Doisneau, non solo “Il bacio”. In 130 scatti tutta l’umanità delle sue foto “di strada”. E di una Parigi che è pura poesia

“L’Information scolaire”, Parigi, 1956

MILANO, mercoledì 10 maggio ► (di Patrizia Pedrazzini) Un fotografo, una fotografia. Robert Doisneau, “Il bacio all’Hôtel de Ville”. È così. Anche se l’archivio del maestro francese (vissuto fra il 1912 e il 1994), e tuttora conservato nell’Atelier di Montrouge, periferia sud di Parigi, di negativi ne conta 450.000. Anche se ormai lo sanno tutti che i due innamorati della foto altro non erano che due giovani attori che lo stesso Doisneau aveva fatto posare un po’ dappertutto a Parigi, alla Madeleine, in Place de la Concorde, su un autobus diretto al Chȃtelet, per poi scegliere alla fine lo scatto davanti all’Hôtel de Ville.
Il servizio glielo aveva commissionato la rivista “Life”. Niente da fare: “Le Baiser” è un’icona. E ci mancherebbe.
Ma quante altre immagini che parlano di umanità e di dolcezza, di sensibilità e di rispetto, di modestia, delicatezza e umiltà, si possono ritrovare fra gli oltre 130 scatti, tutti rigorosamente in bianco e nero, esposti fino al prossimo 15 ottobre al Museo Diocesano di Milano? Praticamente tutte.
In questo senso la mostra è una sorta di ammaliante passeggiata attraverso i giardini della capitale, lungo la Senna, per le strade del centro, ma soprattutto delle periferie, all’interno dei fumosi bistrot. Una passeggiata lunga cinquant’anni (ma concentrata sui decenni Quaranta e Cinquanta), che riesce a immortalare l’eterno fascino di una Parigi che non tornerà mai più, ma che non smette di far innamorare. Le donne con i vestiti stretti in vita, gli uomini con l’immancabile basco nero calato in testa, l’occhio attento e severo delle portinaie, i bambini (tanti bambini) che giocano per terra, stanno insieme, vanno a scuola, gli innamorati che si abbracciano, gli animali.
La strada. Ed è lì, lungo quei marciapiedi polverosi, sugli acciottolati bagnati, nelle modeste botteghe, davanti alle giostrine ferme, che la Parigi del dopoguerra diventa poesia. E che si capisce come Doisneau sia considerato, con Henri Cartier-Bresson, uno dei padri della fotografia umanista francese, nonché del fotogiornalismo da strada.
Ecco allora il viso pensieroso e gli occhi bassi di “Mademoiselle Anita” (1951); lo sguardo dell’anziano che fissa la testa esangue di un vitello appesa al gancio di una macelleria in “L’innocent”, del 1949; o ancora il cagnolino curioso che solo si volge al fotografo mentre il padrone è intento a osservare il lavoro di un pittore (“Le fox terrier du pont des Arts”, 1953). E tante altre ancora, a decine. Ma in tutte la stessa sensibilità nei confronti di un contesto sociale modesto, tuttavia sempre “trattato” con una sorta di dignitosa leggerezza che, chissà come, sembra parlare di libertà.
I bambini, per esempio, che popolano e riempiono di vita le periferie diroccate e i terreni inutilizzati di quelle che diventeranno le banlieues, e che il fotografo segue nei loro giochi, trasformandoli in protagonisti dei suoi scatti fin dalla metà degli anni Trenta.
Oggi tante di queste foto non sarebbero più possibili (e ce ne sarebbe da dire, in proposito). Ma oggi la strada è diventata un territorio ostile alla fotografia. Il che non fa che conferire ancora più valore all’opera di Doisneau e alla sua testimonianza.
“Le meraviglie della vita quotidiana sono così eccitanti. Nessun regista può ricreare l’inaspettato che si trova nelle strade”.

“Robert Doisneau”, Milano, Museo Diocesano Carlo Maria Martini, piazza Sant’Eustorgio 3, fino al 15 ottobre 2023

www.chiostrisanteustorgio.it

Tragedia di immigrati italiani a Brooklyn, come un film in bianco e nero. Qualche riserva, ma un gigantesco Popolizio

