(di Andrea Bisicchia) – Le culture orientali si differenziano da quelle occidentali per l’uso del “verbomotore”, come lo chiamava Marcel Jousse (1886-1961), da intendere come gesto-motore da contrapporre alla scrittura, fondata sulla nozione di autore. Si tratta, in fondo, della riscoperta del linguaggio fisico, il medesimo che apparteneva alle civiltà tribali, la cui potenza comunicativa anticipava quella della oralità, ancor prima della affermazione del Logos, benché il linguaggio della tragedia non rinunziasse alla sua dimensione fisica, dato che la parola dei poeti, appena pronunziata, si trasformava in azione o, come diceva Aristotele, nella Poetica, in mimesis, ovvero in imitazione di una azione.
L’azione, secondo quanto sostiene Marcel Jousse, nel volume pubblicato da Mimesis: “Antropologia del gesto”, a cura di Antonello Colimberti, è il motore di tutto, dato che l’universo non fa altro che compiere azioni incessanti, a cui l’uomo si adegua conservandone il ricordo, consapevole del fatto che il conoscere non basta, se non è custodito nella memoria che, a sua volta, è produttrice del sapere.
C’è da dire che Maurice Blondel aveva dedicato un saggio alla “Azione” (1893), in cui il filosofo francese si confrontava con la “crisi del senso” che coinvolgeva tutta l’Europa, non disdegnando l’uso della prassi.
Jousse distingue il sapere libresco da quello che si apprende dal contatto reale con le cose, magari attraverso il gioco e vari rituali che fanno scoprire come l’unità di misura del linguaggio non sia la parola, ma il gesto, che egli chiamava “Il Ritmo-Mimismo”.
Il curatore, Antonello Colimberti, dedica la sua Prefazione a Ferdinando Taviani (1942-2020 ) che definisce “Maestro dell’oralità”, fondatore dell’Istituto del teatro antropologico, molto vicino all’Odin di Barba, anche lui è un antropologo del suono e del gesto, si capisce, pertanto, perché abbia voluto ricostruire la fortuna (non molta ) di Jousse in Italia, dovuta a interessi non sempre approfonditi, ma a richiami alla sua Opera da parte di Elémire Zola, Guido Ceronetti, Gino Stefani, per quanto riguarda la pedagogia musicale, e Marco De Marinis per quanto riguarda il teatro, il quale sostiene che il metodo di Jousse abbia influenzato il lavoro pedagogico di Jacques Lecoq, creatore del linguaggio mimico-gestuale, costruito su quello che Jousse definiva “ritmo vivente”, “parola vivente”, “trasmissione vivente della tradizione”, sintetizzato col termine “Mimismo” che, insieme al “Formulismo”, costituisce il nucleo essenziale, attorno al quale si sviluppa l’Antropologia del gesto e della memoria, oltre che la concezione del linguaggio come “ miraggio”.
A questo punto, Jousse distinguerà i vari stadi dell’espressione in: “Stile corporeo-manuale”, “Stile scritto”, “Stile orale”, sottolineando alcune leggi antropologiche come quelle del “Bilaterismo”, del “Mimismo” e del “Formulismo”, nuclei essenziali, insiste, attorno ai quali va sviluppandosi l’Antropologia del gesto.
Il volume è diviso in tre densi capitoli nei quali vengono, ulteriormente, spiegate queste formule con un linguaggio, quasi esoterico, accessibile agli adepti, che fa pensare a quello di Gurdieff (1866-1949), il cui insegnamento era costruito sul gesto rituale, quello delle religioni induiste, sufiste, ma anche cristiane.
Marcel Jousse, “L’Antropologia del gesto”, a cura di Antonello Colimberti, Mimesis 2022, pp. 426, € 32