La scomparsa di Renata Scotto (89 anni). Meravigliosa, forse insuperabile. Era considerata l’erede della Callas

MILANO, mercoledì 16 agosto ► (di Carla Maria Casanova) – È scomparsa stanotte a New York, dove risiedeva da tempo, Renata Scotto, soprano tra le grandissime della scorsa generazione. Piccola e rotondetta, a 17 anni quando debuttò (La Traviata a Savona) ci fu qualcuno che tentò di chiamarla affettuosamente “Renatina” per distinguerla dall’imperante Tebaldi, ma lei diede subito a vedere che non le si addiceva nessun diminutivo. E fu “la Scotto”.
Apparve sulla scena lirica nazionale al concorso AsLiCo 1953, che vinse debuttando nello stesso autunno ne “La Traviata” (Milano, Teatro Nuovo) per arrivare due mesi dopo alla inaugurazione della Scala con la Wally di Catalani, accanto alla grande sua omonima e a Mario del Monaco, direzione di Carlo Maria Giulini. Lei, vestiva i panni del ragazzino Walter (aveva 19 anni).
Renata Scotto un po’ anomala fu, in quanto, al di là della voce di grande estensione, soprattutto nel registro alto, ma anche forte di un centro perfetto, si espresse in un repertorio vastissimo (oltre 60 ruoli) e poi in campi alterni come la regìa, i costumi (Madama Butterfly all’Arena di Verona), la direzione di una scuola di canto.
Aveva una tecnica inattaccabile (“l’ho dovuta imparare rimettendomi a studiare da capo, su consiglio del mio grande collega ed amico Alfredo Kraus – ricordava- che mi consigliò di farmi sentire dalla sua maestra, la celebre Mercedes Llopert. E fu la mia salvezza!”  Voce inconfondibile, la sua, a volte un po’ vibrata nell’acuto, ma sostenuta da intensa espressività della parola. Erede Callas? Sì, forse la sola. Certo a quel livello. Lo si capì fin dalla tournée della Scala a Edimburgo (1957) quando sostituì la Callas nell’ultima recita di Sonnambula. Aveva 23 anni ed era praticamente sconosciuta. Comunque all’estero. Qualcuno arricciò il naso davanti alla sostituzione di questa pivellina, però, a recita ultimata, qualcuno azzardò persino che era stata migliore della titolare. Non esageriamo, ma vi assicuro che quella interpretazione (c’ero, all’inseguimento della Callas) anche a me questa Scotto risultò meravigliosa. E credo di non aver mai più sentito un’altra Sonnambula come lei (Callas a parte ovviamente). Amina è ruolo difficilissimo, trasparente, di assoluta leggerezza pur nella perizia stratosferica della cabaletta finale.
Renata Scotto è stata artista eccelsa. Ricordate la sua Lucia di Lammermoor alla Scala con Gianni Raimondi? Poi Riccardo Muti la portò anche a cimentarsi in Lady Macbeth! – Ho avuto la grande fortuna di sposare un musicista (Lorenzo Anselmi, violinista dell’Orchestra della Scala). Ho preparato tutti miei ruoli con lui.
Se la vicenda artistica della Scotto è stata fortunata, lo è stata anche la sua vita privata e questo per grande merito suo. Nel pieno della sua carriera, mi disse un giorno: “Adesso mi fermo per qualche mese. Voglio un figlio, anzi due. Vedi, adesso sono osannata da tutti ma un giorno non canterò più, dovrò dire addio al palcoscenico e allora? Non voglio diventare una vecchia signora con rimpianti. Voglio preparami una vita piena anche domani”.
Detto fatto: due figli, un maschio e una femmina (ora ci sono i nipoti).
Una linea analoga anche nel suo percorso. Ad un certo punto lei e il marito decisero di trasferirsi in America. “Ci abbiamo pensato molto, è stato anche doloroso, ma è stato bene così.”  Guarda caso, non ci ha messo molto a diventare regina del Met (“ho avuto la fortuna di trovare nel maestro Levine un perfetto collaboratore”). Anche lì, una grande intelligenza: “non ho mai voluto che i miei figli dovessero subire i ritmi della vita di una cantante. Ho preso uno studio fuori dalla mia casa di Manhattan, dove non c’è nemmeno un pianoforte. Né una foto di me in scena. La vita privata l’ho salvaguardata bene.”
Renata Scotto aveva lo sfizio di non truccarsi in scena. “Nella vita di tutti i giorni sì, altrimenti si corre il rischio di sembrare appena usciti dal letto” – diceva. “Ma in teatro, quei ceroni, quegli occhi cerchiati stravolgono l’espressione. Io non trucco mai.
Dicevo, di minuscola statura, eppure in scena era un gigante, e bellissima! Ricordo cos’era come Carlotta in Werther, di commovente femminilità. Accanto a Kraus, un altro del suo stesso pensiero: Niente tamburi, niente strombazzamenti. Eppure, in teatro, quali trionfi!
E le regìe di oggi trasgressive? “Secondo me tutto va, se c’è il rispetto per il compositore e il librettista. Non occorre lavorare alla vecchia maniera, però la tradizione va salvata. L’opera lirica ha un suo linguaggio da cui non si può prendere il largo.”
Se non avessi fatto la carriera di cantante lirica, cos’avresti fatto?
Avrei cantato comunque…”
E adesso, della vecchia guardia del melodramma chi resta? Ho paura nessuno.

