Arbasino al vetriolo. Caustico con Squarzina, Pirandello, Gassman e Zeffirelli. Ma amò Franca Valeri. E i Legnanesi

(di Andrea Bisicchia)  – Più volte avevo chiesto ad Alberto Arbasino, dopo la presentazione dei suoi libri al Teatro Franco Parenti, il motivo per cui non voleva fosse ripubblicato: “Grazie per le magnifiche rose”, uscito nel 1965 presso Feltrinelli (pp. 520). Mi rispose che, con quel libro, si era fatti molti nemici e che, pertanto, era meglio che rimanesse una edizione unica, della quale esiste qualche copia per amatori. A sei mesi dalla sua scomparsa, Roberto Calasso, che ne sta ripubblicando tutta l’Opera, ha deciso di offrire al lettore “una scelta” che gli dà la possibilità di conoscere il metodo con cui Arbasino si accostava al teatro, non certo con quello del critico militante, quanto con quello dell’intellettuale curioso che va cercando altrove ciò che non trova sulle scene italiane.
Il periodo preso in esame, che va dal 1959 al 1965, non nascondeva, per il teatro italiano, una certa stanchezza creativa, tanto che si respirava aria di crisi. Rileggere quei resoconti, ci permette di capire meglio cosa sia accaduto in quei sei anni e quali siano stati alcuni punti di riferimento. Arbasino decise, così, di “rastrellare” alcuni teatri della Capitale, andò a vedere “La romagnola” di Luigi Squarzina, di cui scrisse molto male, considerandola: “Una valigia aperta dove si può mettere e togliere qualunque cosa… che va franando nel generico e nel risaputo”, insomma una commedia che non rappresenta un bel nulla.
Ma le cose andarono molto male anche con Pirandello, visto che definì “Questa sera si recita a soggetto”, con la regia e l’interpretazione di Gassman, uno spettacolo “orribile” e il “Cosi è, se vi pare”, con Paolo Stoppa: “probabilmente lo spettacolo più vergognoso che abbia mai visto”, contrassegnato da un “ridicolo all’italiana”.
Salvò solo De Lullo con “I sei personaggi” che, dopo anni di “ricerche di incerte eleganze”, era riuscito a fare “il miglior Pirandello di questi tempi”.
Non risparmiò neanche Franco Zeffirelli, la cui “Lupa” gli si presentò come una messinscena “imbarazzante anche scenograficamente”.
A dire il vero, Arbasino non amava molto gli attori italiani, specie quelli che recitavano “secondo le leggi fonetiche di quell’onesto frantoio dell’Accademia d’Arte Drammatica, per cui Pinter equivale a Lorca e Brecht a Lorenzo dei Medici”. Forse, anche per questo, non si scandalizzò del successo ottenuto dai Legnanesi, mostrando il suo disaccordo nei confronti degli “sconfortanti corsivi” apparsi sulle pagine dei grandi quotidiani e rivendicando la libertà del pubblico di frequentare le farse. Non nascose il suo amore per Franca Valeri e il Teatro dei Gobbi, intelligente e sofisticato.
È noto che Arbasino veniva considerato il critico che si diverte a narrare persino quello che non c’è in uno spettacolo, questo accade anche quando riferisce di spettacoli visti a New York, a Londra, ad Atene, a Parigi, a Mosca, quando decideva di trascorrere dei mesi per poterne riferire, assemblandoli e criticandoli con quel metodo comparativo che era stata una sua specialità. Non si scandalizzò quando vide i testi di Shakespeare, oltraggiati e ridotti a Operette o a Musical, assistette alle “prime” delle commedie di Osborne, autore, a suo avviso, “culturalmente rozzo, ma capace di intuizioni azzeccate”, come accadde per il suo “Lutero”, uno “spettacolo da vedere”, soprattutto per l’interpretazione di Finney.
Vide molto teatro dell’Assurdo, ma non fu d’accordo con Martin Esslin, per avere accostato in un calderone, che sa di minestrone, autori tanto diversi. Alla fine, Arbasino ha voluto soltanto raccontarci le avventure della drammaturgia contemporanea internazionale, offrendoci un suo repertorio, fatto di scelte oculate e controcorrente.

Alberto Arbasino, “Grazie per le magnifiche rose”, Adelphi 2020, pp. 147, € 14.