MILANO, mercoledì 10 maggio ► (di Emanuela Dini) La commedia ha quasi 70 anni, ispirata ad Arthur Miller da un fatto di cronaca che lo turbò parecchio, “Uno sguardo dal ponte” andò in scena nel settembre del 1955 a New York, con poco successo, poi, in una seconda versione rimaneggiata e allungata nell’ottobre del 1956 a Londra con la regia di Peter Brook.
In Italia la prima regia teatrale fu quella di Luchino Visconti nel 1958, e gli attori erano Paolo Stoppa, Rina Morelli, Paolo Giorda, Ilaria Occhini, Sergio Fantoni, Corrado Pani. Nel 1962 ne venne fatto un film con regia di Sidney Lumet e protagonista Raf Vallone e poi, negli anni, innumerevoli versioni teatrali e anche un’opera, anno 1999, prima mondiale al Lyric Opera of Chicago, composta da William Bolcom e diretta da Dennis Russell Davies, con collaborazione al libretto di Miller, presente e applauditissimo in teatro.
Una pietra miliare, dunque, innumerevolmente riproposta nei teatri di mezzo mondo. Una storia a tinte cupe, dove amore, paternalismo, omertà e violenza si intrecciano drammaticamente e disegnano i contorni labili tra giustizia, legge, sentimenti e morale.
Nel sobborgo di Red Book, dalle parti di Brooklyn, negli anni ’50, vive l’immigrato italiano Eddie Carbone, con la moglie Beatrice e la nipote diciottenne Catherine, di cui è tutore legale in seguito alla morte dei genitori di lei. Una famiglia italo americana, di origine siciliana, dove il padre padrone Eddie accetta malvolentieri di vedere crescere Catherine, a cui è legato da un affetto un po’ troppo affettuoso che arriva ad assumere toni incestuosi, sempre soffocati. Quando arrivano due cugini siciliani, immigrati clandestini, e Catherine si invaghisce di uno dei due arrivando a volerlo sposare, Eddie, pur di non fare “andare via” Catherine – “Lasciala andare, lasciala andare…” lo supplicano invano la moglie e l’amico avvocato – denuncia i due cugini, che verranno arrestati. Ma uno dei due, e non è l’innamorato di Catherine, si vendicherà, uccidendo Eddie.
Massimo Popolizio, protagonista e regista, ha spiegato che la sua messa in scena «Assomiglia molto a una sceneggiatura cinematografica, e, come tale, ha bisogno di primi, secondi piani e campi lunghi. Alla luce di tutto il materiale che questo testo ha potuto generare dal 1955 a oggi, cioè film, fotografie, serie televisive credo possa essere interessante e divertente” una versione teatrale che tenga presente tutti questi figli”. Una grande storia, raccontata come un film… ma a teatro. Con la recitazione che il teatro richiede, con i ritmi di una serie e con le musiche di un film».
Il risultato è accattivante, ma con qualche lieve perplessità. Elegantissima e ronconiana la scenografia, con i mobili che vengono spostati a vista; suggestive le luci taglienti che ricreano un’atmosfera da film in bianco e nero (appunto); evocativa la scena della denuncia dei cugini all’ufficio immigrazione, con un telefono che cala dall’alto; partecipati e empatici i dialoghi tra Eddie e l’avvocato, che tenta invano di farlo ragionare;  onirica la scena dell’omicidio di Eddie, che cade a terra al ralenti e poi guarda beato verso il pubblico, a occhi socchiusi verso il cielo, come se la morte fosse un’agognata liberazione.
Però, però…il peso del dramma, la tragedia, la voragine morale di un innamoramento proibito assumono toni grotteschi, i personaggi rischiano di diventar macchiette dalla parlata siciliana stretta e con caratterizzazioni quasi caricaturali, tutti urlano e corrono troppo e i momenti più forti e drammatici – i dialoghi tra Eddie e l’avvocato, la consapevolezza di Catherine di volere troppo bene allo zio, la vergogna della denuncia dei cugini – rimangono a mezz’aria e non si tingono di nero.
Popolizio in grande spolvero regala momenti da guitto, gigioneggia con grandissima maestria ed è una gioia degli occhi e un capolavoro di bravura vederlo barcollare, motteggiare, parlare in falsetto, immolarsi in “fermi immagine” squisitamente cinematografici; tutti gli altri corrono, saltano, ballano, insomma non stanno mai fermi; l’avvocato è quasi un bonaccione e non ha l’autorevolezza della “voce della coscienza” o il ruolo da narratore da coro greco che ci si aspetterebbe.
Comunque un signor spettacolo di 90 minuti senza intervallo, un meccanismo perfetto, una messa in scena di grande efficacia.
Applausi a scena aperta e una vera e propria ovazione a Popolizio, che riesce a fare anche del momento dei ringraziamenti un pezzo di teatro. Mostruosamente bravo.

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“Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller (traduzione Masolino D’Amico), regia Massimo Popolizio, con Massimo Popolizio, Valentina Sperlì, Michele Nani, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli, Gaja Masciale, Felice Montervino, Marco Maravacchio, Gabriele Brunelli, Marco Parlà. Scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca. Produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale. Al Piccolo Teatro Strehler di Milano, largo Greppi, fino al 21 maggio

La tappa milanese è una delle ultime di una tournée iniziata il 31 gennaio a Spoleto, che riprenderà in novembre a Bolzano e Napoli.

