
“Gianni Schicchi” di Giacomo Puccini. In primo piano: Ambrogio Maestri (Gianni Schicchi) e Francesca Manzo (Lauretta). Foto Brescia/Amisano
MILANO, domenica 7 luglio ► (di Carla Maria Casanova) Forse avrebbe fatto bene a realizzare l’idea, seppur pessima, di mettere in scena “Gianni Schicchi” con personaggi tramutati in topolini (vedi Mickey Mouse di Walt Dysney). Press’a poco come avvenne con la “Madama Butterfly dei coleotteri” di Torre del Lago del 2004 (Ciociosan farfalla, a va bene, ma poi Sharpless grillo, Pinkerton scorpione, bonzi e geishe tutti formiche e cicale… Chi fu l’incauto regista?). Almeno si sarebbe potuto fischiare senza sentirsi in colpa.
Ma a Woody Allen, quando acconsentì a cimentarsi in una regia lirica per l’Opera House di Los Angeles (dove fu messa in scena nel 2008) fu detto che i topolini proprio non andavano bene e neanche i personaggi tramutati in ortaggi da vegani con Schicchi vestito da sigaretta (ma come possono venire certe idee?? Se ne facesse venire un’altra). E adesso mi sorge il dubbio che forse c’entrasse per qualche cosa Placido Domingo, che della Butterfly degli insetti a Torre del Lago era il direttore d’ orchestra e pure general director dell’Opera di Los Angeles… Ma è impossibile che suggerisse lui l’idea. Al contrario, memore del non felice esperimento del Festival pucciniano, forse fu lui a scartare l’idea del Mickey Mouse, quando propose a Woody Allen la regìa dello Schicchi.
Comunque sia, il guaio sta proprio nella mania delle idee. Nell’opera lirica le idee ci sono già nel libretto, basta seguirle. Woody Allen, che oltre ad essere un gran seduttore (le vie del Signore sono infinite) è uno dei maggiori registi esistenti, ha allora puntato sul sicuro: il neorealismo italiano. Filone pluripremiato (nel cinema). Purtroppo Gianni Schicchi, personaggio dantesco (compare tra i falsari, nel XXX Canto dell’Inferno) si riferisce ad una vicenda del Trecento fiorentino, epoca nella quale si colloca con precisione, dialoghi ben costruiti dal libretto di Gioachino Forzano. È un episodio vivace, di tipico spirito toscano. Un ricco vecchio di piccola aristocrazia muore lasciando tutto al convento dei frati. Gli altezzosi parenti si disperano. L’astuto plebeo Schicchi propone di sostituire il testamento, ma lo fa appropriandosi lui di tutti i “lotti” più preziosi. L’ambiente è descritto con precisione e minuzia, le reazioni degli avidi eredi anche, con le loro meschinerie e cattiverie. È una commediola comica, nonostante le connotazioni amare che spesso riserva l’ironia, e Puccini la tratta seguendo la tradizione teatrale buffa italiana della commedia dell’arte e della farsa.

Ambrogio Maestri (Maestro di cappella) e Anna Doris Capitelli (Donna Eleonora) in “Prima la musica e poi le parole” di Salieri (foto Brescia/Amisano).
E Woody Allen cosa fa? Italia spaghetti e mandolino? Quasi ci siamo: Italia della mafia. Ambiente tetro, tutto grigio/nero (scene e costumi di Santo Loquasto) tanto da stupirsi che il panorama riproduca il campanile di Giotto e il cupolone, anziché il Vesuvio fumante. In scena lampeggiano coltelli, persino il ragazzino ne estrae uno minaccioso. Schicchi (Ambrogio Maestri, non nella sua interpretazione più riuscita) veste come un gangster americano, Lauretta indossa un abitino nero da Claudia Cardinale in “Rocco e i suoi fratelli”. Ironia non c’è, farsa men che meno. Proprio non ha capito niente, di quest’opera, Woody Allen grandissimo regista. Sempre molto, molto rischiose le “idee” che imperversano nell’opera lirica. Inoltre, mi è parso che sul versante musicale tutti gridassero a più non posso. Persino un gran baccano in orchestra, diretta con grinta da Ádám Fischer. Nello Schicchi, Puccini è di una modernità assoluta, con guizzi caricaturali e anche aspre dissonanze, ma il tutto tenuto insieme da un tessuto musicale sempre vigile, dove fa capolino qua e là da una sorta di “leit motiv” melodico vecchia maniera. L’abilità della concertazione è straordinaria. Non l’ho sentita. Una sola è l’aria divenuta popolare: quella di Lauretta “O mio babbino caro”. L’ha cantata Francesca Manzo.
È questo l’ultimo spettacolo della stagione scaligera 2018-19 (poi ci sarà la breve sessione autunnale). È il Progetto Accademia, vale a dire attuato dagli allievi del Corso di perfezionamento della Scala. A “Gianni Schicchi” è qui abbinato, in apertura di serata, Prima la musica e poi le parole, di Antonio Salieri, grandissimo musicista, messo in ombra dall’avvento del genio di Mozart. Però questo Atto unico (65 minuti i cui primi 50 occupati da recitativi) si salva per il quartetto finale. Altrimenti è davvero pallosissimo. La messinscena (scene e costumi di Luigi Perego, regìa di Grischa Asagaroff) dove imperano mega-riproduzioni di vari strumenti, giganteschi violini, violoncelli, tromboni e clarinetti, è elegante e gradevole e i tre cantanti allievi (Maharram Huseynov, Anna-Doris Capitelli, Francesca Pia Vitale) oltre al divo Ambrogio Maestri, sono molto bravi. Però…
Ad ogni modo, non fidatevi del parere altrui (in questo caso, mio).
Chi vuol togliersi la curiosità, vada di persona. Ci sono cinque repliche (8, 10, 15, 17, 19 luglio) Ieri sera è stato un successo.
Quando è uscito Woody Allen, un trionfo. La regìa è ripresa da Kathleen Smith Belcher, che non si è mostrata alla ribalta. Vedere lui in carne e ossa, per molti ha significato un momento importante forse della propria vita. Lui, piccolo e un po’ malfermo, si è subito defilato.