(di Marisa Marzelli) Non era Fast & Furious la serie che mette al centro di mirabolanti e scanzonate avventure d’azione la solidarietà di una squinternata “famiglia allargata”? Ma l’idea vincente ha contagiato il sequel di Guardiani della galassia, denominato pomposamente “Volume 2”, manco il regista James Gunn fosse Tarantino.
Quanto a famiglie fumettistiche, Guardiani della galassia appartiene al mondo Marvel e, sugli schermi, al Marvel Cinematic Universe. Il bello, o il brutto, di questi universi impossessatisi del grande schermo, con infiniti seguiti e (per il momento) ancora con guadagni stratosferici, è che nel racconto spesso non esiste uno straccio di logica. Tutto è possibile, tutto è fattibile. Anche convincere il pubblico che si tratta del migliore intrattenimento possibile, il più divertente, il più fico. E infatti, appena uscito in Italia, il Volume 2 dei Guardiani ha fatto boom al box office.
Alla sceneggiatura e alla regia James Gunn, autore anche del primo capitolo e con tutta probabilità del terzo, già annunciato. Nella biografia del regista s’intravvede l’anima del film. Questo 47enne pure produttore, attore, musicista che sembra un ragazzino cresciuto a pane e videogiochi, ha fatto il giudice di reality, il cantante in una band fondata da lui e (dopo lo scioglimento) ha continuato a creare musiche per webserie e commedie assurde.
Il primo Guardiani della galassia (2014) aveva portata una ventata di novità ironica e anarchica tra i cinefumetti. Adesso, pigiando sul pedale di un’estetica post-moderna dell’immaginario pop (prevalgono i riferimenti agli anni ’80 e la colonna sonora è energeticamente azzeccata) si svolazza dall’icona Mary Poppins (citata esplicitamente) al cult Hellzapoppin.
L’umorismo c’è, ma il più delle volte è basic, a livello di adolescenti leggermente disturbati. Visivamente è spesso riuscito il tentativo di riproporre le suggestioni del fumetto, i suoi colori, il suo disegno che rende la dinamicità del movimento. Però è a livello contenutistico che si affollano i dubbi, non tanto sul prodotto (che punta, lecitamente, ad accontentare il pubblico di riferimento) ma sul godimento acritico dei fan.
Due ore abbondanti sono un po’ troppe, sebbene il ritmo sia sempre sostenuto e caotico con, nella parte finale, l’accentuazione di una certa vena emotiva. Quanto alla storia, naviga tra l’assurdo e il nonsense. La squadra dei guardiani, ormai consolidata, comprende il leader umano Peter Quill/Star Lord (interpretato dallo sfrontato Chris Pratt, una sorta di giovane Ian Solo di Star Wars); l’aliena Gamora (Zoe Saldana), Drax il distruttore (la star del wrestling Dave Bautista), l’irascibile procione Rocket (essendo in computer grafica, gli dà la voce originale Bradley Cooper) e Baby Groot, un alberello che pronuncia una sola frase, il tormentone “Io sono Groot” con la voce prestata da Vin Diesel, e che ha sostituito il Groot adulto (un albero semovente con connotazioni umanoidi) del primo capitolo. Non c’è dubbio che Baby Groot sia il personaggio più riuscito, la mascotte del gruppo. New entry Kurt Russell – di incredibile pacchianeria le scene iniziali in cui appare ringiovanito digitalmente, così kitsch da diventare “artistiche” – e Sylvester Stallone in un ruolo per ora marginale, ma potrebbe svilupparsi con l’evolvere della serie. Russell è un piccolo pianeta, ma può anche assumere forma umana (nemmeno gli dei dell’Olimpo erano arrivati a tanto), si chiama Ego ed è il padre di Chris Pratt. Il procione ruba batterie di proprietà di alieni ostili che, giustamente, se la legano al dito. Ex-nemici del primo episodio diventano alleati. Inutile poi elencare la serie di scontri, botti, lampi, fughe in astronave, alieni sgangherati, in un andirivieni senza capo ne coda se non per i continui battibecchi “in famiglia” e la sottotrama sentimentale costellata di finta indifferenza tra Pratt e la Saldana.
Tenere assieme gli sviluppi delle storie di ogni singolo personaggio non è facile, ma non è nemmeno l’obiettivo. Conta l’effetto d’insieme, la situazione folle, la parodia dei film supereroistici. E, di solito, quando si arriva alla parodia vuol dire che un genere è al declino. Altro indizio: quando si sente la necessità di sovraccaricare di tormentoni e divagazioni (tipo: Pratt crede che suo padre sia David Hasselhoff, ma chi è costui per un pubblico non statunitense? Risposta: è un attore, protagonista di serie tv popolarissime tra la fine del ‘900 e il nuovo millennio, come Supercar e Baywatch; ma anche noto per problemi di alcolismo) significa che la trama è ritenuta debole dagli autori e si cerca di rimpolparla con gag e depistaggi. E, se l’importante è esagerare, tra i titoli di coda il pubblico troverà – ammesso che non abbia già lasciato la sala – ben cinque brevi scene inedite, indizi per la sviluppo futuro della serie. Troppa grazia.
Anche se non esiste uno straccio di logica, a chi importa? In questi caotici cinefumettoni tutto è possibile, tutto è fattibile
28 Aprile 2017 by