Straordinarie immagini d’un mito: Valentina Cortese. Teatro cinema tv. Vita privata, lavoro, sacrifici. E infiniti successi

(di Andrea Bisicchia) – In tanti l’abbiamo ammirata, in tanti ricordano almeno le sue memorabili interpretazioni, con le regie di Strehler, di “I giganti della montagna”, “El nost Milan”, “Santa Giovanna dei macelli”, “Il giardino dei ciliegi”, basterebbero questi spettacoli per fare di Valentina Cortese (1923-2019) un mito, solo che, il mito, lei lo aveva costruito con tanto lavoro, con tanta passione, con tanta lungimiranza, lottando contro la sua vita difficile, essendo stata adottata in tenera età, dopo che il conte Napoleone Rossi di Coenzo, ricco proprietario terriero di Bruscello, vicino Reggio Emilia, già sposato e padre di due figli, non l’aveva riconosciuta, dopo un fugace rapporto con Olga Cortese, diplomata al Conservatorio di Torino, sempre in viaggio, per esibirsi in tutto il mondo.
Valentina avrebbe potuto vivere agiatamente, cosa impossibile con la famiglia adottiva che non la si poteva considerare, certo, benestante, visto che papà Giuseppe era un ottimo falegname che, guadagnando poco, decise di fare lo spazzino municipale.
Valentina è cresciuta tra tante difficoltà, un po’ alleviate quando a 14 anni andò a vivere con la nonna materna a Milano, dove poté iscriversi al Liceo artistico, diventando appassionata di cinema. La sua grande passione si manifestò subito, voleva recitare a tutti i costi, tanto che cominciò a fare dei servizi fotografici da mandare alle varie agenzie. Nel frattempo ottenne dal sindaco di Stresa, dove si trovava con la nonna, di interpretare “La maestrina” e “Scandalo” di Nicodemi. Qualche giorno prima del debutto, propose a dei clienti del Grand Hotel de Milan l’acquisto dei biglietti per i suoi spettacoli teatrali. Qui incontrò Victor De Sabata, noto direttore d’orchestra e fu amore a prima vista, benché ci fossero trent’anni di differenza, avendo lei 18 anni e lui 48. Col Maestro si trasferì a Roma dove potrà frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica e dove frequentò Cinecittà, iniziando a lavorare, firmando alcuni contratti con le case di produzioni cinematografiche più importanti. Nel 1942, si può ammirare in “La cena delle beffe”, con la regia di Blasetti, da quell’anno però, fino al ’45, Cinecittà rimarrà chiusa a causa della guerra. Valentina, ne approfitta per dedicarsi al teatro, viene scritturata da Orazio Costa per “Amarsi male” di François Mauriac, recitando a fianco di Rossano Brazzi.
Per chi volesse seguire la biografia artistica, accompagnata da una ricca iconografia, con materiale inedito, può leggere il volume, curato da Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, “Valentina Cortese. Album di Famiglia”, edito da Pazzini per la Regione Lombardia, che ha curato una mostra in occasione del centenario della nascita, nello Spazio Espositivo IsolaSet, utilizzando le foto dell’Archivio Zanoletti/Cortese, col contributo di altro materiale, fornito dal Piccolo Teatro. Molte sono le immagini che si caratterizzano per la loro alta qualità.
Il lettore si trova dinanzi a un genere particolare, quello della biografia per immagini che, pur trattando della attività professionale della grande attrice, viene introdotto in un percorso intimo e familiare. Il lavoro di ricerca, a dire il vero, non è stato semplice per i due curatori, avendo dovuto esplorare archivi e fonti internazionali, data l’internazionalità dell’attrice, protagonista di un centinaio di film e di circa ottanta opere teatrali, per non parlare delle sue numerose presenze televisive.
Come si è potuto capire, ci si trova dinanzi a un “racconto”, più che un saggio, un racconto che esplora la biografia privata di una donna, diventata attrice, fino a trasformarsi in mito, grazie a una vita ricca di avvenimenti, di rapporti personali e di tanto lavoro, oltre che di molte amicizie e di infiniti successi.
Su di lei è stato scritto di tutto, sia in Italia che all’estero, come non ricordare il breve saggio di Bernard Dort: “Valentina Cortese, ovvero la contraddizione”, di cui però l’attrice si faceva beffe, e come dimenticare le parole di Paolo Grassi: Quanta autentica capacità, quanta grande originalità, quale mondo “suo” particolare Valentina porta sul palcoscenico, ogniqualvolta vi appaia.
Va ricordata anche la monografia di Alfredo Baldi, “Le nove vite di Valentina Cortese”, in cui l’autore scrive di essersi trovato dinanzi “all’ultima diva della scena italiana”.

