Animazione alla plastilina. Con tanta tenerezza, rispetto ed emozione per dei bimbi sfortunati. Senza mieloso buonismo

29-11-16-zucchina_1(di Marisa Marzelli) Il cinema d’animazione più conosciuto è quello delle grandi case americane, Disney e Pixar in testa. Perciò stupisce piacevolmente il successo internazionale che sta riscuotendo il piccolo film franco-svizzero La mia vita da Zucchina (Ma vie de Courgette). Realizzato in stop-motion con pupazzetti di plastilina – una tecnica lunga e laboriosa, che impiega oggetti inanimati spostati e fotografati ad ogni cambio di posizione –, presentato in maggio alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, dove si è fatto notare, ha già raccolto 17 premi ai festival, una distribuzione internazionale ed è candidato dalla Svizzera alla nomination agli Oscar come migliore pellicola straniera.
Tratto dal libro dello scrittore e giornalista francese Gilles Paris Autobiografia di una zucchina (in italiano pubblica Piemme), il film è sceneggiato dalla francese Céline Sciamma e diretto dal regista svizzero Claude Barras, al suo primo lungometraggio.
A colpire ed emozionare sono tanto l’aspetto visivo stilizzato (i personaggi hanno, su piccoli corpi, enormi teste con occhi pure molto grandi ed espressivi) quanto la trattazione di argomenti difficili, resi con leggerezza, infantile ironia e nessuna traccia di appiccicoso buonismo.
Si parla di bambini sfortunati in un essenziale (nemmeno 70 minuti) racconto di formazione. È la storia del triste e solitario Icaro, che preferisce farsi chiamare Zucchina, perché così lo apostrofa la mamma, la quale passa il tempo davanti alla tv, scolandosi lattine di birra. Il padre non c’è e Zucchina lo disegna sul suo aquilone come un super-eroe intento a inseguire galline, perché la mamma gli ha detto che dà la caccia alle pollastre.
Già questo incipit svela il tono del racconto, a misura di comprensione di bambino. Quando la mamma muore, perché il ragazzino l’ha involontariamente fatta ruzzolare dalle scale, Zucchina finisce in orfanotrofio, insieme ad altri compagni ai suoi occhi dai comportamenti bizzarri, ma con alle spalle pesantissime situazioni famigliari. Ci sono il bulletto, la ragazzina autistica e altri finiti lì perché i genitori immigrati sono stati rimpatriati, perché vittime di abusi in famiglia o per differenti ragioni sempre tragiche. Ma ci sono anche adulti comprensivi, come la direttrice, l’assistente incinta o il poliziotto che si occupa del caso di Zucchina. Quest’ultimo fatica un po’ ad adattarsi ma non si trova poi tanto male. Tutto quello che gli serve è qualche attenzione e del calore umano. Finché non arriva Camille, la bimba più bella che Zucchina abbia mai visto e che gli fa subito battere il cuore.
Le dinamiche sono semplici ma anche molto realistiche, trattate con empatia e tenerezza. Si parla di stare insieme, fare gruppo, di famiglie disfunzionali, di sofferenza infantile che non riesce a esprimersi e soprattutto della necessità di ricevere affetto. La storia è lineare, le emozioni chiare e facili da recepire, delicate ma non ricattatorie, perché anche i bambini sfortunati dell’orfanotrofio acquisiscono una loro forza nel fare gruppo ed hanno in sé un umorismo spontaneo verso un mondo adulto a volte per loro strambo e incomprensibile. C’è sempre un grande rispetto dei realizzatori verso quest’infanzia rubata e calpestata ma tanto vitale.
Si coglie anche un’eco della migliore cinematografia di Tim Burton, quando gira storie tra il magico e l’horror. Gli adulti coglieranno sfumature che sfuggono ai piccoli spettatori e viceversa.
Calorosamente consigliabile.
La mia vita da Zucchina è lì a dimostrare che si può fare buon cinema anche con mezzi limitati, ambientazioni minimaliste e zero effetti speciali digitali. Bastano sensibilità e buone idee.