Divertente parodia di teatro nel teatro. Come visto a scena vuota da dietro le quinte, mentre stanno montando l’opera

PESARO, lunedì 14 agosto ► (di Carla Maria Casanova) Signori, questa volta ci si diverte. Le regìe, come si sa, hanno un gran compito perché sta a loro impostare e, in certo senso, far bello o brutto uno spettacolo, sempre restando l’importanza del cast, articolo primo nell’opera lirica. Le regìe possono essere tradizionali, veriste, trasgressive, intellettuali, psicanalitiche, del tutto pazze, e via discorrendo. Tutto si può fare, a condizione che ci sia un senso, o almeno un’idea.

Il francese Arnaud Bernard, violinista nella Filarmonica di Strasburgo, debuttante regista a 29 anni (“Il trovatore” a Tolosa), ha poi curato una quantità di regie in tutto il mondo (a Verona ha ottenuto grande successo in Bohème e Nabucco). Per la prima volta al Rof, gli è stata affidata Adelaide di Borgogna, opera scritta velocissimamente da Rossini nel 1817, anno in cui il musicista aveva già sfornato tre capolavori (Cenerentola, La Gazza ladra, Armida) facendo la spola tra Napoli, Roma e Milano. Adelaide va in scena il 27 dicembre a Roma ed è un mezzo fiasco. Con tutto quell’andare e venire è comprensibile. Inoltre la partitura manoscritta è andata perduta e si dovette ricorrere a note di testimoni apografi andando come al solito a pescare qua e là in opere precedenti. Nel 1825 l’opera scompare dai cartelloni. Ci torna solo nel 1985 al Festival della Valle d’Itria. Nel 2006 è in cartellone a Pesaro in forma di concerto e nel 2011 in forma scenica. E finalmente le arride il successo.

La storia riprende fatti e personaggi storici. Siamo intorno al 1000, Adelaide è la vedova di Lotario, re d’Italia, ucciso da Berengario che trama per farla sposare al proprio figlio Adelberto per assicurarsi il trono. Per sfuggire al complotto Adelaide trova rifugio nella fortezza di Canossa e chiama in suo aiuto l’imperatore Ottone, che, appena la vede, si innamora di lei. Lei, ripresasi in verità un po’ rapidamente dalla recente vedovanza, ricambia con passione il sentimento di lui. Intervengono vari intrighi, eventi bellici e pause romantiche, tradimenti, baruffe, macchinazioni finché, debellati intrusi e impedimenti, Ottone e Adelaide convolano a regali nozze.

Storia abbastanza banale. Allora Arnaud Bernard ha l’idea di portare il tutto in un teatro dove si sta montando appunto l’opera Adelaide di Borgogna. È il “dietro le quinte” tanto bramato dal pubblico, che sempre vorrebbe conoscere cosa succede al di là dal sipario. Qui lo vede. Beninteso un po’ calcato, perché è teatro nel teatro. Una parodia bonaria con risvolti spassosi. Gli stessi elementi scenici – il trono, il letto a baldacchino, la tavola imbandita…- (Alessandro Camera scenografo, Maria Carla Ricotti costumista, luci di Fiammetta Baldiserri, tutti bravissimi): piombando dall’alto su un palcoscenico vuoto, con qualche intoppo nel posizionamento, producono un effetto comico. Intanto, il regista sta a tavolino con il suo aiutante, manda ordini, interviene in posizioni, movimenti, entrate, soprattutto delle masse. Più avanti, indietro, non da qui…  i suoi gesti sono volutamente esagerati, le espressioni melodrammatiche, istrioniche.
C’è anche un doppio gioco, in quanto alcuni sentimenti dei protagonisti non appartengono alla finzione teatrale ma alla realtà. Quindi è tutto da scoprire: sarà vero o falso? Questa Adelaide un po’ facilona nel dare il suo cuore a Ottone imperatore (buttalo via!) forse lo ama per davvero… Il pubblico è coinvolto, quasi chiamato a partecipare agli eventi. Lettura persino psicanalitica, ma senza sconvolgimenti astrusi. Molto godibile.