Crisi di creatività? E il teatro si rivolge ai riti e alla sacralità della religione. Tra i misteri e le suggestioni delle Scritture

(di Andrea Bisicchia) Perché il teatro, in assenza di idee, si rivolge molto spesso ad argomenti di carattere religioso? Forse perché la banalizzazione della lingua, oggi, favorisce la ricerca di un linguaggio, magari indecifrabile, come quello delle Sacre Scritture, che lascia però parecchio spazio alle argomentazioni, alle interpretazioni e, pertanto, alle rappresentazioni? Nel secolo scorso, sono stati parecchi i registi e gli autori che hanno scelto la simbologia del sacro, anche se, spesso, in disaccordo con i dogmi della chiesa o con le dottrine filosofiche della fede, si va da Copeau ad Artaud, da Julian Beck a Grotowski, a Barba, da Brook a Kantor, da Eliot a Fabbri, a Testori.
In questi ultimi mesi, sono stati, in tanti, a proporre o riproporre testi che abbiano a che fare col sacro, vedi “La sacra novella” di Fabrizio De André, riproposta con successo da Neri Marcoré al Teatro Carcano che ne è anche coproduttore, e ancora “Adam’s Passion” di Arvo Part e Robert Wilson che ha realizzato  in chiave performativa la storia del primo uomo sulla terra, Adamo appunto, che si scopre essere la causa di tutti i mali che hanno invaso la terra, forse gli stessi che furono sprigionati dal vaso di Pandora, a dimostrazione che mito e religiosità finiscano, a volte, per incontrarsi.
Arvo Part aveva già mostrato le sue predilezioni per l’innografia liturgica col “Miserere”, col successivo “Adam’s Passion” è passato dal compianto al lamento, quello di Adamo, cacciato dall’Eden e abbandonato in una “terra desolata” che fa pensare ad Eliot, autore del ben noto “Assassinio nella cattedrale”, una rappresentazione sacra che mostrò, a suo tempo, le potenzialità del teatro quando si accosta ad argomenti di carattere religioso. Il protagonista di “Adam’s Passion” è ben diverso dall’Arcivescovo di Canterbury, non va in cerca del martirio, bensì tenta di riflettere e di capire perché l’uomo debba essere artefice di tutti quegli orrori che hanno attraversato le epoche del passato e del presente, durante le quali si sono combattute guerre di sterminio.
L’occasione di questa messinscena dimostra come il sacro ben si adatti a quella multidisciplinarietà che contraddistingue il lavoro di un regista come Bob Wilson. Altro spettacolo recentissimo, visto all’Arena del Sole di Bologna, è quello di Angelica Liddell che ha proposto “Caridad”, dopo un precedente lavoro dedicato alla Prima Lettera di San Paiolo. La regista spagnola, ritenuta ormai tra le più innovatrici della scena internazionale ha diretto un vero e proprio inno alla Carità, una categoria che implica, non soltanto i germi della felicità, ma anche quelli di una disposizione della natura umana ad atti non malvagi, atti che richiedono all’uomo di perdonare o di trasgredire tenendo, come modello, la trasgressione di Cristo, ritenuto il primo sovversivo dell’umanità, come lo considerava De André nella “Buona novella”. Angelica Liddell ha portato sul palcoscenico sette attori o persone che hanno subito una operazione di laringectomia, espediente utilizzato da Romeo Castellucci nell’”Orestea”, a dimostrazione di come in tempi recenti i “sovversivi” della scena spesso si incontrino nell’uso di forme estreme, applicate alla vocalità, oltre che in alcune ricerche di carattere tematico.
Come dimenticare, sempre di Castellucci, “Sul concetto del volto di Dio”, uno spettacolo che, nel 2012, fece infuriare molti cattolici conservatori, che minacciarono, non solo il regista, ma anche Andrée Ruth Shammah per averlo ospitato nel suo teatro.
Gli esempi potrebbero continuare, pensando al “Cantico dei cantici” messo in scena da Roberto Latini, oppure a “Rosvita”, più volte, riproposto da Martinelli – Montanari.
L’ultimo esempio è quello di “LAZARUS” di David Bowie e Enda Walsh, con la regia di Walter Malosti che si potrà vedere, allo Strehler, dal 23 al 28 Maggio, dove il rimando al personaggio biblico ripropone il tema della resurrezione e dell’immortalità.
L’esigenza del sacro nasce, inoltre, dal bisogno di riteatralizzare il teatro, recuperando forme rituali che non possono, oggi, promettere alcuna catarsi, come avveniva nella tragedia greca, perché, semplicemente, tendono al recupero di “generi” e di “spazi” che, una volta, appartenevano alla storiografia medievale e che, ai giorni nostri, appartengono all’antropologia, che tende a riproporne nuove letture e nuovi apparati, indispensabili per capire il teatro di ieri e quello di oggi.

