il filo nascosto utilizza con gran classe gli strumenti del cinema ma ha un retrogusto letterario. Abbiamo l’impressione di vedere sullo schermo una pagina di narrativa come ce la stiamo immaginando mentre la leggiamo.

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