MILANO, sabato 8 dicembre ► (di Carla Maria Casanova) Cinque minuti (quattro e 30 secondi) di applausi al presidente Sergio Mattarella apparso al palco reale. A taluni, me compresa, erano sembrati tanti, pur considerando l’entusiasmo che suscita questo Capo di Stato. Ma la risposta è presto venuta da quanti “sapevano”: “Ma è chiaro! Un applauso contro il Governo e a sostegno di lui (Presidente)”. Come al solito, il garrulo elettorato italiano, dopo essersi espresso alle urne con spensierato ma protervo voto, adesso con improvviso senso civico (?) ci ripensa e gioiosamente, secondo sua natura, si fa sentire. Bene, adesso è tutto chiaro. Segue il prescritto Inno nazionale, persino cantato da alcuni del pubblico. Poi Riccardo Chailly attacca le prime note di “Attila”, l’opera verdiana che ha inaugurato la stagione lirica 2018/19 della Scala.
È opera di scarsa esecuzione (alla Scala, dalla ripresa dopo il 1800, tre edizioni: 1975, 1991, 2011) e di non esagerato fascino. Opera giovanile (del 1846) che ci fa riconoscere immediatamente situazioni musicali (e non) dei precedenti “Nabucco”, “Ernani” e del “Macbeth” che verrà subito dopo. Opera piuttosto tetra, come è stato ben messo in evidenza dall’attuale allestimento, e sostanzialmente bellica. La scelta del titolo, con finale femminista, dove l’eroina stessa si proclama “novella Giuditta”, pare suggerita da questa epoca di selvaggi femminicidi.
La storia racconta di Attila, noto capo degli Unni, che invade l’Italia facendo stragi. Un generale romano, Ezio, gli propone un mercato non limpidissimo: prendi il resto dell’Impero e lascia l’Italia a me. Attila non accetta. Il suo slancio di invasore viene però fermato dal papa Leone Magno in persona. Attila propone alla italica Odabella di sposarlo (troppo lungo spiegare come mai lei si trovi in mano sua). Lei acconsente, vedendosi così facilitato il compito di vendicare suo padre, ucciso dal re barbaro (ovviamente il fidanzato geloso di lei non capisce e la prende malissimo). Morale, gli italici tessono l’agguato e la ragazza porta a segno la sua trama, facendo esclamare al deluso novello sposo il celebre “Tu quoque” di Giulio Cesare. È tutto un tafferuglio di vendette e stragi. Oso dire che alla fine l’uccisione di Attila pare una gran brutta cosa ordita da una manica di esaltati. La morale sarebbe diversa e vorrebbe invece esaltare l’amor patrio. Ma, sempre secondo me, convince poco.
Davide Livermore, il regista in causa, l’ha vista soprattutto come una storia di oppressi e oppressori, come è sempre stato da che mondo è mondo. Quindi trasposizione dell’epoca storica in un vago periodo bellico dei giorni nostri (prima guerra mondiale?), con in scena un panorama di città distrutta che fa pensare a Dresda, soldati con fucili e baionette, una camionetta dell’esercito e due cavalli (uno nero e uno bianco) che compaiono per alcuni minuti. Obsolete le proteste degli animalisti: in verità gli animali non manifestano nessuna insofferenza per la loro pur superflua prestazione in palcoscenico. A generare perplessità (e anticipate rimostranze) c’era anche l’annunciato ponte che si spacca. Richiamo a Genova? No (per “rispetto alla tragedia”) il ponte si scinde ma non crolla. L’incontro di Attila e Papa Leone (su cavallo bianco mentre il cavallo nero è riservato all’entrata in scena di Attila) è la perfetta ricostruzione dell’affresco delle stanze Vaticane di Raffaello. Un “tableau vivant” dove la bocca del vulcano erutta fuoco e lapilli e i due santi Pietro e Paolo con spada sguainata si librano in cielo. Non solo, le due figure dell’affresco qui si muovono, e questo è per me l’effetto più stupefacente di tutto lo spettacolo. Sempre per quel che riguarda la messa in scena c’è, all’inizio del secondo atto, la festa nel campo di Attila, trasformata in un’orgia sulla linea “Portiere di notte”, con soldati gay in sottovesti discinte, ragazze seminude che ballano insieme e altre trasgressioni. Anche l’adorazione del biblico “vitello d’oro”, qui trasformato in porcello, se non sbaglio. Ma tutto va nel calderone senza creare soverchi fastidi (l’orgia, pare sia stata la scena che i giovani che hanno assistito alla “primina” abbiano apprezzato maggiormente). Nell’insieme, una realizzazione importante, corrusca, non strabiliante, con l’uso sfrenato di proiezioni ed effetti tecnici. Bei controluce. Gli artefici di così complesso allestimento usciti a farsi applaudire a fine spettacolo erano un team di 10 persone. Pensandoci bene, quello scarno allestimento del ‘75, che Puggelli dovette allestire in economia, in tutta fretta e con mezzi di fortuna, direi fosse più pertinente e di maggiore fascino. Il bisogno aguzza l’ingegno, come si dice.
