
Una scena di “For Those Who Can Tell No Tales”, il film che ha inaugurato a Lecce, fuori concorso, il XV Festival del Cinema Europeo
(di Paolo Calcagno) Urla e lacrime sono dimenticate. Il sangue versato, ignorato. A Visegrad, al confine tra la Bosnia e la Serbia, il ricordo degli stupri di massa e dei massacri è sepolto dal velo nero della rimozione. Il lutto non soltanto non è stato elaborato, ma viene addirittura negato. La memoria del dolore è un “extra dividend” che la gente del posto non può e non vuole permettersi. C’è, però, nell’aria l’incubo dell’orrore, le vibrazioni del terremoto dell’anima, come se in quel luogo si materializzasse la soglia dell’inferno. “For Those Who Can Tell No Tales”, per quelli che non hanno storie da raccontare, che non possono (perché sono morti), o che non vogliono (perché preferiscono fingere che non siano accadute), la regista di Sarajevo, Jasmila Zbanic, Orso d’Oro a Berlino, nel 2006, con “Il Segreto di Esma”, ha illustrato in immagini la negazione della memoria con il suo nuovo film che ha inaugurato, fuori concorso, in anteprima italiana, il 15mo Festival del Cinema Europeo, a Lecce.
Il titolo del film è tratto dal primo romanzo del Premio Nobel Ivo Andric (l’unico dei Balcani per la letteratura), “Il ponte sulla Drina”. E lungo i 180 metri di pietre levigate che collegano le sponde della Srpska di Bosnia passeggia, sgomenta, la turista australiana Kym Vercoe, volata fin lì da Sydney, sospinta da misteriose e irrefrenabili suggestioni, attratta da una vacanza che le squarcerà la coscienza.
Il film è stato progettato nel 2012: circa vent’anni prima, lungo tutto il ponte, furono sdraiati i cadaveri di 1785 musulmani, torturati e giustiziati (la cosiddetta “pulizia etnica”). E le cronache di allora raccontano che su quel ponte medievale, costruito su undici arcate nel XVI secolo dal gran visir Mehmed Paša Sokolovic, non si riusciva a restare in piedi, che il sangue era talmente tanto, e sparso ovunque, che aveva reso quelle pietre scivolose impraticabili per qualsiasi tipo di scarpa, o scarpone. La turista australiana segue la guida di Tim Clancy che, ovviamente, evita di “sporcare” con dei macabri riferimenti storici la stimolante descrizione di quel prodigio di architettura. Sempre su quella guida, Kym si fa allettare dall’invito a trascorrere “una notte romantica” nell’hotel Vilina Vlas, nei dintorni di Višegrad. Anche stavolta il buon Clancy omette di aggiungere che, quando esplose la guerra civile in Bosnia, nelle stanze di quell’albergo furono rinchiuse stuprate e uccise 200 donne (ancora “pulizia etnica”) e che alcune di esse, in preda al terrore, si lanciarono dai balconi per porre fine ai supplizi inferti dai “fratelli serbi”. Quando Kym scopre le barbarie commesse in quel luogo decide che non può continuare a sentirsi una turista in vacanza. Tenta di saperne di più, ma viene fermata e trattenuta dalla polizia che la deride quando la ragazza accenna agli eccidi.
“Pochi mesi fa, alcuni cittadini avevano costruito una specie di stele su una proprietà privata. Sono arrivati in cento poliziotti per cancellare la parola “genocidio”. Il governo sta tentando di occultare i crimini perché chi li ha commessi, o ha permesso che venissero commessi, fa attualmente parte delle istituzioni di polizia, giudiziarie, educative e politiche”, ha commentato Jasmila Zbanic. Il film è tratto da una storia vera, messa in scena da Kym Vercoe che, poi, è diventata la protagonista del film della Zbanic, quando la regista ha deciso di portarla sullo schermo.
“Siamo stati avvisati che fare un film come questo sarebbe stato molto pericoloso e che non eravamo al sicuro a Visegrad – ha aggiunto Jasmila Zbanic -. Ma il film doveva essere girato a Visegrad e abbiamo deciso di correre il rischio. Non abbiamo detto agli abitanti di Visegrad che tipo di film stavamo girando e un mio amico serbo si è prestato a fingere di essere il regista del film. Ho voluto realizzare un film sulla Bosnia di oggi, non su quella del passato. Abbiamo bisogno di dialogo, i giovani hanno bisogno di sapere e di capire, e tutto ciò non è possibile se si nega la storia. Non è questa la strada per superare ciò che di terribile è stato commesso durante la guerra. Era questo che volevo mettere in evidenza e ho pensato che lo sguardo di una straniera, un’australiana, non di parte, poteva raggiungere lo scopo con maggiore serenità ed efficacia”. Le immagini del film sono belle, ma il coinvolgimento di Kym Vercoe è poco emozionante. Il problema del film di Jasmila Zbanic è lo sguardo “neutrale” della protagonista: non è sufficiente ad informare adeguatamente lo spettatore su quanto è accaduto da quelle parti, oltre vent’anni fa. “For Those Who Can Tell No Tales” manca di rievocazione, di ricordi che informino quanti sanno poco o niente (la maggioranza dei giovani) degli orrori commessi in Bosnia, in nome della “pulizia etnica”. Il film è un ibrido e questo è il suo limite: per metà è réportage, per metà è fiction. La sua debolezza principale sta nel non essere abbastanza profondo, in quanto réportage frenato dalla fiction; né efficacemente coinvolgente, in quanto fiction appesantita dal réportage.
“For Those Who Can Tell No Tales”, regia di Jasmila Zbanic, con Kym Vercoe. Bosnia 2013