MILANO, sabato 22 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Chissà se, fra cento, duecento anni, Andy Warhol sarà passato alla storia (dell’arte) come “il Raffaello della società di massa americana” (parole del critico e saggista Achille Bonito Oliva), oppure, molto più prosaicamente, come colui che prese un barattolo di zuppa (Campbell’s) e lo fece diventare un’icona. Sta di fatto che, comunque, questo newyorkese figlio di modesti immigrati slovacchi nato a Pittsburgh, in Pennsylvania, e morto nel 1987 a 58 anni, si annovera a pieno titolo come figura predominante della Pop Art nonché fra i più influenti artisti del XX secolo.
Così, dopo un’assenza di oltre dieci anni, ora Milano alla sua arte unica, coraggiosa e innovativa dedica, nelle sale della Fabbrica del Vapore, una bella e ricca mostra, che rimarrà aperta fino al prossimo 26 marzo. Oltre trecento opere, suddivise in sette aree tematiche, dai lavori degli anni Cinquanta (che realizzò come illustratore commerciale) al suo ultimo decennio di attività, connotato, nel pieno degli anni Ottanta, dal rapporto con il sacro.
Si tratta per la maggior parte di opere uniche: dai primi disegni alle icone di Liz, Jackie, Marilyn, Mao, Flowers, Mick Jagger, ai ritratti. Tele, carte, sete, fogli di latta, foto Polaroid, acetati. E l’intuizione vincente, che lo rese celebre e ricco: ripetere la medesima immagine più e più volte, in modo da farla entrare per sempre nella mente del pubblico. Così la sua celebre Monna Lisa si trasformò, ripetuta per ben trenta volte, da esclusiva opera d’arte in un’opera di tutti e per tutti, e il linguaggio della pubblicità si fece arte.
Come accadde, nel 1962, per la serie “Campbell’s Soup Cans”, composta da 32 piccole tele, tutte delle stesse dimensioni, raffiguranti ognuna l’iconico barattolo di zuppa. Per passare ai ritratti delle celebrità dell’epoca, inclusi Che Guevara, Michael Jackson, Elvis Presley, Brigitte Bardot, Marlon Brando, Liza Minnelli, fino a Grace Kelly, Farah Diba, Elisabetta II, Gianni e Marella Agnelli, gli stilisti Valentino e Armani. Emblematica, su tutte, la “Gold Marilyn Monroe”, conservata al Moma di New York, dove una delle donne più affascinanti della storia americana viene rappresentata su uno sfondo oro, come in una tavola del Trecento raffigurante una Madonna.
Per non parlare delle Brillo Box, sculture identiche alle scatole di pagliette saponate Brillo in vendita nei supermercati.
C’è tutto questo, e molto altro ancora, nella mostra milanese, inclusi “pezzi” storici come il computer Commodore Amiga 2000 con le sue illustrazioni digitali, la BMW Art Car dipinta dallo stesso Warhol (con video), e la ricostruzione fedele della prima Factory, lo studio al 231 East 47th Street di Manhattan, punto di ritrovo per artisti nonché sede di feste d’avanguardia, dove i collaboratori di Warhol davano corpo e vita alle famose serigrafie. Riproducendo su grosse tele, più e più volte, la stessa immagine e alterandone i colori, allo scopo di svuotare l’immagine stessa del suo significato originario, in omaggio al principio per il quale l’arte deve essere “consumata”, come qualsiasi altro prodotto.
Per dirla con lo stesso Warhol: “Ogni cosa ripete se stessa. È stupefacente come tutti siano convinti che ogni cosa sia nuova, quando in realtà altro non è se non una ripetizione”.
“Andy Warhol. La pubblicità della forma”, Milano, Fabbrica del Vapore, fino al 26 marzo 2023