FIRENZE, mercoledì 28 aprile ► (di Carla Maria Casanova) – Ce l’abbiamo fatta. Cioè pare, si crede, si vedrà. Primo è stato il Maggio Musicale Fiorentino che ha inaugurato la stagione con un’opera (la verista Adriana Lecouvreur di Cilea). Altri Enti hanno aperto con un concerto. In verità il Teatro Comunale di Firenze non ha perso un colpo della passata stagione lirica, a cominciare dal “Rinaldo” di Haendel a settembre, fino a gennaio/marzo 2021, con “La damnation de Faust”, “Rigoletto” e “Così fan tutte”, andate in scena in regime di pandemia, quindi registrate senza pubblico, ma costruite scenicamente e musicalmente, trasmesse o in attesa di essere trasmesse in date da destinarsi.
E adesso il Maggio.
Inaugurazione con pubblico.
È doveroso sostare sull’efficienza, il coraggio e l’impegno professionale.
Alla conferenza stampa della scorsa settimana il sovrintendente Pereira diceva: «Non sappiamo se il Governo “aprirà” o no. Possiamo quindi solo sperare che il pubblico, anche se avvertito all’ultimo momento, venga. Perché noi apriamo, ma se il pubblico non viene…» Ed era quasi una supplica.
Il pubblico ha risposto. Intabarrato nelle mascherine e in numero piuttosto contenuto. Presenti 500 spettatori, diceva l’ufficio stampa, forse un po’ eufemisticamente. Tutti distanziati: una poltrona sì e una no e quasi deserte le ultime file. Ha giocato l’assenza dei turisti, specie americani, per tradizione i massimi fruitori del Maggio. Durante l’esecuzione, a sorpresa, niente applausi. Voglio dire dopo le classiche popolarissime “Io son l’umile ancella”, “Poveri fiori” ecc. Il pubblico pareva intimidito. Oramai abituato alle opere in Tv, non sa più come si faceva in teatro. Alla fine però (il pubblico) si è scatenato in applausi sostenutissimi. Forse riprenderanno le vecchie usanze.
Quanto allo spettacolo, è un’altra storia.
Se le vigenti norme obbligatorie hanno imposto il reciproco distanziamento anche in palcoscenico, non è una buona ragione per stravolgere scene e libretto. Non si tratta di trasposizioni tipo Carmen nazista o Aida sulla luna. Si è visto oramai di tutto. Qui la regia è delle più tradizionali, motivo per cui il libretto dovrebbe essere rispettato. “Chiedo in bontà di ritirarmi” frase pronunciata da Adriana, seguìta dall’uscita di tutti fuorché della stessa, risulta bizzarro. Peggio, per il celeberrimo duetto tra le due donne, che si svolge nel villino del principe, al buio (consueto spegnimento di tutti i lumi) non ha senso trasportare la scena tra i camerini di teatro, dove la principessa di Bouillon aspetta Adriana quasi in piena luce e poi cincischia inspiegabilmente lungo una parete per trovare l’apertura segreta ma, soprattutto, come giustificare “la vostra mano trema, l’amate!” pronunciata a dieci metri di distanza? Ancora, ultimo atto: la morte di Adriana, “Scostatevi profani, Melpomene son io”. Per evitare i soliti stramazzamenti, si sarebbe forse potuta indicare con una assoluta immobilità della protagonista, schiena alla platea. Invece no, mentre Maurizio e Michonnet la stanno a guardare, lei se ne va e continua a camminare anche quando l’orchestra ha finito di suonare.
Infine, inappropriata la gestualità coreografica di tutti (chi, se non il regista, l’ha tollerata, se non imposta?), per non parlare dello sculettamento del Principe e dell’Abate (Alessandro Spina e Paolo Antognetti). Ricordate il celebre motivetto “tuli, tuli, tulipan” delle riviste di Carlo Dapporto?).
Ritengo si sia capito che la regìa di Fréderic Wake–Walker mi è parsa del tutto sconsiderata.
Non che sul piano musicale ci sia ragione per soddisfazioni molto più intense.
L’orchestra (dirige Daniel Harding) oramai abituata a suonare distanziata e quindi ad esprimersi con insolito vigore per raggiungere un suono compatto, ricondotta nel golfo mistico è risultata spesso fragorosa.
Pure i cantanti, onde farsi sentire, hanno dato fiato ai polmoni con veemenza. Se certi filati del soprano uruguayano Maria José Siri (Adriana) da qualche tempo molto attiva in Italia, sono pregevoli, la conosciuta corposità del suo registro acuto ha fatto sobbalzare. Non avendo poi la Siri il carisma della grande primadonna che Adriana esige, diciamo che in questo personaggio non avvince.
La bella Ksenia Dudnikova (mezzosoprano uzbeko, debutto al Covent Garden nel 2016 proprio come Principessa di Bouillon) ha anche lei lanciato qua e là fiere grida. Sarà colpa delle mie orecchie. Eppure ero in posizione centrale ottima e il Teatro del Maggio gode di acustica eccezionale.
Mi è parso a suo agio il tenore tedesco-brasiliano Martin Muehle (Conte di Sassonia) di carriera internazionale. L’emissione è gradevole, l’accento sicuro. Dicono sia notevole la sua incisione (per Naxos) di Francesca da Rimini nel ruolo di Paolo il Bello. Non stento a credere.
Ma per chiudere questa un po’ inclemente recensione con una nota davvero positiva devo citare il baritono Nicola Alaimo nel ruolo di Michonnet (solo qualche chilo in meno, dico per ragioni di salute, sarebbero consigliati). Alaimo, musicalissimo, ha una voce calda e omogenea. La sua partecipazione scenica è sempre convincente. Molto bene.
Questo per quanto mi riguarda. Per il pubblico, invece, è andato benissimo tutto. Ed è buona cosa. Innanzi tutto, si deve reimparare ad andare in teatro.
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. “Adriana Lecouvreur” (di Francesco Cilea) si ripete venerdì 30 aprile, lunedì 3 e giovedì 6 maggio sempre alle ore 19 (per via del coprifuoco). Un intervallo. Termina alle 21,45.