“ALBUM DI FAMIGLIA. VALENTINA CORTESE”, a cura di Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, Pazzini Editore, pp. 184, s.p.

Lino Guanciale a mitraglia. Un testo caleidoscopico in un ottovolante di emozioni. Un’ora e mezzo di puro godimento

MILANO, mercoledì 22 marzo (di Emanuela Dini) Una montagna di magliette che potrebbe trovarsi in un magazzino, una discarica, un outlet; un leggio e una maschera anti gas, una bambola bionda in balconata e un’altra, una Barbie, che cala dall’alto; un fisarmonicista slavo che tenta di rubare la scena (e un po’ ci riesce); un testo caleidoscopio e martellante; un attore-voce narrante che inventa voci, personaggi, gesti, si trasforma indossando magliette diverse una sull’altra, recita e declama e ti fa salire su un ottovolante di emozioni che ti verrebbe voglia di urlargli: “Aspetta, fermati, cos’hai detto? Ma davvero è andata così? Ripeti, per favore, che sei andato troppo in fretta”.
È “Europeana-Breve storia del XX secolo” in scena al Piccolo Teatro di Via Rovello, con Lino Guanciale protagonista e regista, tratto dal libro di Patrik Ourednik, autore contemporaneo (è nato nel 1957) ceco naturalizzato francese.
Un libro – e uno spettacolo- che è un insieme frenetico di notizie sulla storia del XX secolo, raccontata senza ordine, alla rinfusa, un susseguirsi di scampoli, brandelli, flash della storia europea, entusiasmi, tragedie, slanci, efferatezze, passioni e guerre raccontati tutti insieme, un po’ come viene, con caustico sarcasmo, passando con disinvolta soavità dalla farsa alla tragedia e viceversa. E così stanno tutti insieme, i morti della Prima Guerra mondiale “15.508 chilometri di cadaveri, messi uno dietro l’altro” e l’invenzione del reggiseno (1914), le camere a gas dei nazisti e i rotoli di carta igienica (made in Svizzera, 1901); le dittature e le efferatezze dei regimi tutti uguali nelle loro atrocità e l’arrivo della Barbie (1959) “la prima bambola che si comporta da donna adulta”. E i vari sapientoni, storici, filosofi, linguisti, analisti, sociologi che tentano di dare definizioni e mettere le loro etichette, ma non riescono a capire né spiegare perché l’uomo non è ancora diventato migliore.
Il tutto – 156 pagine fitte fitte per un’ora e 20 di spettacolo senza intervallo – letto e recitato da un Lino Guanciale in splendida forma, che incalza al ritmo di un frullatore (“Vorrei proprio che il pubblico avesse la sensazione di essere finito dentro il vortice di un frullatore”), modula tempi e toni, dà vita a un pupazzo che sembra l’umarèl dal caro, vecchio buon senso, indossa a ogni storia diversa una maglietta diversa con i vari simboli e loghi – falce e martello, il ciuffo di Hitler, la stella ebraica, la Coca Cola, la mela della Apple e la spirale del DNA – e mette in scena un vero corpo a corpo tra attore e testo – lui, che in gioventù è stato nazionale di rugby e di corpo a corpo se ne intende – non si risparmia, duetta con il fisarmonicista sloveno Marko Hatlak, e non si capisce chi dei due si diverte di più. Puro godimento.
Sala piena, con tantissimi giovani, applausi anche a scena aperta, uno spettacolo da non mancare.

