Alla Scala: dittico di Ravel. Un’ora “spagnola”. E poi una sorprendente fiaba: una magia di suoni, dal minuetto al jazz

L'heure espagnole

Stéphanie D’Oustrac in “L’heure espagnole” di Ravel. 

MILANO, mercoledì 18 maggio ► (di Carla Maria Casanova) Serata Ravel alla Scala. Roba fina. Guarda caso, non un pienone oceanico, in sala. Però alla fine sperticati, e doverosi, applausi. In cartellone L’heure espagnole e L’enfant et les sortilèges, operine brevi spesso felicemente abbinate. Alla Scala si sono viste raramente (ultima volta insieme addirittura nel 1978, poi L’enfant in forma di concerto nel 1992). Praticamente delle novità.
L’infanzia trascorsa a Ciboure (minuscolo borgo in riva al mare nel dipartimento dei Pirenei Atlantici) dove era nato, aveva lasciato in Ravel viva memoria delle impressioni della musica popolare spagnola, che ritorna sovente nelle sue composizioni, tuttavia, in questa “Ora” benché specificata “spagnola”, a emergere è piuttosto il frizzante gusto francese. Anzi, fu proprio dopo la prima all’Opéra Comique (1911) che a Ravel fu riconosciuta una posizione eminente nella moderna musica francese. L’opera venne rappresentata obtorto collo, dopo esser stata rifiutata per quattro anni, a causa del soggetto “scabroso”, che Ravel si era rifiutato di censurare. Si tratta della moglie di un orologiaio che, in assenza del marito, si dà invano da fare con due millantati amanti. Finché non arriva un mulattiere con bicipiti, e altro, a tutta prova il quale – il soggetto è sempre il mulattiere – dopo aver più volte trasportato su e giù delle enormi pendole (con dentro gli amanti di lei, ma lui non lo sa) finisce per soddisfare la scalpitante orologiaia.
Quando, debellate le censure, L’heure finalmente comparve sulle scene, esplose la verve personalissima di Ravel (niente a che fare con Debussy). Stravinskij, alludendo in particolare a L’heure espagnole, chiamava il collega “orologiaio svizzero” per la sua scrittura minuziosissima. In verità Ravel osa molto di più, giocando tra piccante fantasia ed effetti comici e strizzando l’occhio a un certo erotismo musicale.
Non così ne l’Enfant et les sortilèges, quantunque appaia 15 anni più tardi. Balletto più che opera, è un capolavoro di poesia, una vera magia di suoni, dove si succedono a ritmo di danza (dal minuetto al jazz, fox-trot, valzer, ma anche la polifonia e il rococo). Il tutto limato da estrema finezza. La storia è una fiaba, scritta da Colette, a metà strada tra Alice e Pinocchio. L’enfant è un bambino che non vuole fare i compiti ed è uso compiere malefatte. La mamma lo castiga rinchiudendolo nella sua stanza dove il bambino si addormenta e il suo sonno si popola di tutte le creature, animali e vegetali, da lui tormentate. Finché (vedi redenzione del burattino Pinocchio) non lo scagionerà un suo imprevisto gesto d’amore. Lo spettacolo proposto dalla Scala è una recente produzione del Glyndebourne Festival firmata da Laurent Pelly ed è incantevole. Molto fiabesca, come ha da essere. Quando arrivano in scena animali e piante e oggetti “umanizzati” è sempre fiaba, si sa. Qui la vivacità del racconto e delle immagini si fa davvero sorprendente e piace moltissimo.
Nel cast, solo artisti francesi, da Stéphane d’Oustrac, Yann Beuron, Jean-Luc Ballestra (L’heure Espagnole) a Marianne Crebassa (L’enfant) contornata da uno stuolo di solisti.
Nostro, vale a dire della Scala, è il coro, come sempre istruito dal vigilatissimo Bruno Casoni.
C’è da dire che a capo dell’Orchestra della Scala c’è Marc Minkowski, un passato da fagottista, fondatore, nel 1982, de “Les Musiciens du Louvre”, ensemble specializzato nel repertorio barocco francese e oltre. Si è anche specializzato in compositori del XIX secolo e questo suo modo di far musica, colto, attento e immaginario, si addice moltissimo a quello raffinato e scrupoloso di Ravel. Insomma, il dittico in cartellone alla Scala, da vedere e da ascoltare.
Repliche: 20, 22, 24, 26, 31 maggio; 3, 6 giugno.