Anche il linguaggio scenico insegue le trasformazioni sociali e tecnologiche. Sempre alla ricerca di nuove contaminazioni

(di Andrea Bisicchia) I linguaggi artistici si contraddistinguono per una loro specificità, oltre che per una loro appartenenza, essendo il risultato di pratiche antiche e moderne che non sopportano interruzione, benché risentano delle trasformazioni sociali e tecnologiche. Eppure, accade che alcune esperienze linguistiche abbiano finito per deragliare dai binari tradizionali, sottoponendosi a forme di ibridazione, di implosione e di accavallamento. È come se la lingua sentisse il bisogno di andare in cerca di nuove contaminazioni, di scenari diversi, anche inediti, di forme simultanee, magari l’una opposta all’altra.
Il romanzo, per esempio, ha scelto di intercalare i fatti di cronaca con la saggistica, all’interno della narrazione, diventando un genere alquanto spurio, come se, il racconto, che dovrebbe appartenere alla sfera del fantastico, avesse bisogno di confrontarsi con l’immediato della realtà, interpretandola, con andamenti di tipo saggistico (vedi, come esempio, “M”, di Scurati, che ha subìto, a sua volta, una trasposizione teatrale, data con successo, al Teatro Strehler di Milano).
Lo stesso, quindi, accade per il linguaggio scenico che, pur perdendo la sua specificità, che appartiene al potere della parola che diventa azione, ha acquisito il linguaggio offerto dalla tecnologia, con escursioni verso modelli impropri, ma necessari per il suo svecchiamento.
Qualcosa del genere accadde durante il 1600 quando la tecnologia del tempo, che faceva capo ad architetti come il Bernini, il Buontalenti, l’Aleotti, mise in crisi la “classicità” della parola, quella degli autori rinascimentali, con l’invenzione di vere e proprie macchine sceniche e con soluzioni ottiche sensazionali e stupefacenti.
Allora, come oggi, sono sempre esistiti degli artisti che hanno cercato di resistere agli incantesimi tecnologici per affermare una propria identità, che, pur essendosi aperta alla potenza della realtà virtuale, propria dei “nativi” digitali, si sono battuti per l’affermazione del proprio linguaggio scenico, pur considerandolo un linguaggio “liquido”, sempre attento a relazionarsi con le trasformazioni sociali e con la diversità del pubblico, che però, nell’ottanta per cento dei casi, non impazzisce, certo, per il virtuale, anzi non ne digerisce la sofisticazione, specie quella di alcuni registi che hanno improntato il loro linguaggio scenico a esperienze provenienti dall’Hi-tech che favoriscono le diverse contaminazioni.
Non c’è dubbio che, proprio come nel secolo barocco, il teatro abbia sentito la necessità di confrontarsi con le arti visive, quelle della pittura e dell’architettura, tutto questo a vantaggio del gusto di meravigliare e stupire. Sono le sensazioni che il pubblico prova dinanzi, ancora per fare un esempio, a uno spettacolo di Livermore, in cui l’apporto tecnologico e visivo ha la meglio sulla parola, vedi “Elena” o “Le Coefore” o “Le Eumenidi”, al teatro greco di Siracusa, o il “Macbeth” alla Scala, al contrario di certi spettacoli di Alessandro Serra, come “Macbettu” o “La tempesta”, nei quali, il potere del teatro, viene ancora assimilato a piccoli trucchi, con l’ausilio delle luci di una volta, con le musiche discrete che fanno da commento alla parola e al suo silenzio, dove il naturale vive in simbiosi col soprannaturale, grazie a un quadrato di legno che fa da palcoscenico, a dei costumi colorati che arrivano dall’alto, a una garbata visionarietà, alla perfezione compositiva, alla forza evocativa della gestualità, tutte cose che non abbisognano di alcuna tecnologia, trattandosi di elementi che appartengono, da secoli, alla scena e che nessuno potrà disconoscere.
E allora?
Forse aveva ragione Walter Benjamin, quando sosteneva che il progresso tecnologico aveva tutto appiattito, favorendo la creazione di un mondo finto e continuamente riproducibile.