MILANO, venerdì 15 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) Come può una commedia, apparentemente semplice e lineare, come “L’Uomo, la Bestia e la Virtù”, che Pirandello trasse dalla sua novella “Richiamo all’obbligo”, offrire un così impensabile, vasto repertorio di possibili, e perfino scabrose, chiavi di lettura? Eppure, fin dall’inizio, nel 1919, scatenò consensi e polemiche, sia per l’intima drammaticità dell’opera sotto le apparenze della pochade, in una continua sospensione tra farsa e tragedia, tra satira e grottesco, sia per i contenuti di un più profondo e delicato dibattito interno alla struttura della commedia stessa, la quale ha l’andamento di un racconto boccaccesco e d’una tipica vicenda di corna all’italiana, ma lascia scorrere sottopelle il sangue acre e pesante dell’ipocrisia e del perbenismo.
Ciò apre, giocoforza, più intime e delicate riflessioni su morale e moralismo, temi sempre ostici e scorbutici da trattare, specie in teatro. E qui l’andamento comico dell’Uomo, la Bestia e la Virtù non inganna nessuno. La commedia è intimamente impostata su morale e moralismo, che sono le forme degradate, talvolta enfatizzate, della virtù. La morale può essere un valore, il moralismo è il suo caricaturale disfacimento. La morale crea i puri di cuore, il moralismo genera mostri. La morale inventa i santi, il moralismo partorisce i fanatici, ma anche sublimi capolavori, come il “Tartufo” di Molière. E come, appunto, “L’uomo, la bestia e la virtù” di Pirandello.
La storia. Il modesto e integerrimo professor Paolino dà lezioni di grammatica allo svogliato figliolo dell’ancor giovane e piacente Signora Perella, la quale ha un marito che non vede quasi mai, essendo capitano di lungo corso per mari e oceani, dove, tra una sponda e l’altra, s’è fatto qualche altra famiglia. Ora sta tornando a casa, solo una notte, per un breve saluto alla famiglia legitima. Ma il suo arrivo può scatenare un dramma: la donna è incinta del morigerato Professor Paolino, il quale s’impegna “moralmente” e praticamente di salvare la faccia a sé e all’amante, e dare un padre legittimo a quel figlio che sta per arrivare e che cercherà di rifilare al Capitano. Come? Costringendo quella “bestia” di capitano a copulare quella notte stessa con quella moglie della quale non vuol più sapere da anni. Non sarà facile. Ma con un potente afrodisiaco il capitano onorerà alla grande i suoi doveri coniugali. L’onore è salvo, la morale,le apparenze e la rispettabilità hano trionfato. Il figlio in grembo alla Signora Perella avrà nell’ignaro Capitano Perella un padre legittimo…
Sarà anche semplice, comico, ironico questa licenziosa istoria, ma il racconto si apre talvolta su abissi di drammaticità, intriso inoltre di sottili filosofemi, tant’è che la commedia pencola ora di qua ora di là, ora sulla più sguaiata risata ora su uno sconcertante disagio morale, ora su una incombente tragedia ora su un farsesco raggiro, tipo “Mandragola” di Machiavelli. Ma Pirandello sa sempre infine raddrizzare la navicella con l’invenzione di qualche sberleffo, che giustifica tutto il lavoro drammaturgico. Come qui la trionfale conclusione dei cinque vasi dei fiori… Vedere per credere. E infine, dei tre protagonisti: qual è l’Uomo, qual è la bestia, qual è la virtù?
In Pirandello questi caratteri sono omogeneamente armonizzati fra di loro. E così sembrerebbe ora, al Manzoni, nell’interpretazione di Geppy Gleijeses, Marco Messeri e Marianella Bargilli, regia di Giuseppe Dipasquale, su una scena spoglia ed essenziale di Paolo Colafiore (ma quando una vicenda prende nessuno ci fa caso), costumi di Adele Bargilli (discutibili, ma come s’è pensato di vestire Geppy così male?). E anche stavolta, dopo tante edizioni di successo viste in passato, i consensi della platea sono assicurati. Soprattutto per merito di Geppy Gleijeses, in assoluto stato di grazia per verve comica e amari risvolti di più intensa drammaticità.
Ma qui avanziamo anche le nostre riserve.
La felicità comica di Gleijeses rivela anche i limiti di una mess’in scena che ha puntato su un dispersivo repertorio di gag variettistiche e di sfaccettature grottesche, che lasciano subito intendere la cifra caricaturale privilegiata dal regista, specie nella prima parte. Ma il testo non la supporta, non la può supportare. Tant’è che sulla farsa, o sulla comicità, come volete, nella seconda parte della commedia prevale la condanna satirica del perbenismo, dell’ipocrisia, del moralismo, che schiacciano ogni voglia di ridere, anche se gli interpreti ce la mettono tutta per far prevalere la chiave ridanciana, che però si ripiega sempre sull’amaro di una satira, che non si risolve con il “castigat ridendo mores”. Ma il dialogo finale del Prof. Paolino e del Capitano Perella (che magistrale intepretazione di Gleijeses), in una traslucida alba glaciale dopo una drammatica notte di aspettative, diventa un inarrivabile capolavoro di ipocrisie e, se lo si guarda bene, una spietata condanna di questi invertebrati molluschi del perbenismo corrente. Oggi come ieri. Tanto che, in ultima analisi, quasi quasi si prendono le parti del Capitano Perella, non più Bestia ma Uomo.
Al gioco delle perfidie pirandelliane fanno parte con generosa partecipazione, oltre ai tre citati protagonisti, Renata Zamengo, Francesco Benedetto e Vincenzo Leto.
“L’Uomo, la Bestia e la Virtù”, di Pirandello, con Geppy Gleijeses, Marco Messeri e Marianella Bargilli, regia di Giuseppe Dipasquale. Al Teatro Manzoni, Via Manzoni 42, Milano – Repliche fino a domenica 31 gennaio.