San Francesco, classico e moderno. Tra un oggi d’inquinata violenza e una speranza d’amore. Di Cristo e del Poverello

BAGNACAVALLO (RA), martedì 7 novembre ► (di Andrea Bisicchia) – Nell’ultimo decennio del 2023, il teatro italiano, soprattutto col contributo di attori solisti, ha sentito la necessità di confrontarsi con i miti e con personaggi del passato, che appartengono sia al mondo della tragedia classica che a quello della tragedia cristiana.
Accademia Perduta/Romagna Teatri ha prodotto “L’Oreste “, che si rifà all’“Orestea”, facendo propria un storia, molto simile, che si svolge in un casolare della Bassa Romagna, con un eccezionale Claudio Casadio, vincitore del Premio Franco Enriquez, ha dato, inoltre, residenza a “P, come Penelope” di e con Paola Fresa, una riscrittura moderna del personaggio omerico, e ha coprodotto, col CTB di Brescia, “Franciscus il folle che parlava agli uccelli”, di e con Simone Cristicchi, che ha debuttato, in anteprima, al Goldoni di Bagnacavallo, esauritissimo, con un pubblico osannante, e che dal 7 al 13 novembre, sarà programmato al Teatro Sociale di Brescia.
Si tratta di un duplice percorso, tra classico e moderno, ideato da Accademia Perduta, per ricercare nel passato il significato della nostra modernità inquinata da una violenza inaudita che si consuma all’interno delle famiglie o all’interno di Nazioni, che non hanno voluto ereditare il concetto di Pace dalla parola di Cristo e, in seconda battuta, da quella di Francesco che, per essa, si è battuto contro la violenza della Storia, generata dai potenti di turno, sordi a ogni richiamo di pace.
I riferimenti alla situazione attuale sono evidenti. L’apporto di Cristicchi, che ha scritto il testo con Simona Orlando, con le musiche di Tony Canto, ispirate a sonorità orientali di origine armeno-persiana, scelta ispirata dalla spiritualità sufi, con la composizione di otto canzoni, scritte insieme alla cantautrice Amara, non vuol essere di tipo politico, avendo come fine un viaggio nella spiritualità del Santo di Assisi.
Lo scorso anno, avevamo visto a San Miniato il suo spettacolo sul “Paradiso” di Dante, oggi lo vediamo impegnato in un Musical sui generis, grazie alla orchestrazione musicale che, a dire il vero, ho trovato più accattivante di quella più intellettuale dello spettacolo sul “Paradiso”. Forse, in questo suo secondo viaggio, Cristicchi è andato in cerca della spiritualità perduta, in un momento in cui la Chiesa, pur con un Papa di nome Franceso, fa fatica a coinvolgere i fedeli, sempre più scettici sia nei confronti del potere politico che di quello religioso, entrambi attraversati da scandali non facilmente perdonabili.
Lo spettacolo è molto godibile, Cristicchi si muove su una bella scena di Giacomo Andrico, con un colonnato a cui si accede attraverso una scalinata, che allude alle facciate di più chiese e che si apre a una montagna innevata, nel momento in cui Francesco dialoga con gli uccelli. Alla parte sinistra c’è un pulpito che si avanza in particolari occasioni, mentre nella parte destra, è stata montata una tenda, molto povera, dove il Santo trascorre le sue notti in preghiera. Cristicchi ha pensato bene di sdoppiarsi, inventando il personaggio di Cencio, uno straccivendolo di Assisi, contemporaneo di Francesco, per il quale ha utilizzato un linguaggio umbro-duecentesco, che contrappone al suo romanesco, quando assume la parte del narratore. Cencio, rivestito da poveraccio, dalla costumista Rossella Zucchi, mostra i panni di un giullare che sbeffeggia Francesco quando parla di povertà, facendo capire che si tratti del capriccio di un povero matto.
Per la figura del cenciaiolo, Cristicchi si è parecchio documentato, trattandosi di un antico mestiere che utilizzava gli stracci di lino e di canapa per farne della carta, così come si è documentato sulla vita di Francesco, a cominciare dai suoi primi biografi, Tommaso da Celano e Bonaventura di Bagnoregio, per finire a Pietro Maranesi, autore dell’ultima biografia, pubblicata nel 2021.
Il materiale accumulato è stato reinventato, drammatizzato e trasformato in un copione originale che è diventato la guida di uno spettacolo che ha affascinato il pubblico del Goldoni che non finiva di applaudire.

