Oscar 2023 fra universi paralleli, lavanderie cinesi e trincee della Grande Guerra. Il miglior attore è Brendan Fraser

LOS ANGELES, lunedì 13 marzo – Tutto come da copione. O quasi. “Everything Everyhere All at Once” fa man bassa di Oscar al Dolby Theatre di Los Angeles, aggiudicandosi sette statuette (su 11 nomination), fra le quali quella come miglior film. Vincono dunque, secondo le migliori previsioni, gli universi paralleli e la piccola, grande storia, tra commedia nera e fantasy, della povera immigrata cinese proprietaria di una lavanderia in America. Ma, piuttosto a sorpresa, il secondo posto se lo aggiudica il tedesco “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, che agguanta quattro Oscar, incluso quello come miglior film internazionale. Agli altri, briciole o niente del tutto (come all’atteso “Gli spiriti dell’Isola”, che resta a bocca asciutta). Quasi in lacrime l’ottimo ed emozionantissimo Brendan Fraser, premiato come miglior attore protagonista per “Tre Whale”. (pat)

 

ECCO I 23 VINCITORI DEGLI OSCAR 2023

Miglior film
Everything Everywhere All at Once

Miglior regia
Everything Everywhere All at Once – Daniel Kwan e Daniel Scheinert

Migliore attrice protagonista
Michelle Yeoh – Everything Everywhere All at Once

Migliore attore protagonista
Brendan Fraser – The Whale

Migliore attore non protagonista
Ke Huy Quan – Everything Everywhere All at Once

Migliore attrice non protagonista
Jamie Lee Curtis – EveryThing Everywhere All At Once

Migliore sceneggiatura originale
Everything Everywhere All at Once

Migliore sceneggiatura non originale
Women Talking

Migliore film internazionale
Niente di nuovo sul fronte occidentale – Germania

Migliore film d’animazione
Pinocchio di Guillermo del Toro

Migliore montaggio
Everything Everywhere All at Once

Migliore scenografia
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Migliore fotografia
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Migliori costumi
Black Panther Wakanda Forever

Miglior trucco e acconciature
The Whale

Migliori effetti visivi
Avatar: La via dell’acqua

Miglior sonoro
Top Gun: Maverick

Migliore colonna sonora originale
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Migliore canzone originale
Naatu Naatu – RRR

Miglior documentario
Navalny

Miglior cortometraggio documentario
The Elephant Whisperers

Miglior cortometraggio
An Irish Goodbye

Miglior cortometraggio d’animazione
The Boy, the Mole, the Fox and the Horse

Pasolini. L’umorismo come riflessione contro la classe borghese. Diverso da Pirandello, ma così vicino a Testori