Il cast originale prevedeva, per Ottone, il solito castrato. Qui è il contralto armeno Varduhi Abrahamyan già nota al Rof per essere stata Malcom (Donna del lago, 2016) e Arsace (Semiramide, 2019). Ha bel timbro, bella scuola di canto, bel portamento. Adelaide è il soprano russo Olga Peretyatko (debutto al Rof nel 2006 seguìto da 8 presenze). Anche se regge con professionalità il suo ruolo non ha più esibito lo splendore vocale dei primi anni. Molto disinvolta in scena, nell’ultima aria di forsennata difficoltà, ha accusato una certa stanchezza pur risolta con perizia tecnica. Molto applaudita. Hanno cantato con onore il profondissimo basso Riccardo Fassi (Berengario), il tenore texano René Barbera (Adelberto), il sopranino italiano Paola Leoci (Eurice) e Valery Makarov e Antonio Mandrillo nelle parti minori.
A capo dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e del Coro Teatro Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina c’è il maestro Francisco Lanzillotta, direttore e compositore (nel doppio ruolo ha recentemente ha trionfato a Bruxelles nel progetto Bastarda). Con alle spalle una prestigiosa carriera esercitata in tutto il mondo, dirige un repertorio da Rossini al contemporaneo. Grazie per averci dato questa Adelaide di Borgogna sottolineandone la freschezza e il divertimento.
Da segnalare una chicca per martedì 22 agosto, al Teatro Sperimentale. Nel Concerto di Belcanto detto anche Concerto Bartoli, si esibiscono madre e figlia: Cecilia Gasdia, “vecchia” gloria del Rof oggi sovrintendente dell’Arena di Verona, accompagna al pianoforte Anastasia Bartoli, già protagonista di Eduardo e Cristina, in apertura del Festival. Nel concerto canterà pagine di Verdi, Skrjabin, Liszt, Wagner, Rossini.
Tutti sappiamo poi che nel 2024 Pesaro sarà Capitale Italiana della Cultura.

Repliche di “Adelaide di Borgogna”: il 16,19, 22 agosto, sempre alle ore 20.

 

Canto, direzione, regìa, messinscena. Tombola! “Aureliano in Palmira”: sublime. Questa volta, tre ore tutte al massimo

