MILANO, DOMENICA 19 GIUGNO ► (di Carla Maria Casanova) Mai mi ero accorta che “Simon Boccanegra” fosse opera così tremendamente triste. La più triste di tutte le opere verdiane. Non sarà allegra “Traviata”, che muore di tisi, direte voi. O Il “Trovatore”, dove muoiono tutti tranne il cattivo baritono, che ha appena scoperto di aver mandato a morte suo fratello… O “Ernani”, che quando sta finalmente per impalmare l’amata il suono del corno gli ricorda che deve suicidarsi. O “Rigoletto”: “ah, la maledizione!!!”…
Non ce n’è una che si salvi, tranne “Falstaff”.
E invece no. In “Simone” il lieto fine c’è proprio: il padre ritrova la figlia, il nonno la nipote, il cattivo va a morte, gli innamorati si sposano, e il neo marito viene eletto doge. C’è, la morte del doge senior avvelenato, ma era scontata e nell’economia della storia non è una tragedia.
Eppure su tutto plana una tristezza cosmica.
Dice Fiesco: “Ogni letizia in terra è menzognero incanto, d’interminato pianto è fonte l’umano cor”. E non è per fare il guastafeste, è proprio così che ci si sente, quando cala il sipario. Un plumbeo, terribile dolore assale lo spettatore. Cioè, assale me, gli altri non so.
Ha avuto successo, la ripresa di questo “Simon Boccanegra” alla Scala. Magari non ovazione. Per intenderci, “I Troiani” sono stati tutt’altra cosa. Comunque applausi decisi anche qui. L’allestimento è quello conosciuto: Tiezzi/ Bisleri/ Giovanna Buzzi, nato nel 2010 e ripreso nel 2014. Non era uno scherzo arrivare (alla Scala) dopo il mitico spettacolo di Strehler. Questo è un allestimento tradizionale, di linea gotica, imponente la sala del Consiglio, da incubo il prologo (casa dei Fieschi): a scale e piani sfalsati tutti bui che fanno venire in mente “Metropolis” di Lang. Donne piangenti velatissime, con riferimenti alla pittura preraffaellita, accompagnano un’amata salma.
Dall’ultima ripresa, è cambiato il cast, tranne il protagonista Leo Nucci (cui si alternerà come allora con Placido Domingo) e Carmen Giannattasio. È cambiato soprattutto il direttore: ora il coreano Myung -Whun Chungh che con quest’opera ha lunga dimestichezza. È il primo suo Verdi alla Scala. Sono stati aperti tutti i tagli, evidenti soprattutto nel primo atto: duetti e lunghe scene esplicative guidano un po’ nei meandri, peraltro inaccessibili, della storia.
Chung, allievo prediletto di Giulini, è un grande direttore. Anche singolare. Dice “Io non sono un organizzatore, di tante cose non mi intendo. Non discuto mai quello che avviene in palcoscenico. Io mi fido. Se mi dicono: ci sarà quel regista,va bene per te, io accetto. Il mio problema è studiare la mia musica. Sì, studio molto.” (Chung dirige le opere a memoria, come altri due o tre al mondo. Lo facevano Abbado e Kleiber. Lo fa Pappano). Chungh ha diretto il “Simone” con grande lievità, al servizio dei cantanti, che devono essersi trovati benissimo con lui.
Leo Nucci è un interprete immenso, certe sue frasi sono state da brivido. Carmen Giannattasio è parsa molto più eloquente di due anni fa (salvo ancora qualche sciabolata perforante). Giorgio Berrugi (Adorno) è un tenore eccellente, forse eccellentissimo. Anche Massimo Cavalletti (Paolo) non ha denunciato nessuna falla. Dmitry Beloselskiy (Fiesco) vocalità tipicamente slava (pareva Boris) ha tradito qualche vuoto nelle note bassissime. Eccezionale il coro. Nell’insieme è un bel cast. D’accordo, non fatemi pensare a quello degli anni ’70, perché allora non ci siamo più.
Dunque, dove tutta questa tristezza? Forse nel “Simone” prendi così a cuore tutti i patimenti di questa inverosimile storia che non ti pare più nemmeno melodramma. Non riesci a prenderli in giro, questi suoceri, padri, figlie, fidanzati. Anche se nemmeno i critici più scafati sono mai riusciti a decifrare le pazzesche vicende tra Fieschi, Grimaldi, Adorno, Boccanegra, Spinola e Doria, si partecipa come fossero faccende di casa. Per tirarsi su il morale potrebbe andar bene anche Katerina Ismailova o “Jenufa”. Non so se ho reso l’idea.
Teatro alla Scala – “Simon Boccanegra”, repliche 22, 25, 28 giugno, 1,5, 8 luglio.