MILANO, mercoledì 8 dicembre ♦ (di Carla Maria Casanova) – 7 dicembre: inaugurazione della stagione lirica del Teatro alla Scala. Niente presidente Mattarella, trattenuto a Roma come prima conseguenza del sorprendente esito del referendum (se vincono i No, tutto rimarrà fermo come prima, avevano detto. Al contrario, è quasi un cataclisma). Dunque, niente Presidente, alla Scala, e quindi niente Inno nazionale. Invece no, a sorpresa, Inno. Pare che a deciderne l’esecuzione sia stata la presenza dell’ex re di Spagna Juan Carlos, decisione singolare, in quanto il protocollo lo esige (l’Inno) solo in caso di visita ufficiale di un monarca. Ma va benissimo così. A me l’Inno di Mameli dà emozioni profonde. Sarebbe bastato per giustificare la serata (faccio per dire).
In scena, Madama Butterfly di Giacomo Puccini.
Chi aveva voglia di vederla/sentirla e non è potuto andare alla Scala, l’ha vista in TV, canale 1. Non è la stessa cosa, lo sappiamo. Di negativo, per esempio, quei molto discutibili primi piani con la visione-urto del trucco fatto per esser visto da lontano. Ma l’esecuzione è stata goduta.
Molto di questa Madama Butterfly è stato spiegato: cioè la proposta della prima edizione, quella del 17 febbraio 1904, quando Madama Butterfly, “rinnegata” e per nulla “felice”, subì il poderoso storico fiasco. I perché del fiasco furono più d’uno. Si vocifera che l’Editore Musicale Sonzogno (furibondo perché Puccini, “in parola” con lui per la sua nuova opera, era poi passato a Ricordi) aveva mandato alla Scala dei prezzolati a far casino, detta volgarmente. In verità il fiasco avvenne soprattutto per i difetti insiti nella partitura. Cioè molte lungaggini, un taglio squilibrato, due atti di cui il secondo di 90 minuti e la parte del tenore minimizzata, senza nessuna aria, ridotta al solo duetto d’amore della fine del primo atto.
Il fiasco fu talmente sofferto da Puccini che ritirò l’opera immediatamente dopo la prima, dando assoluto divieto di rappresentarla né alla Scala né altrove. La rivisitò, la divise in tre atti anziché due, la rivoltò, tolse, aggiunse, per esempio -aggiunse- l’aria “Addio fiorito asil” del tenore, all’inizio del terzo atto, chiuse l’opera con un finale strepitoso e infine la ripresentò al pubblico a Brescia il 28 maggio di quello stesso 1904, ottenendo un successo vibrante, da allora mai affievolito. Negli anni poi Puccini la ritoccò ancora qua e là, ma sostanzialmente la stesura definitiva rimase quella di Brescia, anche se a volte si preferisce eseguirla ancora in due e non in tre atti.
Ora, se a me capitasse di scrivere non dico un libro, ma solo un articolo e poi di ribaltarlo e “asciugarlo” e vedermelo pubblicato nella versione primitiva, sarei oltremodo seccata, per dirla con un eufemismo. Come venirmi a rovistare nella borsetta. Ma Puccini non c’è più e in scena per l’apertura della stagione scaligera è andata la sua ur-Madama Butterfly.
Riccardo Chailly di Puccini è specialista e il desiderio di ripristinare la versione filologica è stato irriducibile. Come d’altra parte ha già fatto con Turandot e con La Fanciulla del West. (Di Madama Butterfly la Treccani ha pubblicato copia fotostatica del libretto prima edizione). Dice Chailly che è interessante, anzi doveroso, conoscere anche le versioni per prima ideate dal Compositore. Simonetta nipote di Puccini fa però notare che l’operazione funziona in sede sperimentale, vedi Convegno di studiosi, come avvenne nel 1982 a Venezia, quando furono eseguite entrambe le versioni, un giorno dopo l’altro, con confronto diretto. “Nella revisione – dice Simonetta – il nonno tolse tutte le lungaggini, le inutili scenette della parentela giapponese e soprattutto chiuse con un taglio teatrale formidabile.” Chailly replica che secondo lui la Madama Butterfly originale è anche più bella di quella rivisitata e se l’aria del tenore “Addio fiorito asil” non c’è, in fondo gli sta bene, a Pinkerton, personaggio efferato che “non si merita una così toccante melodia”. Pinkerton è effettivamente un essere odioso. E la storia di Madama Butterfly, che sfiora il turismo sessuale infantile in Oriente, ahimè tuttora vigente (Cio Cio San ha 15 anni), questa storia lungi dall’essere una bella romantica fiaba, è una vicenda orripilante.