Grande successo di Chénier alla Scala. Ma direzione, voci, regia e scene molto contestabili. In confronto al passato

MILANO, giovedì 4 maggio ► (di Carla Maria Casanova) Ripresa di Andrea Chénier di Umberto Giordano ieri sera alla Scala. Andrea Chénier non è un’operaccia verista come alcuni vorrebbero, anche se non è di quelle partiture affascinanti dove non c’è una nota di troppo né una di troppo poco e, quelle che ci sono, sono tutte meravigliose. Però Chénier è una opera che può far sognare, trasportare, suscitare entusiasmi frenetici, magari anche piangere. Ed è entrata nel repertorio popolare con arie celeberrime quali La mamma morta (soprano) Come un bel dì di maggio (tenore), Nemico della patria (baritono).
Ma è una questione di interpreti, come quasi sempre succede nel melodramma. Ieri sera si è registrato grande successo di pubblico. Certamente esagerato, per non dire altro. Ai “miei tempi” ci sarebbero stati fischi. E all’uscita dal teatro molti dicevano “Ma che brutta opera”. Oramai tutti sanno che sono vecchissima, ma ben venga. Vi assicuro che lo Chénier del 1955 (Del Monaco – Callas, dir Votto) fu un’opera meravigliosa, così nel 1959 (Del Monaco / Corelli – Tebaldi – Bastianini, dir Gavazzeni) e nell’82 e poi ’85 (Carreras / Martinucci – Anna Tomowa Sintow / Eva Marton, direttore Chailly). Con un salto di più di trent’anni, Chénier tornò alla Scala nel 2017 protagonista Yusif Eyvazov, e con Anna Netrebko e Luca Salsi. Lo sconosciuto giovane tenore russo era stato imposto dalla di lui neo consorte, la diva Netrebko e molti gridarono allo scandalo. Magari avevano ragione. Però, a conti fatti, nonostante l’incontestabile splendore della voce della Netrebko, il tenore con voce non bella ce la mise talmente tutta nella accurata linea di canto e nella partecipazione personale che riuscì a convincere più di lei, che sulla partecipazione non eccelle.
Sono passati altri 6 anni, non un’eternità ma per un cantante a volte contano molto. Yusif Eyvazov ha un timbro vocale decisamente infelice, con tre colori diversi di cui nessuno bello. Però, accidenti, canta sicuro e canta molto bene. Dizione perfetta. Slancio così appassionato che finisci per credergli. Con lui Sonya Yoncheva (Maddalena di Coigny). Già non mi aveva convinta nella recente Fedora scaligera e continua a non convincermi. Sarà questione di gusto (mio). Inoltre, la dizione è molto approssimativa e scarso il coinvolgimento. Gérard doveva essere Ambrogio Maestri. Indisposto, è stato sostituito all’ultimo momento da Luca Salsi, baritono che oggi va per la maggiore, non molto raffinato ma a suo perfetto agio in questo personaggio e direi senza esitare che è stato il migliore. Ammirato stupore suscita nel cast il nome di Elena Zilio (Madelon) che ancora si difende nonostante l’anagrafe davvero sorprendente (classe 1941).
Si passi al direttore: Marco Armiliato. Nulla da spartire con Votto, Gavazzeni o Chailly per non parlare di De Sabata che aveva diretto Chénier nel 1951 (del Monaco-Caniglia). Marco Armiliato aveva ieri sera una gran fretta o, forse, paura di non farsi sentire, per portare la sonorità dell’orchestra della Scala al massimo, tutta uguale, senza sfumature, con il risultato di alzare il volume anche ai cantanti (in gergo volgare si dice “urlare”). Urla che a certo pubblico comunque piacciono, quando si confonde urlo con acuto e più è forte meglio è. Quindi applausi ai limiti della ovazione. Eyvazov sembrava lui stesso stupito (a ragione) da tanto entusiasmo e ringraziava così commosso da fare tenerezza.
Lo spettacolo scenico, firmato da Mario Martone, non rispecchia le qualità per le quale il regista è molto apprezzato (la sfilata dei rivoluzionari che inalberano le teste dei decapitati, simili a maschere di Carnevale, è per lo meno di cattivo gusto).
Finiamola lì. Tutto è bene quel che finisce bene. Ma vi assicuro che Andrea Chénier, diretta e cantata come si deve, non è per nulla una brutta opera.

Repliche: maggio: sabato 6, giovedì 11, martedì 16, mercoledì 24, sabato 27 ore 20. Domenica 21 ore 14,30.