(di Andrea Bisicchia) Stefano Casi, autore di “Le tragedie umoristiche di Pasolini e altre eresie”, edito da ETS, nella Collana Percorsi critici, diretta da Anna Barsotti, è considerato uno dei più accreditati conoscitori di Pasolini e, in particolare, del suo teatro, del quale ha ricostruito gli approcci giovanili, mettendoli a confronto con le famose tragedie scritte in un solo anno per dare vita a un “nuovo” teatro. Il volume esce in un momento particolare che non riguarda soltanto il centenario della nascita (1922), ma, soprattutto, la possibilità di vedere in concomitanza rappresentate le sue sei tragedie, al Teatro Arena del Sole di Bologna, durante questa Stagione, in un progetto ideato da Walter Malosti. Due sono già andate in scena: “Calderon”, con la regia di Fabio Contemi, e “Pilade” con la regia di Giorgina Pi che lo ha rielaborato insieme a Massimo Fusillo. Seguiranno: “Porcile”, regia Garella – Lucenti, “Orgia”, regia Portoghesi – Rosellini, “Affabulazione”, regia Marco Lorenzi, “Bestia da stile”, regia Stanislas Nordey.
A dire il vero, col teatro di Pasolini si erano cimentati attori importanti, come Vittorio Gassman, che abbiamo visto in una messinscena tormentata di “Affabulazione”, e registi come Luca Ronconi che, dopo aver realizzato “Calderon”, portò in scena, protagonista Umberto Orsini, una sua versione di “Affabulazione”.
Eppure, queste realizzazioni non erano state sufficienti per accettare definitivamente il Teatro di Pasolini, che risultava ancora alquanto ostico da digerire, perché ritenuto, secondo alcuni, molto difficile, essendo fin troppo carico di idee, di pensieri e pertanto inadatto alla materialità del palcoscenico.
Questa tesi viene smontata dalle due messinscene sopraccitate e dal libro di Stefano Casi che hanno dimostrato proprio il contrario. Stefano Casi aveva già pubblicato nel 2005 con UBU LIBRI (ristampato, nel 2019, presso CUE PRESS) uno studio importante, “I teatri di Pasolini”, con Introduzione di Luca Ronconi, dove iniziava a fare luce sulle novità apportate da Pasolini alla drammaturgia italiana.
Con questo nuovo studio chiarisce perché quel teatro possa essere meglio capito oggi, essendo, la sua struttura e il suo linguaggio, più facili da decifrare ed assimilare grazie all’uso che Pasolini seppe fare dell’Umorismo e grazie, anche, ai possibili accostamenti con autori italiani come Testori, Sanguineti, Scabia, Carmelo Bene, e stranieri, come Ionesco e Beckett, dopo le infatuazioni giovanili per il teatro dei Gobbi e per quello di Alberto Arbasino, in particolare, di “Amate sponde”, ai quali faceva riferimento in alcuni testi scritti negli anni Cinquanta: “Italie magique” e “Nel 46”.
La vicinanza a Testori è dovuta anche ai due Manifesti che pubblicano nello stesso anno “Per un nuovo teatro” e “Il ventre del teatro”, essendo entrambi convinti che la “rivoluzione” dovesse essere cercata all’interno del linguaggio e, in particolare, dentro il linguaggio del corpo che per Pasolini era da intendere come supporto fisico della parola che non va recitata, ma incarnata. Insomma il corpo da intendere come cassa di risonanza della parola, non proprio dialogica, bensì monologante, in fondo la centralità del monologo era tipica anche del teatro di Carmelo Bene, di Sanguineti e di Scabia. Questa scelta nacque dalla consapevolezza della incomunicabilità del dialogo e del potere che ebbe ad assumere il personaggio monologante, a sua volta ereditato dalla rarefazione del dialogo stesso, compiuta da Ionesco e Beckett.
A questo proposito, Stefano Casi scrive: “I corpi nel teatro di Pasolini si misurano con l’enunciazione verbale e il suo significato attraverso la voce, la presenza, la plasticità, la stessa antropologia”.
C’è, infine, da capire cosa intenda Casi, a proposito dell’Umorismo e in che maniera si discosti da quello pirandelliano. Diciamo che, per entrambi, l’Umorismo era una forma di difesa, ma se in Pirandello la difesa consisteva nel sentimento del contrario, per Pasolini si trasformava in una riflessione sulla classe borghese ed era utilizzato, secondo Stefano Casi, come una forma di distacco, di dissociazione dalla realtà, oltre che come senso di colpa e di dissacrazione.
In tal senso, Casi ritiene l’Umorismo una forma di eresia.

“LE TRAGEDIE UMORISTICHE DI PASOLINI E ALTRE ERESIE”, di Stefano Casi, Edizioni ETS 2022, pp. 150, € 16

La figura di Luigi Pirandello, incombente come un’ombra sul figlio Stefano, ebbe riscontri perfino in Ibsen e in Strindberg