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“Europeana – Breve storia del XX secolo”, di Patrik Ourednik – Diretto e interpretato da Lino Guanciale – Musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonicista – Costumi ed elementi di scena di Gianluca Sbicca – Luci Carlo Pediani – Coproduzione Wrong Chikld Production e Mittelfest 2021 in collaborazione con Ljubljana Festival. Al Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano – Repliche fino a domenica 2 aprile. Informazioni e prenotazioni 02.21126116.

www.piccoloteatro.org

Labirintico percorso nella selva oscura d’un decennio di crisi. Teatro istituzioni e decreti: privi di una legge organica

(di Andrea Bisicchia) Il volume di Paolo Petroni, “La scrittura del teatro. Drammaturgia italiana al passaggio del secolo”, edito da Gambini, è destinato a essere un punto di riferimento, trattandosi di una specie di archivio, per chi volesse capire cosa sia accaduto, agli autori italiani, tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo.
Petroni è un instancabile spettatore professionista, essendo stato critico del Corriere della Sera, oltre che Capo Servizio alla Cultura e Spettacolo dell’Ansa, pertanto chi, meglio di lui, poteva assemblare e dare un senso unitario a tanti autori e testi andati in scena tra il 1990 e il 2001? Un decennio, durante il quale si è molto parlato di crisi del teatro e, in particolare, della drammaturgia italiana che, a sua volta, rifletteva la crisi delle istituzioni, crisi che culminerà con l’abolizione del Ministero dello Spettacolo, 1994, a seguito del referendum abrogativo del 1993.
Petroni si è mosso in una vera e propria “selva oscura”, come l’ha definita Guido Davico Bonino nella Prefazione, nella quale ci siamo impigliati anche noi che, con molte difficoltà, abbiamo cercato di allontanarci, grazie proprio al suo “ filo” che ci ha permesso di uscire da quel labirinto dove abbiamo trovato persino un eccesso di autori italiani che, però, hanno raggiunto poca notorietà, abbandonati a loro stessi e privi di quella “Comunità del teatro” che avrebbe  potuto sussistere grazie a una Legge organica che non c’è mai stata, perché sostituita da Decreti, ad uso della politica e di certi Direttori del Ministero competente, che li utilizzava per creare un fatuo clientelismo.
Analizzando questo decennio, Paolo Petroni ha più volte sottolineato il deterioramento della qualità del teatro italiano per l’assenza di progettazione e per il declino della drammaturgia nazionale , senza la quale, però, non potrà esserci futuro.
A ben guardare, nel decennio descritto, è accaduto di tutto: il proliferare di piccole sale, destinate alla chiusura, la poca credibilità da parte dei produttori nel teatro di parola, l’impoverimento di proposte, benché ci si trovasse dinanzi a una pletora di spettacoli, tanto da superare le cinquecento unità, a differenza delle trenta novità italiane, a cui fa riferimento Ennio Flaiano, durante gli anni Cinquanta. Si è trattato, ricorda Petroni, di spettacoli privi delle repliche dovute, un po’ improvvisati per assenza di circuitazione. Eppure, sempre nel decennio citato, a parte certi noti autori, come Fo, Ginzburg, Squarzina, Luzi, Testori, Magris, Patroni Griffi, Siciliano, Lunari, Franceschi, Tarantino, Lievi, hanno cercato di dare il loro contributo, autori come Maraini, Boggio, Nicolay, Longoni, Cavosi, Marino, Manfridi, De Bei, Bassetti, Bernard, Battaglin, Camerini, Taddei, Manfredini, Celati, Ippaso, Puppa, ai quali vanno aggiunti autori che hanno utilizzato il dialetto con maggiore fantasia, come Ruccello, Moscato, Santanelli, Spagnol, Salemme, Scaldati, Perriera e tanti altri, presenti nel volume, ai quali Petroni dà parecchio spazio anche con brevi, ma illuminanti, recensioni, lamentandosi, a volte, per la scarsa qualità della scrittura.
Non dimentica gli autori del Teatro dell’Oralità, coma Paolini, Baliani, Curino e, alla fine, non può evitare il suo grido di dolore per come la drammaturgia italiana vada avanti con una sorta di inerzia, col rischio di rispecchiarsi nello specifico televisivo, mentre si alimenta con bassi costi per sopravvivere.
Non manca la polemica nei confronti di cattedratici, come Alonge e lo stesso Bonino, che avendo curato per Einaudi un’opera esemplare sul “Teatro moderno e contemporaneo”, hanno volutamente trascurato moltissimi degli autori citati, contribuendo alla loro dimenticanza, anche se Petroni li invita a non disperare.
Diciamo allora che, per fortuna, c’è il suo libro, utilissimo per non dimenticarli.
Il volume contiene alcuni interventi di Ubaldo Soddu sui “bassifondi” d’autore, di Nicola Fano sul Teatro di Narrazione, durante gli anni Novanta, di Renato Palazzi, su un approccio diverso alla Scrittura scenica, di Oliviero Ponte di Pino e Giulia Alonzo sulla possibilità che la scrittura possa risorgere online.

