“Aida” alla Scala. Peggio di così! Voci approssimative, afone o aspre o urlate. Danze? Soppresse. La regia? Cercasi

collage aidaMILANO, lunedì 16 febbraio  ♦  
(di Carla Maria Casanova) Alexander Pereira compare alla ribalta senza microfono. Sarà per dirci che ce l’ha fatta con la Turandot del 1° maggio? No, è per annunciare in prima persona l’improvviso abbassamento di voce di Fabio Sartori (Radames) e la sostituzione con Massimiliano Pisapia. Da quello showman che è (Pereira), dice che tutto andrà bene “con l’incoraggiamento del pubblico”. Applauso.
Poi inizia questa Aida, dichiarata da Peter Stein, in conferenza stampa, “non come quella di Zeffirelli” (e qui avrebbe dovuto specificare “non come” quale, visto che a Zeffirelli si devono le due più belle Aide della storia: quella “large”, Scala 1963, con scene/costumi di Lila de Nobili, e quella “small” al teatrino di Busseto, 2001, dove si verificava il più fantasmagorico trionfo mai prodotto in scena, solo immaginato grazie a un sublime accorgimento registico). Dunque l’Aida di Peter Stein “non come quella di Zeffirelli”. La regìa non c’è. Quando c’è, è sbagliata. Stein ha tolto le danze del trionfo per fatti suoi personali, cioè perché gli procuravano, fin da bambino, dei traumi psichici. Affari suoi. Zubin Metha, in conferenza stampa, ha dichiarato che anche a lui le danze di Aida sono sempre state sul piloro (attendibili testimoni riferiscono però che due settimane fa, in Cina dove dirigeva Aida, Metha pareva imbufalito per il taglio delle danze di Aida…).  A Stein si è fatto osservare per amenità che, alla Scala, le danze di Aida avevano un forte atout nella presenza di Bolle, di estremo gradimento per le signore e non solo. Pausa. Poi Peter Stein in un sussurro “Cos’è Bolle?” Come si vede, tutto è relativo.
In questa Aida, le scene (di Ferdinand Woegerbauer) sono lineari, geometriche, con forti tagli di luce. Ci sono molte scale e il sotterraneo come di dovere. Domina un grande sole (o luna, secondo i momenti). I costumi (di Nanà Cecchi) sono coloratissimi, a parte i bianchi dei sacerdoti e quelli marrone del popolo. Ma vogliamo mettere un niente di tacco al minuscolo sostituto di Radames?
C’è infine da tener conto che in Aida bisogna cantare. Questo cast, nel complesso (persino il pluridecorato Coro era approssimativo) ha dato l’impressione di essere un’accozzaglia di urlatori. Kristin Lewis (Aida) una negretta che in privato sfoggia un look da Barbie rutilante di fronzoli e perline, ha una voce asprigna e sgraziata. Si salva con bei filati dai lunghissimi fiati; Pisapia sorvoliamo: ha già fatto molto sostituendo. Tonitruante George Gagnidze (Amonasro). Matti Salminen (Ramfis) è un grande nome. Ma non lo si scrittura più se non c’è più la voce. “Poverino, è vecchio”, non è una buona ragione, e comunque ha 70 anni, non 120. Carlo Colombara, (il Re) invece funziona. E funziona Anita Rachvelishvili (la famosa Carmen del 2009). Funziona, almeno, nella sua scena dell’ultimo atto, quella dove, se l’interprete “c’è”, se li mangia tutti. Qui il compito, visto il cast, non era arduo, ma lei è stata intensa, convincente, appassionata. La più applaudita. Mehta alla Scala lo applaudono sempre. Il nome è una garanzia. Ha accettato di sostituire lo scomparso Maazel, e fa la spola tra Napoli (Tristano dal 22 febbraio) e Milano. Però non glielo ha ordinato il dottore, questo tour de force. Anzi, un dottore forse lo avrebbe sconsigliato.

“Aida”, di Giuseppe Verdi. Teatro alla Scala, Milano. Regia di Peter Stein. Direttore Zubin Mehta. Repliche: 18, 21, 24 febbraio, 1,11,15 marzo