(di Andrea Bisicchia) Figlio primogenito di Luigi, Stefano Pirandello (1895-1972), visse gran parte del suo tempo all’ombra del padre, non solo perché affascinato dal teatro, ma perché si sentì “necessario”, al proprio genitore, per l’enorme mole di lavoro che svolgeva, dopo i successi internazionali, delle sue commedie.
Stefano fu l’ideatore, insieme a Orio Vergani, del Teatro D’Arte, che rimase aperto, pur tra tante difficoltà, per ben tre anni dal 1925 al 1928, con una sua Compagnia. Dietro la miriade di impegni, c’era anche quello per la madre, Maria Antonietta Portolano (1871-1959) che, per disturbi psichici, era stata ricoverata, nel 1919, presso Villa Giuseppina, dove rimarrà fino alla morte. La vita di Stefano, pertanto, fu contrassegnata da due “doveri”, benché quello nei confronti del padre lo impegnasse intellettualmente.
L’amore per il teatro si trasformò, per Stefano, in amore per la scrittura, tanto che scrisse ben 17 testi che Sarah Zappulla Muscarà pubblicò, nel 2004, con Bompiani, in un cofanetto di tre volumi. Instancabile ricercatrice, Sara, insieme al marito Enzo e grazie all’Istituto di Storia del Teatro Siciliano, è diventata una divulgatrice delle Opere di tanti autori siciliani che, senza di lei, sarebbero stati dimenticati.
A cura sua e di Enzo è stato pubblicato di Stefano Pirandello “Un padre ci vuole” in due edizioni e in due volumi separati, editi da Cue Press, il primo in italiano, il secondo in inglese, col titolo ”All you need is a father”, con traduzioni di Enza De Francisci e Susan Bassnett, a cui dobbiamo anche delle Note.
Sempre grazie all’interessamento di Sarah Zappulla Muscarà, “Un padre ci vuole” è stato tradotto in francese, greco, serbo, spagnolo, arabo, in attesa delle traduzioni in ceco e austriaco. C’è da dire, però, che, non sempre all’interesse scientifico, corrisponda un interesse di rappresentazione, anzi, a questo proposito, il testo che ebbe una messinscena nel gennaio del 1936, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi e la partecipazione di Giuseppe Porelli, fu più volte rimaneggiato, fino all’edizione del 1960 che è quella pubblicata. Alla prima, al Teatro Alfieri di Torino, fu presente Luigi Pirandello.
C’è ancora da dire che nel 1953 capitò a Stefano l’occasione che lo avrebbe potuto imporre come autore teatrale, grazie alla messinscena al Piccolo Teatro di “Sacrilegio umano”, con la regia di Giorgio Strehler, che fu un vero insuccesso, forse anche per la poca cura del grande regista.
“Un padre ci vuole” risente molto della dedizione di Stefano nei confronti del padre, ma, a dire il vero, mostra una sua autonomia e ben si inserisce in quella drammaturgia che sceglie come protagonista la figura paterna, soprattutto nel secondo Ottocento, sia nella letteratura nordica che in quella russa. Basterebbe ricordare “Il padre” o “La signorina Giulia” di Strindberg, con i famosi stivali del padre tenuti a lucido dal servo Jan, o ancora “Hedda Gabler” di Ibsen, con le due pistole donatale dal padre come segno di potere che lei utilizza in maniera irrazionale. Il padre si presenta come una figura complessa nella drammaturgia di fine secolo, da lui dipendono l’educazione e i fabbisogni familiari, e non sempre lo si trova adatto, anche perché in molti casi ha pensato solo a se stesso.
Vorrei ricordare, inoltre, che anche il teatro russo ci ha lasciati dei drammi ben orchestrati su questo argomento, vedi “Padri e figli” o “Pane altrui“ di Turgheniev o vedi la figura del padre nei “Fratelli Karamazov”. E infine, come dimenticare la figura complessa del Padre nei “Sei personaggi”.
Stefano Pirandello ha una sua visione della figura paterna, il suo protagonista, Oreste, intende essere il tutore del padre sessantenne e vorrebbe interessarsi a lui con ogni mezzo, anche perché, in occasione della tragedia che colpì la famiglia, dovuta a un incidente che causò la morte della madre e dei fratelli, travolti a causa di un passaggio a livello forse incustodito, il padre aveva deciso di suicidarsi e lui era riuscito a salvarlo. La commedia è costruita sul tema del rimorso e delle ferite dell’anima, che coinvolgono gli esseri umani, tanto che c’è bisogno della comprensione dell’altro per poterle emarginare. Oreste, a suo modo, vive drammaticamente il bisogno del padre di aggrapparsi alla vita, magari, grazie a un nuovo matrimonio, con una donna molto più giovane, solo che prevede altre crisi paterne e fa di tutto per essere la sua ombra, così come Stefano aveva fatto di tutto per essere l’ombra del padre Luigi.

Stefano Pirandello, “Un padre ci vuole”, a cura di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, Ed. Cue Press 2022, pp. 58. € 14,99.

