(di Paolo A. Paganini) Quanti percorsi mentali si possono fantasticamente rintracciare, leggendo un libro di poesie? Infinite associazioni. Com’è giusto. Viviamo, ovviamente, in una società di crediti. Un testo ne richiama un altro, anche senza necessità di parentele. Uno stile è sempre diacronicamente legato a un altro. Ogni rivoluzionaria innovazione si aggancia sempre a un contrario, negato o rinnegato. È la bellezza della lettura.
Questo per dire quanto ci sono piaciuti i possibili giochi di rimandi leggendo a piccoli sorsi le epigrammatiche gocce poetiche di Alfonso Michele Lotito, nella raccolta “La mandorla acerba” (Prefazione di Vincenzo Guarracino – Edizioni La Vita Felice, 2014 – pp 94 – € 12).
Lotito è uno studioso foggiano, appassionato docente, acuto ricercatore (dalla patristica alla letteratura mediolatina), saggista e scrittore. E poeta. La sua non è una voce fatta di clamori, di trucchi, di sguaiate provocazioni pur di farsi leggere. È una voce di sommesse melodie, di silenziosi sussurri, impreziositi da una sintetica brevità, come raffrenati da un trattenuto pudore. Rimandano a recondite tenerezze, a sottili piaceri dello spirito. Come potrebbero dare, ma più ferocemente e su più alte sfere, ben altri distici, frammenti ed epigrammi, ma senza le celebrative mordacità, o i risvolti ironici, o politici, o sensuali di un Catullo, o di un Marziale, o di un Voltaire, ma piuttosto avvicinandosi al dolore di vivere di Montale o, meglio ancora, dell’innovatore Ungaretti, nel senso di una concisa essenzialità, prosciugata da ogni enfasi.
Si guardi, per esempio, alla breve lirica “La mandorla acerba” (che dà il titolo alla raccolta poetica): “La nostra felicità / è una mandorla acerba: / ha nel cuore il suo frutto, / per goderlo / devi rompere il guscio coi denti”. Oppure, ancora, con dolente disincanto: “Ispirazione è credere / che questi segni lividi / siano davvero qualcosa”.
E il canto si fa via via sofferto e meditato senso della vita, attraverso la nostalgia, quando non diventa rimpianto, o riscatto consolatorio da un tempo ladro e impietoso (“Nella carezza della solitudine / io nutro frutti acerbi di parole / che di dolore in dolore maturano”), o che attraversa lande indimentiche di giovinezze agresti (“Sui tratturi assolati…”) o di antichi affetti domestici (“Ci fu un tempo in cui vissi / col riso stretto in gola…”).
Uno per pagina, questi brevi componimenti ci dicono anche un’altra cosa, ch’è come uno struggente tributo d’amore contro gli imperversanti cinguettii mediatici di una virtualità senz’anima.
Lotito, uomo di lettere, eleva implicitamente un ideale monumentum a un umile e prezioso supporto: la carta! Se così lo si vuol vedere, è come se avesse voluto onorare quanti, come nell’antico indovinello “parebant boves…”, dedicarono vita e ingegno sulle sudate carte, testimoniando e creando la storia dell’umanità, fino a noi tramandando la paziente traccia di antichi scribi, la fulgida laboriosa dedizione di silenti monaci, intenti in miniati manoscritti e incunaboli. Quale viatico di meditandi piaceri ci suggerisce la carta!
Così, con questo spirito, ci è piaciuto leggere le pagine sulle quali Lotito pubblica quei versi, appena solcati, in alto, in poche righe, come “bagliori… scampati a un antico naufragio…”.
E tutto il resto è silenzio, per provare ancora il gaudioso piacere, ormai dimenticato, del dolce fruscio delle pagine, “su carte avoriate di pura cellulosa”, come chiosa amorevolmente il colophon dell’editore.
Ah, il delizioso scrocchiare della carta mentre cantano i versi di Alfonso Lotito, sintetiche brevità di trattenuti pudori
28 Dicembre 2014 by