Paolo Petroni, “LA SCRITTURA DEL TEATRO. DRAMMATURGIA ITALIANA AL PASSAGGIO DEL SECOLO”, Gambini Editore 2023, pp. 360, € 24.

“Les Contes d’Hoffmann” alla Scala in formato musical. O avanspettacolo. Ma è proprio questo che voleva Offenbach?

MILANO, giovedì 16 marzo (di Carla Maria Casanova)Tre belle oracce e 45 minuti di spettacolo che hanno fatto provvidenzialmente anticipare l’inizio alle 19.30.
Les contes d’Hoffmann sono la sola opera seria (opéra fantastique)  di Jacques Offenbach, celebre  per le sue numerose brillanti operette.
Il musicista morì quattro mesi prima di averla ultimata (1881). Il compito fu assunto dall’amico Ernest Guiraud. La gestazione dell’opera fu assai travagliata ed anche in seguito di questo lavoro ci si permise di tutto: rimozioni, tagli, spostamenti. Spesso, fino a non molto tempo fa, l’opera terminava con l’atto di Antonia. L’edizione scaligera andata in scena ieri sera termina con l’atto di Giulietta, quello della barcarola,  l’unico motivo popolare e di cantabilità assai romantica (come vuole lo stesso termine musicale).
Anche la gestazione di questo spettacolo milanese pare abbia subito inenarrabili travagli e che molto sia stato tolto alla struttura scenica (chissà cos’era prima!).
E adesso sorge un problema. Stanotte, tornata dalla Scala dopo le 3 ore ecc. se mi fosse stato chiesto che cosa avevo visto/sentito, non avrei saputo cosa rispondere. Di questi Racconti non mi è rimasto addosso niente. A parte il ritmo della barcarola che si diceva.
Per la messa in scena si è scelta la chiave del musical, avanspettacolo, operetta se preferite. E trattandosi di Offenbach si può capire. Ma questa è un opéra fantastique ed è piuttosto seria, anche se il fantastico si armonizza con il sentimentale, il surreale con il satirico e il grottesco.
Ideatore è Davide Livermore, che in tale guazzabuglio (sfido chiunque a capire l’intreccio) si trova a suo perfetto agio. Dice il regista: “Tanti si lamentano perché i budget a teatro sono limitati, ma fare il teatro non è un problema di budget bensì di idee”. Giustissimo. E lui di idee ne ha un’infinità. Peccato che non riesca a selezionarle: le mette in scena tutte. Con l’aggiunta di altre, ottenendo un assoluto horror vacui. Di questo spettacolo, l’idea che mi rimane in mente è quella, all’inizio del terzo atto, di far stendere sopra gli spettatori della platea un enorme velo fluttuante, come a metterli nel mare (anche in scena c’è il mare). Dura poco perché gli spettatori non sono contenti di stare sotto al velo. Ricordo inoltre l’immissione, tra gli interpreti, di un personaggio diversamente alto (se qualcuno non si è ancora aggiornato, il dizionario dice nano), in smoking luccicante e tuba. Ovviamente non canta, lo si nota perché è diverso e fa scena e Livermore appena può (vedi corte di Mantova in Rigoletto) lo introduce nel cast. Fine.
