Accoglienze trionfali a Mad Max, che ha fatto tappa a Cannes. E con Charlize Theron il Festival va in delirio

collage max road(di Marisa Marzelli) Il guerriero della strada è tornato e ha fatto tappa al Festival di Cannes, accolto trionfalmente. Preceduto dalle prime e tutte lusinghiere critiche americane; cento per cento di giudizi positivi (per ora) sul sito Rotten Tomatoes.
Mad Max: Fury Road è il quarto capitolo della saga. Il primo (titolo italiano Interceptor) risale al 1979 ed è diventato un cult mondiale perché si ritiene abbia ridefinito i canoni estetici della fantascienza post-apocalittica. Il regista australiano George Miller (medico di formazione), allora 34.enne, realizzò poi due sequel: Interceptor – Il guerriero della strada (1981) e Mad Max – Oltre la sfera del tuono (1985). La trilogia fece epoca, come quella di Matrix. In seguito Miller, regista tutto sommato poco prolifico, cambiò genere e vinse anche l’Oscar alla migliore animazione per i pinguini di Happy Feet. Ora, a 70 anni, ha ripreso in mano le redini del suo Mad Max, non più interpretato da Mel Gibson, per evidenti motivi anagrafici, ma dall’inglese Tom Hardy.
Se negli anni ’80 il tema della scarsità di risorse energetiche fossili coincideva con una crisi petrolifera che colpì anche l’Australia, l’epopea di Mad Max vi abbinava un caos sociale che riportava il mondo all’imbarbarimento, con un’estetica contaminata tra punk e gladiatori da Circo Massimo.
Il ritorno di Mad Max, l’eroe solitario e vagabondo, a oltre trent’anni dal primo episodio evidenzia come Miller, restando fedele ad uno stile di rappresentazione deformata e visivamente grottesca, sappia agganciarsi all’inconscio di oggi. In Fury Road il mondo è diventato un deserto dove scorrazzano bande di predoni motorizzati che detengono il monopolio del carburante e dell’acqua. In uno di questi gruppi, governato dal delirante dittatore Immortan Joe, che affascina i suoi guerrieri promettendo il Valhalla dopo la morte in battaglia, s’imbatte Max. Il quale viene fatto prigioniero e ridotto a “sacca di sangue” in quanto donatore universale. Succede però che una dei luogotenenti di Immortan Joe, di nome Furiosa (Charlize Theron) decida di disertare con un blindato. La donna trasporta un carico particolare: le cinque giovani e forzate mogli del dittatore, che da loro vuole il maggior numero di discendenti. Ad aiutare la tostissima Furiosa arriverà Mad Max. Il resto della storia è un adrenalinico inseguimento. Senza un attimo di noia.
Fury Road in apparenza non si discosta molto, quanto ad effetti speciali e barocchismi, dai blockbuster che vanno per la maggiore (uno su tutti, Hunger Games), ma è la cura di ogni dettaglio e quindi il significato metaforico che assume il racconto ad intrigare. Ad una società regredita, primitiva, tribale rappresentata dall’orda maschile degli inseguitori si contrappongono le donne fuggitive altrettanto pronte a combattere ma per la propria libertà, in cerca del miraggio una terra verde, dove piantare di nuovo i semi e praticare l’agricoltura. Per questo si è parlato di un’ottica femminista in Fury Road, dove la tradizionale donzella in pericolo stavolta prende in mano, anche con le armi, il suo destino, consapevole di voler decidere da sola. Sotto tale aspetto, la scelta di Charlize Theron (bellissima attrice che nei suoi film non ha paura di imbruttirsi e sporcarsi) è azzeccata. I rapporti tra lei e l’eroe sono, dopo le iniziali diffidenze, di solidarietà senza accenni di love story. Furiosa, guerriera senza un braccio in cerca di pace e redenzione, somiglia un po’ alla Sigourney Weaver di Alien.
Sul piano generale, Fury Road disegna aggressori in preda a riti e raptus guerreschi (il deserto in cui si è girato è quello africano), diretti a gran velocità verso il totale nichilismo. Se letterariamente si avverte sullo sfondo la lezione de Il signore delle mosche di William Golding, nelle immagini il riferimento più evidente è ai fumetti; ma è inevitabile pensare in termini di attualità all’ascesa dell’Isis, con il suo carico di distruzione, rapimenti di donne e bambini, esecuzioni sommarie.
George Miller (anche co-sceneggiatore e produttore) dirige col piglio di un giovane. C’è un piccolo personaggio già diventato iconico: uno scarmigliato musicista rock sul tetto di un camion suona a tutto volume una chitarra che sputa fiamme, spronando i guerrieri all’inseguimento. Catene, borchie, tatuaggi, armi anche improprie, maschere indossate di scheletri animali, veicoli armati di ogni tipo, ubriacature dei proclami del leader, furia distruttrice, istinto di morte contestualizzano un tenebroso scenario di Terra morente profondamente autoriale. Il 3D è discreto e poco aggiunge all’azione ininterrotta, sono però la velocità e la grande frammentazione del montaggio a dare formalmente il suggello di post-modernismo.