All’inizio sembrava quasi una conferenza sulla “fiaba”, seria e ineccepibile. Poi, tutto è andato allegramente a puttane

Etienne Fague, Erik Gerken e Camille Trophème in una scena del terzo allestimento di Nathalie Béasse all’Arsenale

VENEZIA, lunedì 31 luglio ► (di Paolo A. Paganini) “Tout semblait immobile”, Tutto sembrava immobile. Appunto:” sembrava” immobile. Poi ne succedono di ogni.
Lo conferenza-spettacolo (un’ora) comincia come una normale e pedantesca disquisizione di tre accademici super-titolati. Entrano con il pubblico già raccolto. Si accomodano al tavolo, tirando fuori libri, saggi e pandette, tutti frutto della loro sapienza. E via a cominciare.
La storia del teatro ci aveva già amenamente preparati, con tante lezioni-conferenza, a non stupirci più di niente, da Cechov (“Il tabacco fa male”) a Roberyt Athaide (La signorina Margherita), fino agli assurdi ed esilaranti microdrammi di Achille Campanile. Ma ora qui, alle Tese dei Soppalchi dell’Arsenale, la conferenza annunciata, che si avvia alla normale autoreferenza di tre importanti relatori, strada facendo, in mano alla regista ideatrice scenografa, e forse autrice del testo, prende altre pieghe, diventa altre cose da quello che poteva essere il contesto. A una prima lettura, da un punto di vista filologico, il canovaccio si presta ad interessanti considerazioni linguistiche. Si parla di strutturalismo, evocando Saussure e l’analisi diacronica dell’argomento in questione, che riguarda la fiaba, sotto il profilo della scrittura e della sua primordiale funzione di racconto orale. “Considereremo l’analisi strutturale del racconto, come Saussure sta alla linguistica“, spiegano, cominciando dal classico: “C’era una volta…”, in tutte le sue varianti linguistiche, diventate sinonimo di fiaba. E così si va da Perrault a Disney, ai Fratelli Grimm “Per ritrovarsi idealmente accanto al fuoco, in famiglia, con nonni e nonne, che raccontano storie millenarie ai nipoti… perché è nell’infanzia che si riceve l’essenza della fiaba“.
E saltan fuori, si fa per dire, le storie di Hansel e Gretel e racconti di bambini protagonisti e sempre in pericolo di vita, tra ululati di lupi, uragani dal vento sferzante, piogge battenti nella foresta, che deve essere sempre più fitta e minacciosa, tra dirupi e urla terrificanti. Per salvarsi, vengono perfino usate  briciole di pagnotta inutilmente disseminate lungo il sentiero, dove le migliaia di uccelli del bosco se le sono pappate…
A questo punto, i nostri tre conferenzieri sono tutti coinvolti dalla creativa anarchia della rivoluzionaria ed imprevedibile Nathalie Béasse, che ormai, al terzo suo spettacolo, dovremmo essere abituati a conoscere le sue posticce, ma talvolta azzeccate, invenzioni registiche.
Dunque i tre seriosi accademici, abbandonato Machiavelli e i suoi “i panni reali e curiali… di antiche corti delli antiqui homini”, cioè, smesso il tono aulico e professorale, vengono coinvolti nella nevrotica drammatizzazione di quelle stesse fiabe che stavano enunciando. Un una follia interpretativa tra tra cabaret, farsa, gag del varietà e scherzo goliardico. Si travestono, scambiandosi i generi, con mostruosi rigonfiamenti di forme steatopigiche, con falli enormi e pance e seni posticci. E intanto piovono dall’alto, dal ponte scenico, un albero, una massa di plastilina, con la quale l’ex compunto relatore cerca improbabili modellazioni, e un cesto sostenuto da una corda con minuti ritagli di carta, che viene fatto ondeggiare sulle teste degli spettatori. I quali, di scena in scena, sono sempre più scompisciati dal riso, da applausi, da urla d’entusiasmo. E, alla fine, plaudenti esuberanze da stadio.
Se al teatro, per riempire le sale, bastano una pancia finta e sguaiatezze popolar-sessuali (fatte salve la pulizia e fedeltà del linguaggio, encomiabile merito della Béasse), anche tentando – senza crederci e riuscirci – grasse comicità di antichi moduli, da Aristofane a Plauto, beh, annunciamolo: il teatro avrebbe risolto tutte le sue crisi. E sarebbe salvo. O no?