(di Marisa Marzelli) Gli Stati Uniti devono sentirsi proprio in guerra se il mondo del cinema, con le sue stelle più brillanti, si mobilita con esaltazioni patriottiche, più o meno esplicite. Non ci avevamo fatto caso nel 2012 con l’oscarizzato Argo di Ben Affleck, che era anche un ottimo film e formalmente non di genere bellico. Ma ora, dopo il successo di American Sniper di Clint Eastwood, che una certa problematicità la mostra, arriva l’epica manichea di Unbroken, firmato e co-prodotto da Angelina Jolie (alla seconda regia).
Una costante c’è: biopic di storie vere, tratte da libri di successo, su personaggi diventati famosi in patria. Confezione impeccabile, ritratti a tutto tondo, tralasciando quelle zone d’ombra che anche gli eroi attraversano. Con Unbroken (imbattuto, indomito) la Jolie torna alla Seconda Guerra mondiale, raccontando, dal libro di Laura Hillenbrand Sono ancora un uomo (tradotto anche in italiano), l’incredibile storia dell’italo-americano Louis Zamperini, nato nel 1917, atleta alle Olimpiadi di Berlino nel 1936, soldato durante la guerra.
Quando il suo aereo fu abbattuto rimase nel Pacifico alla deriva con due commilitoni per 47 giorni, finché venne ripescato dai giapponesi e spedito in un campo di concentramento dove fu preso di mira da un sadico aguzzino, senza una motivazione che il film spieghi. Zamperini sopravvisse grazie a un’incrollabile resistenza fisica e psicologica. È morto a 97 anni, pochi mesi prima dell’uscita del film a lui dedicato.
Angelina Jolie realizza un’opera troppo lunga, asimmetrica, semplicistica (ma patinata) e celebrativa. Per un pubblico disposto a empatizzare senza farsi domande con l’eroe perseguitato. Che, detto per inciso, è molto ben interpretato dall’attore inglese Jack O’Connell. Sul piano tecnico la regia non si fa mancare niente, ricorrendo ai migliori specialisti, e Unbroken è in corsa per tre premi Oscar: alla fotografia dell’inglese Roger Deakins (dodici volte nominato all’Oscar), al miglior montaggio e montaggio sonoro. Stupisce invece che la sceneggiatura così priva di guizzi sia firmata dai fratelli Coen e da altri due nomi di spicco: Richard LaGravenese (la leggenda del Re pescatore, L’uomo che sussurrava ai cavalli) e William Nicholson (Il Gladiatore). Nicholson ha dichiarato in un’intervista che ognuno ha scritto una parte del progetto e i quattro non si sono mai incontrati personalmente. Forse per questo si ha l’impressione che Unbroken sia diviso nettamente in tre tronconi, con una breve coda finale ai giorni nostri.
Nella prima parte, da racconto di formazione, il giovane e ribelle immigrato rischia di diventare un delinquente, ma il fratello lo indirizza verso lo sport. Non mancano i soliti stereotipi sugli italo-americani, le risse e la cucina della mamma. Louis ha talento per l’atletica e diventa mezzofondista, selezionato per le Olimpiadi di Berlino, dove non vince; si ripromette di farlo quattro anni dopo ma non avverrà perché scoppia la guerra.
La seconda parte è dedicata al naufragio e alla sopravvivenza in mare, alle prese con la mancanza di acqua e cibo, le tempeste e le pinne degli squali che ronzano attorno al canotto di salvataggio. Qui emergono più chiaramente le qualità extra-ordinarie dell’eroe (come nel sottotitolo del libro della Hillenbrand “Una storia epica di resistenza e coraggio”). Ma Zamperini è sfigatissimo, perché a trarlo in salvo sono i giapponesi, che lo spediscono in un campo di concentramento. Dove per due anni e un tempo infinito e ripetitivo nel film sarà oggetto (solo lui, non gli altri prigionieri) delle angherie del sergente Watanabe, per ragioni non pervenute.
In questa terza parte emerge (a livello di immagini) una lettura cristologica delle disavventure del protagonista. Sorvolando sull’eccessiva semplificazione dei giapponesi cattivi e prigionieri americani vittime, forse nelle intenzioni registiche metaforicamente è toccato ai nipponici riassumere tutti i nemici passati e presenti degli Stati Uniti. Unico accenno alle guerre contemporanee, ad un certo punto viene offerto a Zamperini di mandare un messaggio (strettamente controllato) alla radio; un po’ come fa oggi l’Isis.
Ma ai giorni nostri il cinema di guerra richiede, a livello di contenuti, ben altra complessità.
Angelina Jolie racconta l’odissea, vera, d’un eroe di guerra, sopravvissuto nel Pacifico 47 giorni. E non era ancora finita
30 Gennaio 2015 by