Arthur Miller al Piccolo. Tutto costa nella vita. Il vero prezzo da pagare? Dover fare i conti con i ricordi del passato

3.2.16  Prezzo_Popolizio,Orsini. FotoCaselli NirmalMILANO, mercoledì 3 febbraio(di Paolo A. Paganini) Quanto ci costa, in fatica e sacrifici, la dedizione a una cara persona bisognosa del nostro aiuto? Quanto ci costa, in silenziosa accettazione, nascondere la delusione per lo sgarbo o l’indifferenza di chi amiamo, e sopportare, tacendo, le offese, le prepotenze, le mancanze in nome d’un nostro comandamento morale o d’un ideale? Tutto costa nella vita.
C’era un prezzo da pagare, e l’ho pagato!
È una delle battute finali di Victor Franz, un rassegnato perdente dell’esistenza e degli affetti, nel dramma di Arthur Miller, “Il prezzo” (1968), opera praticamente sconosciuta, eppure grandissima e ardua palestra di talenti attoriali.
La storia si condensa in poche righe. Dopo alcuni anni dalla morte del padre, due fratelli, che non si frequentavano più da tempo – uno fa il poliziotto, l’altro è un primario ospedaliero – s’incontrano nell’appartamento-magazzino del vecchio genitore per sgomberarlo dai vecchi mobili. Il palazzo sta per essere demolito. Ora si tratta di vendere quei mobili di famiglia, tutti quegli oggetti accumulati, i ricordi d’una lontana giovinezza, vecchie radio, un’arpa della madre, un’accatastata congerie di paccottiglie.
Viene chiamato un broker, un vecchio mercante ebreo, per fare il prezzo di tutta quella roba, più antica che d’antiquariato. Ma i ricordi sono ricordi. E i ricordi hanno un prezzo quando si tratta di dover fare i conti con il proprio passato. Questo è duro da pagare. Rancori, incomprensioni, egoismi, come magma silente nel sottosuolo delle loro esistenze, esplodono ora dopo tanti anni per mettere finalmente a nudo tante sgradevoli verità.
Dopo la grande crisi del ’29, anche il vecchio padre, agiato benestante, ne venne travolto. La famiglia cade in miseria. Il citato Victor Franz, brillante e promettente studente, lascia gli studi per arruolarsi nella polizia e tirar fuori dal magro stipendio il necessario per mantenere la famiglia e per consentire all’altro fratello, Walter, di continuare gli studi e diventare un chirurgo di successo, più sensibile alle speculazioni di mercato che non alla scienza. E, comunque, poco propenso a riconoscere (e a contraccambiare) i sacrifici del fratello…
Con queste premesse avviene l’incontro nel vecchio appartamento del loro passato, in un crescendo di esterrefatte rivelazioni. Il cinico egoismo del chirurgo da una parte, e dall’altra il povero poliziotto, costretto a scoprire quanto il suo sacrifico, in nome del dovere per il padre e dell’amore per il fratello, sia stato inutile (in realtà il padre aveva un consistente gruzzolo messo da parte, ma il figlio poliziotto non lo sapeva, il figlio chirurgo invece ne era a conoscenza, e per questo considerava il fratello un bamba per aver sprecato inutilmente la sua vita promettente in un lavoro così modesto e nella dedizione alla famiglia).
Tutto ciò occupa la seconda parte dello spettacolo (al Piccolo Teatro Strehler, un’ora e quarantacinque senza intervallo). In questa seconda parte, il dramma si fa più intenso e doloroso. Ma, pur grandissimo, è come offuscato da una prima parte, semplicemente sublime. È tutta nelle mani dell’anziano mercante ebreo, uno scatenato novantenne dalle molte mogli, dalle tante guerre alle quali è scampato, dalle mille storie, traversie, dolori e rovesci, sempre risollevandosi in una continua ed ilare fiducia nella vita. Da questo saggio e ironico ebreo, Solomon, quei due fratelli sono visti con comprensione e pietà. Ma così piccoli e insignificanti, così sperduti, incapaci di vivere: uno divorato dall’interesse e dall’egoismo, l’altro vittima dell’amore e del dovere (inoltre, con una moglie autoritaria, depressa, spendacciona).
La bellezza di questa prima parte è sostenuta da due mostri, che sarebbe un peccato perdersi. Massimo Popolizio è il poliziotto Victor. Attore ronconiano, ne conserva una reinterpretata genialità attoriale, che riversa, qui, anche in una regia, attenta, scrupolosa, rigorosa, vivacizzata appena l’indispensabile per far emergere l’intensa bellezza del testo.
Gli fa da contraltare il realistico e smitizzante sarcasmo del vecchio ebreo Solomon, un Umberto Orsini che ancora non avevamo visto in un un ruolo di scanzonato panismo, piccola scatenata divinità d’un teatro di cui si perde sempre più traccia.
A qualche distanza, ma sempre di altissima dignità teatrale, c’è Elia Schilton, nel non facile ruolo del chirurgo nevrotizzato dal guadagno, e c’è Alvia Reale, che interpreta l’odioso ruolo della sopraffattrice moglie del poliziotto. Brava.
E c’è, ancora, la straordinaria abilità drammaturgica di Arthur Miller, con le sue problematiche morali verso i valori e le responsabilità degli uomini, dell’etica, sia individuale che collettiva. E c’è la sua squisita capacità di astenersi da ogni sentenza, lasciando, nel dibattito interiore dello spettatore, la libertà del giudizio.
Spettacolo applauditissimo.

“Il Prezzo” (The Price), di Arthur Miller, traduzione Masolino D’Amico, regia Massimo Popolizio, direzione artistica Umberto Orsini, con Umberto Orsini (Solomon), Massimo Popolizio (Victor), Alvia Reale (Esther), Elia Schilton (Walter). Scene Maurizio Balò. Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi , Milano. Repliche fino a domenica 14 febbraio.