Alla vigilia dell'”Opera da tre soldi” rileggiamo gli scritti di Brecht del ’62. Una nuova poetica: un teatro socio politico

11.4.16 collage brecht(di Andrea Bisicchia) Quando nel 1962 uscì la prima edizione italiana dei saggi di Bertolt Brecht (1898-1956), la mia generazione capì quanto il teatro, non solo europeo, fosse debitore a chi aveva dato uno scossone, non soltanto a un certo modo di concepire la scena, ancora legato allo psicologismo, anche se di alta fattura critico estetica, quanto a una visione ideologica della messinscena.
Nell’anno del suo centenario, che ha visto grandi spettacoli come “Il Galileo” di Lavia e “L’opera da tre soldi” che sta per andare in scena allo Strehler, regia di Michieletto, con altri meno elefantiaci, ma certamente altrettanto importanti, come “Il Signor Puntila e il servo Matti” dell’Elfo, o come “Baal”, “Terrore e miseria del terzo Reich”, “Vita di Edoardo II”, “La Madre”, “L’eccezione e la regola”, “Brecht Time”, andati in scena al Franco Parenti come una vera e propria monografia dedicata all’autore di Augusta, mi sembra opportuno ritornare sugli “Scritti teatrali” con una seconda lettura, che ormai i miei lettori conoscono come metodo critico, dato che, a distanza di anni, ti permette nuove considerazioni, oltre che nuove riflessioni sul significato del teatro oggi, sulla sua capacità di cambiare il mondo, sulle sue potenzialità formative e, perché no, sullo stesso destino dell’uomo.
Brecht, in quegli anni, si scagliava contro il virtuosismo registico, contro la grandeur spettacolare, dato che ambiva a una nuova sintassi scenica che sapesse descrivere il mondo, concepito, non più come un fatto di origine filosofica o teologica, bensì socio politica, essendo convinto che il fine del teatro fosse, non soltanto quello di rappresentare, quanto di trasformare lo spettatore e, quindi, di modificare la società, mettendo in questione il “culinarismo” e sostituendo il “figurato” con il “formulato”.
Per raggiungere questi risultati, la forma epica era, a suo avviso, la sola che potesse esprimere simili processi e proporsi come metodo per accogliere, entro di sé, “il saggio”.
Ecco il punto, la regia deve avere questo compito, essendo una categoria che la distingue dal regista, per la sua capacità creativa, ben diversa dalla capacità professionale. Creare, per me, significa saper scrivere sul palcoscenico un “saggio”, da “leggere” piuttosto che da “vedere”, capacità che è dello studioso che scrive il saggio in un libro. Brecht discuteva per “assoluti”, tanto che per lui la regia doveva coincidere col sublime, quello socio politico, il cui compito era quello di sostituire il sentimentale o il moraleggiante con la sentimentalità e la morale e di trasformare le sensazioni in pensiero, in impegno, da opporsi al “ culinario” e al “merceologico”. Per Brecht, anche la didattica e la scienza sono indispensabili al teatro che ha il compito, però, di tradurle in poesia, evitando i canoni aristotelici fondati sull’immedesimazione.
Per questo motivo, diventa necessaria la “distanza epica”, la medesima che la grande tragedia greca raggiungeva con l’utilizzo del mito. Per ottenere simili risultati, Brecht non disdegnava il divertimento a patto che non lo si degradasse, dato che esistono dei divertimenti deboli e divertimenti forti, i soli che possono raggiungere la sublimazione, non essendo i teatri luoghi di svago, ma spazi in cui si mostra la struttura di una società. Simili accorgimenti furono messi in pratica da Strehler col “Galileo” e la prima edizione dell’”Opera da tre soldi”, da Squarzina con “Madre coraggio” che avevano rispettato i canoni brechtiani, successivamente la lingua teatrale ha trovato tanti punti di fuga, sentendosi più libera di interpretare Brecht.

Bertolt Brecht, “SCRITTI TEATRALI”, Einaudi, 1962, pp 223. (Alla vigilia del debutto di “L’opera da tre soldi”, regia di Damiano Michieletto, in scena al Piccolo Teatro Strehler il 19 aprile 2016).