PESARO, domenica 13 agosto ► (di Carla Maria Casanova)
Aureliano in Palmira è il secondo titolo andato in scena ieri sera al Rof.
È una ripresa del 2014, regìa di Mario Martone, con cast vocale interamente rinnovato. Se il cast di allora fu, a mio ricordo, eccellente, con una straordinaria Jessica Pratt, quest’anno siamo nell’ordine del sublime. Una simile compagnia di canto non so dove la si potrebbe trovare altrove. Cito solo i quattro interpreti principali:
Sara Blanch, soprano (Zenobia), Raffaella Lupinacci, mezzosoprano (Arsace), Alexey Tatarintsev, tenore (Aureliano), Marta Pluda, mezzosoprano (Publia).
Le due signore (Zenobia e Arsace), nell’opera coppia innamoratissima (Arsace è en travesti) cantano per tutta l’opera ed è tanto cantare giacché sono due atti per un totale di oltre 3 ore e mezza. Magari un niente di recitativi del primo atto (105 minuti) poteva essere eliminato ma l’edizione critica – a cura di Daniele Canini e Will Crutchfield – ha fatto aprire tutto l’apribile, e d’altronde Rossini era molto sicuro del fatto suo se nei due mesi di preparazione (tempo per lui insolitamente lungo che non gli capiterà più di avere per dieci anni) scriveva a sua madre “scrivo musica divina”.
Eppure fu un fiasco solenne, il 26 dicembre 1813, inaugurazione della stagione di carnevale della Scala. Rossini aveva 21 anni, è vero, ma a suo attivo già molte opere di successo di cui le trionfali “Tancredi” e “Italiana in Algeri” di quello stesso anno. E allora come mai? Anche questo Aureliano fu tacciato di centone, per via di alcune arie prese da opere precedenti. Ed anche noi, saputelli, appena sentiamo le prime note della sinfonia esclamiamo con sussiego “Barbiere di Siviglia!” e ancora dopo, con altre parole – il libretto segna la prima collaborazione di Rossini con Felice Romani – riconosciamo le note pari pari di “una voce poco fa”. Solo che, particolare non trascurabile, il Barbiere verrà tre anni dopo (1816) ed anche se per lui ci fu alla prima un fiasco iniziale, il successo clamoroso delle repliche e la popolarità mondiale dell’opera oscurarono qualsiasi precedente, ivi compreso l’Aureliano.
E ad Aureliano torniamo adesso, lasciando dire al suo Autore che si trattava di “musica divina”. Tre i grandi ruoli, di cui quello di Arsace composto per il celebre castrato Velluti, qui sostenuto da contralto, mentre soprano e tenore hanno parti di “agilità di forza”. Merita citazione anche l’ultima bella aria di Publia (Non mi lagno che il mio bene) cantata con grande proprietà da Marta Pluda.
Ma che dire dei primi tre, dotati dell’impareggiabile dono di timbri morbidi, mai stridenti nemmeno nel registro superacuto e aiutati da uno stile belcantista che li porta a cantare apparentemente sempre privi di sforzo. Il personaggio del duce romano tutto patria e onore, per il quale la pax romana prevale anche sull’amore assoluto sarebbe un po’ melenso senza il canto avvincente del russo Alexey Tatarintsev. Zenobia, regina di Palmira, fiera e indomita ma perdutamente succuba dell’amore, al secolo la spagnola Sara Blanch, possiede acuti e sopracuti vertiginosi ed anche pause liriche ammalianti; Raffaella Lupinacci, che nel 2014 vestiva i panni di Publia, è passata al grande ruolo di Arsace, difficilissimo, più ancora che per la tessitura, per il duplice versante del personaggio, di guerriero, principe di Persia e di amante di Zenobia. Sarà questa dicotomia a prevalere anche nella storia, che a tutto antepone l’amore. Persino il dux Aureliano ne rimane soggiogato: i due, pur nemici e vinti, egli perdona e offre loro la libertà.
Nello spettacolo del Rof c’è alla fine un certo sbigottimento perché i due amanti perdonati (Zenobia e Arsace) si abbandonano a un interminabile amplesso così intenso da far pensare che tra i due ci sia qualcosa per davvero. O è tutto potere della regìa di Martone?
La regìa, valendosi delle scene di Sergio Tramonti e dei costumi di Ursula Patzak – trio presente al Rof dal 2004 – sortisce anche all’Arena Vitrifrigo uno spettacolo inebriante, rivisitando l’edizione del 2014 allora allestita al teatro Rossini. Siparietti trasparenti dividono lo spazio che viene occupato dal coro in pittoreschi costumi orientali con immagini alla Delacroix. Nel secondo atto, dove il libretto segnala una “amena collina alle sponde dell’Eufrate” Martone imbandisce una scena bucolica, con pastori e villanelle e persino tre capre (vere) che brucano sale e non mancano di lasciare le immancabili palline di sterco, spazzate con solerzia. Martone dice che questi “magici animali” lo accompagnano spesso nei suoi lavori. Animali in scena attori difficili da gestire ma sempre meno ingombranti degli elefanti di Aida.
Aureliano in Palmira è diretta dal maestro greco George Petrou, all’occorrenza anche regista di opera, operetta e musical. Qui autorevole gestore dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del coro del Teatro della Fortuna di Fano.
Il successo delirante che ha coperto di applausi tutti i fautori di questo Aureliano dimostrano che le lunghezze a teatro non contano, quando l’esecuzione è perfetta.

Repliche 15, 18, 21 agosto, ore 20.

