
Manuela Mandracchia, applaudita protagonista di Hedda Gabler al Piccolo Teatro Grassi (foto
Tommaso Le Pera)
(di Paolo A. Paganini) Dall’inferno borghese di Henrik Ibsen, con i suoi drammi sociali offuscati da una perenne infelicità, con i suoi disperati e perdenti personaggi schiacciati dal male di vivere, l’enigmatica e incomprensibile Hedda Gabler, con le sue insoddisfazioni, con la sua annoiata alterigia, si erge con la potenza di un perenne femminino che, da Euripide a Shakespeare, sfugge ad ogni tentativo di catalogazione, ad ogni categoria. Classica e modernissima nello stesso tempo. Il dramma, in quattro atti, è del 1890! Il punto esclamativo è di rigore. Quando l’Europa, e l’Italia in particolare, cincischiava in goderecci vaudeville e nei mollicci drammi borghesi di una provincia senza ideali, più bigotta che morale, più moralistica che capace di virili sentimenti, ecco dalla Norvegia il rivoluzionario Ibsen a sconvolgere il quietismo dei benpensanti. E, soprattutto, ecco questa “Hedda Gabler” (ora in scena al Piccolo Teatro Grassi, la sede storica di Via Rovello). Allora, più di un secolo fa, suscitò scandalo. Oggi, continua a turbare gli animi degli spettatori, pur così smaliziati, così cinicamente indifferenti e così disinteressasti a penetrare gli abissi dell’anima umana. Eppure Hedda Gabler ci impone uno sforzo di penetrazione psicologica. È un trattato vivente di psicoanalisi, senza arrivare a niente. Come gli stessi personaggi di contorno: il marito, nel limbo inconcludente dei suoi studi letterari, incapace di capire (e soddisfare) la moglie; l’ex amante di Hedda, dissoluto e geniale scrittore, incapace di vedere l’adorante donna che si è sacrificata a lui; il giudice amico di famiglia, che aspira a un comodo e non impegnativo triangolo amoroso con Hedda e marito, incapace di intuire il pericoloso dramma che sconvolge la mente della donna; la vecchia zia del marito, che ha impegnato i propri beni (Sorella Materassi ante litteram) per aiutare nella carriera il giovane nipote, incapace di vederne l’inconcludente velleità letteraria. E in questo marasma di umani fallimenti solo la vita è abile maestra nell’architettare i suoi giochi beffardi. Come sempre. Così, l’ex amante di Hedda, armato e spinto a una morte eroica dalla donna, finisce con il far partire il colpo d’arma da fuoco in una casa di malaffare, bruciandosi il basso ventre e finendo dissanguato. Così la giovane inconsolabile amante del suicida, che troverà conforto negli appunti letterari dello scomparso (e forse nel novello vedovo: unico possibile lieto fine dell’inferno ibseniano). Così l’ipocrita giudice amico di famiglia, che si vedrà sottratta l’ambita preda, dopo che un ultimo colpo di pistola brucerà le cervella di Hedda, preferendo la certezza della morte all’incomprensibilità della vita… In quasi due ore e mezzo con un intervallo, Hedda Gabler, cavallo di battaglia da un secolo di tutte le primedonne europee (in Italia a cominciare da Eleonora Duse fino a Valeria Moriconi), ora è interpretata da una incredibile Manuela Mandracchia, duttile e fantasmagorica prestidigitatrice di una infinità di sfaccettature interpretative (anche se talvolta a scapito di una perfetta intelligibilità vocale). Accompagnata, in ordine di personale gradimento, da Jacopo Venturiero (il marito) e Luciano Roman (il giudice), ma bene e correttamente affiatati: Federica Rosellini, Simonetta Cartia, Massimo Nicolini e Laura Piazza. La diligente regia di Antonio Calenda, senza strafare, ha privilegiato oneste atmosfere, puntando soprattutto sulle sfumature psicologiche e sulla bellezza del testo. Applausi alla fine per tutti.
Si replica fino a martedì 15.