Ma non c’è solo il lato da vedere. C’è in primis quello da sentire. Chailly ha avvertito trattarsi di una prima assoluta, per l’inserimento di 5 battute ma, data la scarsa popolarità dell’opera, riteniamo non siano state bene individuate né credo abbiano comportato una variante significativa. Attila, forse si è capito, non è opera che risvegli particolari fremiti. Fa però fremere gli esecutori vocali, con le sue esigenze dello spartito in alcuni casi proibitive. Il soprano Odabella, per esempio. La sua entrata è terrificante, tesissima, con un do sovracuto da prendere di forza. Saioa (il nome è così, non è un refuso) Hernandez, madrilena, debuttante alla Scala, una sorta di bionda vikinga, ha la voce con registro acuto capace di affrontare tali difficoltà. E la tecnica adeguata. Ma della voce non è bella la qualità, aspra e fredda. E non entra nel clima eroico. Non si capisce come Attila possa lasciarsi sedurre dal suo (di lei) inno di amor patrio. Danno maggiore soddisfazione i tre interpreti maschili: il basso Ildar Abdrazakov (Attila) non possiede mezzi di volume possente, però il timbro è splendido e lui un bell’interprete; George Petean baritono (Ezio) con colore vocale brunito, saldo e perentorio, begli acuti, sapiente dosaggio delle emissioni, è stato un avversario di qualità nel celebre duetto con Attila. Il tenore Fabio Sartori (Foresto già nella precedente edizione diretta da Muti) se è di corporatura al limite del consentito, canta come un angelo: voce di bel colore, limpido, squillante, con calde vibrazioni al centro. Ricorda il mai dimenticato Gianni Raimondi. Un piacere ascoltarlo. Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) completano onorevolmente l’esiguo cast. Poi c’è il “solito” coro scaligero istruito da Bruno Casoni. Una bellezza!
Sul podio Riccardo Chailly, imposta una articolata narrazione e non dimentica di sottolineare, nell’impeto guerresco di tutta l’opera, le pur presenti aperture melodiche, come nel duetto Odabella-Foresto che rischierebbero di andare perse in tutto quel frastuono d’armi.
Applausi? 15 minuti, insieme e da soli a sipario chiuso. Timidi tentativi di buu per l’allestimento. Ovazione per Sartori e Abdrakazov. Chailly è uscito con gli artisti, mai da solo.
Si vuole uno scorcio sulla sala? Come per tutti, anche per le signore frequentatrici delle prime scaligere, il tempo passa. Alcune sembrano non volerlo ammettere, con esiti raccapriccianti. Le più giovani anonime spettatrici, hanno esibito, ove il caso permetteva, una straripante esposizione di seni (adesso la moda li richiede). Poche personalità, qualche habitué, dalla opulenta, regale Diana Bracco alla diafana Carla Fracci tutta di bianco vestita. Nel foyer dei palchi Arturo Toscanini, un fastosissimo tavolo imbandito con ogni ben di Dio, nel foyer inferiore un sobrio albero di Natale animato a terra da tanti animaletti del bosco. Fine.
“Attila”, di Giuseppe Verdi. Direttore Riccardo Chailly. Regia Davide Livermore. Scene Giò Forma. Costumi Gianluca Falaschi. Con Ildar Abdrazakov (Attila); Saioa Hernández (Odabella); George Petean (Ezio); Fabio Sartori (Foresto); Francesco Pittari (Uldino); Gianluca Buratto (Leone).
REPLICHE: Martedì 11 dicembre; Venerdì 14; Martedì 18; Venerdì 21; Mercoledì 2 gennaio 2019; Sabato 5 gennaio 2019; Martedì 8 gennaio 2019.
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