Non vedo altro degno di nota, tra le immancabili proiezioni, lo sterminio di mimi danzanti in calzamaglia nera, i singolari stupri di gruppo (magari anche solo tra due di cui la donna non è ovviamente d’accordo), i faretti accecanti dritti sulla platea e gli spari: inizia con l’immagine di una rivoltella puntata e poi uno sparo furibondo con cui allo stesso modo si conclude l’ossessionata vicenda quando il protagonista viene messo in un baule (mi si dice una bara) e non se ne parla più. Significa che lui che ha cambiato vita.
La storia è quella narrata nel libretto di Jules Barbier a proposito di Hoffmann, giovanotto che rivive le vicende di tre suoi amori i quali, per un motivo o per un altro, sono solo sue fantasticherie. E l’amata sarebbe in realtà sempre la stessa, sotto tre diverse spoglie. Quindi è meglio che questo giovane metta la testa a posto e i piedi in terra.
Les Contes non sono opera di repertorio. Nella mia lunga vita ne avrò visti sì e no una dozzina. Però me li ricordo, accidenti se me li ricordo, o per l’allestimento (Carsen, De Ana…) o per qualche interprete (Domingo e la Sutherland, Kraus e June Anderson, e anche le più recenti Dessay e Rancatore splendide Olympia). Qui proprio niente.
Passo a volo d’uccello: il direttore Frédéric Chaslin, francese doc ed esperto del genere, è stato fischiato. Direi immeritatamente. Lui alcuni giorni fa si era lasciato scappare che nella precedente edizione scaligera dei Racconti (2012?) il francese (lingua) non era perfetto. Sarà. Qui la dizione è perfetta solo in Grigolo. È già qualcosa. Ma non credo che i fischi dipendano da un eccessivo campanilismo linguistico. Forse ci si è ricordati che il buon Offenbach, innamorato di Mozart al punto di farne aggiungere il nome ai suoi (Ernst, Theodor, Amadeus 1776-1822), di Mozart qua e là aveva anche la leggerezza. E in questi Contes di leggerezza non si parla proprio.  Fischi ovvi, ma moderati, per il regista Livermore coadiuvato da Giò Forma per le scene (ma ci sono delle scene, oltre alle proiezioni??) e Gianluca Falaschi per i costumi da avanspettacolo. Applausi ai cantanti, con ovazione per il protagonista Vittorio Grigolo: Hoffmann è personaggio che sembra composto per lui. Qualche anno fa gli stava ancora meglio.
Le donne. Olympia, la bambola, ha i famosi spericolati trilli che usano scatenare entusiasmi deliranti. Non qui. In effetti la voce di Federica Guida è un po’ troppo corposa per la svettante coloratura della parte. Antonia è Eleonora Buratto. Pur avendo fatto annunciare una indisposizione, si è comportata come al solito benissimo; Giulietta è la giovane promessa Francesca Di Sauro non ancora trentenne. A Nicklausse, ruolo en travesti, ha dato voce il mezzosoprano Marina Viotti, laureata in filosofia e diplomata in flauto, pregevole vocalmente e per presenza scenica.
La compagine maschile, tutti cattivi, addirittura diabolici (Lindorf/Coppelius/Dapertutto/Dottor Miracle) è stata affidata al basso Luca Pisaroni, e ci sono ancora, alternati in vari ruoli, François Piolino, Yann Beuron, Hugo Laporte, Alfonso Antoniozzi.
Grande impegno per il Coro della Scala, guidato da Alberto Malazzi, osannato come di dovere. Improbo lavoro hanno dovuto accollarsi il maestro delle luci (Antonio Castro) e la Compagnia Controluce (Teatro d’Ombre), settori inseriti da poco nei cast e che ci si dimentica sempre di citare.