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E l’esile fanciulla coreana, Eun Sun Kim, eccola sul podio a dirigere Bohème. Con violenza inaudita da energumena

MILANO, domenica 5 marzo ► (di Carla Maria Casanova) Non occorreranno molte parole per la 24ma ripresa di Bohème di Puccini (e parlo solo della Scala) per un totale di 241 recite (+ le 8 di quest’anno se ho contato bene) avvenute nell’arco di 60 anni. Un record assoluto.
Questa Bohème “di” Zeffirelli, del quale si commemorano i 100 anni della nascita, esordì il 31 gennaio 1963 e fu subito trionfo. Tanto per dire, era diretta da Karajan e il cast comprendeva Mirella Freni, Gianni Raimondi (tenore eccelso mai abbastanza ricordato), Rolando Panerai, Eugenia Ratti, Ivo Vinco. Se lo spettacolo è immortale, purtroppo gli interpreti “vita immortal non hanno”. E si fa con quello che passa il convento.
Ieri sera alla Scala si è avuto un attimo di smarrimento (perpetrato però per tutta la durata della esecuzione) al primo colpo di bacchetta. Colpo nel senso che chi stava sul podio si è avventato sulla partitura generando un’accozzaglia di suoni di violenza inaudita, laddove i cantanti, per tutto il primo atto, a voglia sgolarsi. Impossibile farsi sentire, soverchiati da un’orchestra tonitruante. Poi si è scoperto che si tratta di una direttrice, la esile e delicata coreana Eun Sun Kim, la quale, forse proprio per sopperire al femmineo aspetto, ha creduto bene improvvisarsi in una sorta di energumeno. Non bene. Forse il nuovo glossario correct non permette più di dare informazioni intime, tipo precisare il sesso di una persona. Di solito il nome illumina ma qui no. Fatto sta che sul podio c’era una persona che dirigeva con estrema violenza. Fate un po’ voi.
Nelle 7 repliche che seguiranno si alterneranno vari interpreti. Ieri sera Mimi era Marina Rebeka, soprano lituano di prestigioso curriculum. Al suo fianco nomi meno noti (accuratamente celata la data di nascita), che si sono messi in valore negli ultimi anni anche in campo internazionale: Freddie de Tommaso (Rodolfo) tenore, vincitore del Concorso Placido Domingo e del Viñas di Barcellona; Luca Micheletti (Marcello)  baritono, debutto a Cagliari nel 2018 in Escamillo ma ha alle spalle un bel tirocinio con Ronconi, Orsini e Bellocchio come interprete di prosa, qualità che emergono anche nel suo ruolo di cantante; Irina Longu (Musetta) soprano che voci di corridoio volevano cagliaritana, mentre è russa, nata in Moldavia (ma la Moldavia non faceva parte della Romania? Almeno lo era quando ci sono stata io… qui i confini vanno e vengono e non si riesce più a stargli dietro), comunque la Longu si è perfezionata all’Accademia del Teatro alla Scala dove ha debuttato  giovanissima, nel Moise et Pharaon diretta da Riccardo Muti (2003); Alessio Arduini (Schaunard) baritono, si è fatto le ossa, cioè le corde vocali, cantando molto Mozart, con debutto nel  Don Giovanni, produzione del Pocket Opera, al Sociale di Como, poi ha calcato scene importanti, dalla Scala al Metropolitan, alla Royal Opera House al Maggio fiorentino; il coreano Jongmin Park (Colline) basso, formatosi all’Accademia della Scala. Dire che questo cast abbia riservato grandi emozioni è dire molto. Anche lo spettacolo, in 60 anni di rimaneggiamenti (la regìa di Zeffirelli è ripresa da Marco Gandini, gli originali costumi di Piero Tosi sono stati ripresi da Anna Biagiotti) non ha più la freschezza originale e comporta qualche licenza (quando mai Mimi entra al Café Momus con già in capo la “cuffietta rosa”? Rodolfo ha avuto il tempo di correre a comperarla ed omaggiarne Mimì, fin dalla la prima sera?).
Ma beninteso è una signora Bohème, con tutti i suoi 60 anni sul gobbo.
Teatro esaurito. Successo scontato (senza esagerazione).

Repliche: 7, 11, 14, 16, 19 (ore 14,30), 22, 26 (ore 14.30) marzo