Alla Fenice. Orfeo, protagonista assoluto, con Cecilia Molinari, e regia classica di Pizzi. Lieto fine: trionfa Amore

VENEZIA, sabato 29 aprile ► (di Carla Maria Casanova) È spettacolo breve: 70 minuti. Non per questo meno affascinante o godibile. Anzi. Pierluigi Pizzi, che lo mette in scena a La Fenice firmando regia, scene e costumi, l’ha voluto in un atto unico.
Per Pizzi, questo Orfeo ed Euridice di Gluck, libretto di Calzabigi, è argomento più che noto. Al mito di Orfeo si è infatti avvicinato da anni, collaborando tra l’altro a quello spettacolo (per lui era il primo), che resta forse il massimo mai realizzato (1976, Maggio Musicale Fiorentino, regìa Luca Ronconi, direttore Riccardo Muti), quello spettacolo, tanto per ricordare, tutto superfici specchianti nere e con entrambe le protagoniste che esibivano, oltre alle voci femminili, pure le vesti: ampie sottane nere di foggia ottocentesca. Fu una realizzazione epocale. Da allora Pizzi è tornato sull’Orfeo più volte, spaziando anche tra altri compositori (Antonio Sartorio, Claudio Monteverdi, Ferdinando Bertoni, fino al contemporaneo Lorenzo Ferrero…).
Un mito che Pizzi ce l’ha nel sangue.
Lavorando con Ottavio Dantone sul podio (come già avvenuto a Ravenna e a Spoleto) pure la cifra scenica esige un certo rigore stilistico lontano dalla fantasia ridondante del barocco. D’altronde Pizzi è, per antonomasia, eleganza classica. Così l’ambientazione di questo Orfeo, con l’iniziale evocazione poetica di un cimitero, con i sepolcri all’ombra dei cipressi foscoliani, e la facciata dell’architettura rinascimentale che si manifesta nel finale, tutto in un evanescente grigio-azzurro su cui giocano imponenti cumuli di nubi.
Bellissimo l’effetto dei vapori bianchi che intervengono a coprire le scene per svelare nuovi ambienti. Essenziale il lavoro del lighter designer, Massimo Gasparon.
Nello svolgere dell’azione anche scenica, l’interesse di Pizzi è tutto per Orfeo, reale protagonista, mentre quella cretinetta di Euridice con l’ossessiva richiesta di vane attenzioni perde tempo fino a vanificare l’impresa dell’amato sposo: Euridice sprofonda di nuovo nell’avello e tutto è perduto. Ma questa versione dell’opera ha il finale ottimista: quando Orfeo sta per suicidarsi per aver perduto Euridice per la seconda volta e definitivamente, sopraggiunge Amore con la buona notizia: gli dei si sono commossi e acconsentono alla riunione dei due sposi. Tutti felici e contenti.
Pizzi propone Orfeo rigidamente vestito di nero, come lo è Amore, costui con la vezzosa variante dei calzini rossi (i calzini rossi sono una fissa di Pizzi), mentre Euridice veste l’immancabile abito bianco.
Grande importanza ha il coro, sempre presente. Pizzi lo ha ubicato quasi in proscenio, molto visibile, seppur discretamente anonimo, in vesti e mantelli grigi. Le celebri danze ovviamente ci sono ma con qualche saggio taglio.
Edizione dell’opera che rinuncia allo splendore visivo per privilegiare in modo particolare la musica. Come sempre nel teatro barocco, i personaggi non ci commuovono più di tanto, lui nel suo tragico rimpianto e lei nell’infantile incomprensione. Difficile farne una storia cui prendere emotivamente parte. Ricordo di aver visto un Orfeo, non so più quale, dove ad Euridice era stata imposta una reazione decisamente nuova nel senso che lei era molto seccata di essere richiamata dagli Inferi non avendo nessuna voglia reale di ritornare in vita. È una tesi da non lasciar perdere.
Dunque la musica: Dantone, si diceva, uno dei clavicembalisti più apprezzati della sua generazione, è anche tra i più esperti interpreti di questo repertorio. Approvando l’eliminazione dei recitativi secchi che mette sullo stesso piano emotivo canto e concatenazione degli eventi, Dantone dà il massimo rilievo all’orchestra, elemento attivo in continuo divenire in stretta cooperazione con le voci per tutto lo svolgimento dell’opera. Voci che hanno un ruolo importante, soprattutto quella di Orfeo, protagonista assoluto. Per lui oramai si preferisce, dopo tanti cambi (controtenore, tenore, soprano o mezzosoprano) il ruolo femminile di mezzosoprano, ben differenziato da quello sopranile di Euridice. Qui Orfeo è Cecilia Molinari, dal prestigiosissimo curriculum (diploma di flauto traverso e, diciassettenne, diploma di canto lirico con il massimo dei voti, lode e menzione, scelta da Alberto Zedda per frequentare l’Accademia rossiniana di Pesaro, impegnata subito nel grande repertorio barocco). Ha voce asciutta e sicura cui si riconosce anche intensa espressività, evidenziata nella celebre aria Che farò senza Euridice (leit motiv dell’opera). È qualità raramente presente nel canto delle virtuose barocche.
Euridice (parte minore) è la giovane Mary Bevan, già molto impegnata in questo repertorio in campo internazionale. Bene anche Silvia Fregato (nel brevissimo ruolo di Amore). Vincitrice del concorso di canto barocco Francesco Provenzale 2007, è impegnata nel progetto Monteverdi 450 ed è oramai attiva in Italia e all’estero. L’Orchestra e Coro sono del Teatro La Fenice.
Con un cast di realizzatori così qualificati è ovvio che lo spettacolo sia un successo.
Repliche domenica 30 aprile e sabato 6 maggio alle ore 15.30; martedì 2 maggio e giovedì 4 maggio alle ore 19.00.