Concluso il Festival del cinema 76, tra defezioni e incursioni di attivisti contro il degrado ambientale. I Pardi e altri Premi

Maryna Vroda (Photo by Alessandro Levati/Getty Images)

Pardo d’oro al film iraniano “Mantagheye Bohrani” (Critical Zone)

Premio Speciale della Giuria al rumeno Radu Jude per “Non aspettarti troppo dalla fine del mondo”

Migliore regista l’ucraina Maryna Vroda con “Stepne”

LOCARNO (CH), sabato 12 agosto ► (di Marisa Marzelli) – Tra ospiti che non sono arrivati per via dello sciopero di sceneggiatori e attori in America (la defezione più significativa quella di Cate Blanckett in veste di produttore esecutivo del film di chiusura Shayda della regista iraniana Noora Niasari) e un’incursione sul palco della Piazza di due attivisti di ActNow per protestare contro il degrado dell’ambiente e il surriscaldamento, proprio mentre avveniva la premiazione, per il suo film Voyage au pôle Sud del biologo e documentarista francese Luc Jacquet, si è conclusa la 76. Edizione del Locarno Film Festival.
Il Palmarès, reso noto nel pomeriggio, ha assegnato all’unanimità il Pardo d’oro al film iraniano Mantagheye Bohrani (Critical Zone) del regista Ali Ahmadzadeh, un lavoro girato in clandestinità nelle strade di Teheran. L’autore era assente perché gli è stato vietato di lasciare il Paese. Le autorità sembra gli abbiano anche fatto pressione perché ritirasse l’opera dal Festival, sostenendo che ha girato senza i dovuti permessi. Il Pardo d’oro è stato ritirato dal produttore, il quale ringraziando ha sottolineato come il premio sia importante perché ispira e dà forza anche ad altri cineasti iraniani le cui voci sono state censurate. Il film, ha continuato il produttore, rappresenta anche la rabbia degli iraniani e “voi (sottinteso persone occidentali) siate arrabbiati perché l’Iran è ancora sotto questo regime”. Standing ovation dei presenti.
Anche gli altri principali premi del Concorso ufficiale sono stati assegnati dalla giuria (presieduta dall’attore francese Lambert Wilson) rispettando criteri, in una forma o nell’altra, politici. Il Premio Speciale della Giuria è andato al rumeno Radu Jude per Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, un film con vari temi, compresa la gig economy. Invece come migliore regista è stata premiata l’ucraina Maryna Vroda con Stepne. La cineasta, ritirando il trofeo, ha voluto ricordare i molti suoi amici attualmente al fronte ed altri morti durante la guerra; ha pure lanciato un grido di soccorso chiedendo “aiutateci a non scomparire”.
Stando sulla carta al programma, tra i 17 titoli del Concorso ufficiale la giuria avrebbe potuto avere un occhio di riguardo per i tre registi in gara più famosi a livello internazionale (il filippino Lav Diaz, il rumeno Radu Jude, il francese Quentin Dupieux) oppure orientarsi verso cineasti più giovani o sperimentali, soprattutto in considerazione del fatto che Locarno è famosa per le nuove scoperte. La scelta è stata invece orientata verso le urgenze politiche che angustiano il mondo in questo momento. Comunque c’è stato molto margine per premiare anche nuove realtà, basti pensare che prima di assegnare i Pardi principali sono sfilati per 45 minuti sul palco i vincitori di riconoscimenti assegnati nelle numerose sezioni collaterali.
Un’edizione del Festival di Locarno, quella conclusasi il 12 agosto, nell’insieme apprezzata e caratterizzata dal ritorno consistente del pubblico, anche quello più giovane – si calcola almeno il 10% di spettatori in più –.
Apprezzati pure i film della sera in Piazza Grande, tutti di una qualità che va da ottima ad accettabile, compresa una vera scoperta. Si tratta del film serbo Guardiani della formula (che sarà mostrato nei prossimi giorni anche al Festival di Sarajevo) su un fatto storico avvenuto durante la Guerra Fredda e sconosciuto ai più: nella Jugoslavia di Tito un gruppo di scienziati impegnati in un esperimento nucleare (si cercava di mettere a punto una bomba atomica nazionale?) rimase contaminato e fu trasportato segretamente in un ospedale parigino dove un medico stava lavorando al primo trapianto di midollo. Si salvarono quasi tutti ma il lavoro dei servizi segreti fu tale che non se ne seppe niente.
Prossima edizione del Festival di Locarno dal 7 al 17 agosto 2024 ma senza il presidente Marco Solari, che dopo 23 anni lascia. Gli succederà la mecenate di fama internazionale Maja Hoffmann.