Nonostante le premesse, lo spettacolo scaligero, portato in scena da Alvis Hermanis, è quanto di più tradizionale, poetico, innocente, si possa desiderare. Immagini di antiche pitture giapponesi sfilano sullo sfondo, al di là delle pareti di carta di riso della casetta “per 999 anni”, i gesti sono coreografici, i costumi (di Kristine Jurjäne) raffinatissimi, dai colori sognanti, eccezion fatta per l’abito occidentale di Cio Cio San, di rara bruttezza. Per la cronaca, il primo ad introdurre la versione “occidentalizzata” di casa e abito di Butterfly, fu, molti anni fa, a Vigevano, il regista Beppe de Tomasi, scomparso da poco. Da Hermanis, autore della cruda, splendida regìa di Die Soldaten di Zimmermann (Scala) o di quel suo capolavoro che è stato Black Milk al Teatro dell’Arte, ci saremmo aspettati una elaborazione di Madama Butterfly tipo Ken Russel (Spoleto) o Michieletto (Torino), ma Hermanis dice: “Io non ho uno stile. Cerco per ogni titolo di trovare uno stile appropriato”. Ed ecco qui le geishe, il teatro kabuki, i pannelli mobili, i peschi in fiore. Gli interpreti non formano un cast da capogiro: Maria José Siri, sconosciuta al grande pubblico, uruguayana, ce la mette tutta ma scarseggia di quel mistero sottolineato da Sharpless (“… io non la vidi, ma l’udìì parlar. Di sua voce il mistero l’anima mi colpì”). Qui, nessun mistero e, anche penalizzata da una figura piuttosto tozza, più da Fanciulla del West che da Butterfly, la Siri entra a fatica nei panni leggeri della quindicenne Cio Cio San. (Alla Società del Giardino, cena di gala per 500 invitati doc, si è presentata in kimono). Il tenore Brian Hymel grida un po’. Carlos Alvarez, Sharpless, convince di più. Mi è sembrata eccezionale, la migliore di tutti, la Suzuki di Annalisa Stroppa, che riesce ad avere persino fattezze nipponiche. L’orchestra va alla grande, guidata con molto fervore da Riccardo Chailly ed anche il Coro, come sempre opera di Bruno Casoni, sa fa onore. Quasi tutti i giornali hanno riferito, orologio alla mano, 12 minuti di applausi. Qualcuno più euforico ha scritto 14.
RIPRESA TV AL SERVIZIO DI CANTANTI, SCENE, COSTUMI. MA C’ERA L’ORCHESTRA O UNA BASE? EPPURE, NEMMENO UN’INQUADRATURA
Checché se ne dica, è stata una pessima ripresa televisiva. Ineccepibile nel mettersi al servizio del palcoscenico. Vanno doverosamente elogiati i sapienti effetti luce, i giochi cromatici di straordinaria suggestione, gli ingrandimenti in dissolvenza di affascinante stordimento visivo. Ma estremamente deficitaria nella distorsione e nella completezza della ripresa: piani americani da entomologi con visi sotto la lente impietosa ad evidenziare rughe e asperità della pelle e del trucco, ma soprattutto la censura totale dell’orchestra, come se non esistesse un golfo mistico ad integrare il palcoscenico. Poteva essere una Butterfly cantata su base, e sarebbe stata la stessa cosa per i responsabili della ripresa TV. Eppure, anche l’orchestra fa spettacolo. Eppoi, i nostri professori d’orchestra ci vengono invidiati in tutto il mondo, per professionalità e accuratezza esecutiva. Ma nemmeno uno stacco, nemmeno una fugace ripresa, men che mai una inquadratura a qualche particolare strumento, come il cembalo a percussione voluto dallo stesso Puccini. Eppoi, cos’è ‘sta storia di chiudere la trasmissione in fretta e furia, con una fretta da mal di pancia, senza seguire applausi (tanti), commosse manifestazione d’affetto tra Chailly e cantanti (sic dicunt)? Niente. Una simile accidiosa ripresa televisiva onestamente non s’era mai vista. Peccato. (Paolo A. Paganini)