“FRANCISCUS IL FOLLE CHE PARLAVA AGLI UCCELLI” di e con SIMONE CRISTICCHI, in “Anteprima” al Goldoni di Bagnavallo, in “Prima”, dal 7 al 13 novembre, al Teatro Sociale di Brescia 

TOURNÉE 2023/24

  • Sabato 4 e domenica 5 novembre 2023 – Teatro Goldoni, Bagnacavallo (RA)
  • Da martedì 7 a lunedì 13 novembre 2023 – Teatro Sociale, Brescia
  • Mercoledì 15 novembre 2023 – Teatro Comunale, Lonigo (VI)
  • Giovedì 16 novembre 2023 – Teatro Mattarello, Arzignano (VI)
  • Venerdì 17 novembre 2023 – Teatro Astra, San Giovanni Lupatoto (VR)
  • Sabato 18 novembre 2023 – Teatro Comunale, Belluno
  • Domenica 19 novembre 2023 – Auditorium, Lavis (TN)
  • Giovedì 7 dicembre 2023 – Teatro Excelsior, Cesano Maderno (MB)
  • Da venerdì 8 a domenica 10 dicembre 2023 – Teatro Comunale, Ferrara
  • Martedì 12 dicembre 2023 – Teatro Zandonai, Rovereto
  • Mercoledì 13 dicembre 2023 – Teatro Cristallo, Bolzano
  • Giovedì 14 dicembre 2023 – Teatro Cristallo, Oderzo (TV)
  • Venerdì 15 dicembre 2023 – Teatro Sociale, Cittadella (PD)
  • Sabato 16 dicembre 2023- Teatro Comunale Ballarin, Lendinara (RO)
  • Martedì 19 dicembre 2023 – Teatro Brancaccio, Roma
  • Mercoledì 3 gennaio 2024 – Teatro City, Lignano Sabbiadoro (UD)
  • Giovedì 4 gennaio 2024 – Teatro Comunale, Pergine (TN)
  • Venerdì 5 gennaio 2024 – Auditorium Guidetti, Tione (TN)
  • Sabato 6 gennaio 2024 – Teatro Comunale, Vezzano (TN)
  • Domenica 7 gennaio 2024 – Politeama Rossetti, Trieste
  • Da martedì 9 a giovedì 11 gennaio 2024 – Teatro Masini, Faenza (RA)
  • Venerdì 12 gennaio 2024 – Teatro Titano, San Marino
  • Mercoledì 20 marzo 2024 – Auditorium Benedetto XIII, Camerino (MC)
  • Giovedì 21 marzo 2024 – Teatro La Perla, Montegranaro (FM)
  • Venerdì 22 marzo 2024 – Teatro Comunale Traetta, Bitonto (BA)
  • Sabato 23 marzo 2024 – Teatro Nuovo Cinema Paradiso, Melendugno (LE)
  •  Domenica 24 marzo 2024 – Teatro Comunale, Lacedonia (AV).

Maurizio Porro. Cinquant’anni di cinema e teatro. Cogliendo le genuine emozioni create dai grandi maestri della scena

(di Andrea Bisicchia) Applicando una metodologia comparativa, la stessa che utilizzava durante gli anni di insegnamento alla Statale di Milano, Maurizio Porro ci delizia raccontandoci cinquant’anni di cinema e di teatro di cui, oltre che critico, è stato testimone, assistendo a film e spettacoli che ormai fanno parte della storia di due discipline diverse, ma contigue.
L’ultima sua pubblicazione, “Io li conoscevo bene”, edito dalla Nave di Teseo, la si può leggere come un libro di storiografia, senza note a piè di pagina, o come un romanzo che ha per protagonista un militante passionario, che va incontro a un mondo di emozioni diversificate, che in fondo sono le emozioni della nostra vita, le stesse che scorrono sulle “pagine” di un film o di uno spettacolo teatrale.
Parafrasando Wittgenstein, per il quale il mondo è tutto ciò che accade, possiamo dire che il mondo è tutto ciò che ci emoziona. Maurizio Porro rivendica il potere dell’emozione, anzi è convinto che un film o uno spettacolo possano non solo emozionarci, ma anche commuoverci. Egli ha amato molti film e molti spettacoli teatrali allo stesso modo con cui si possa amare una persona. A lui è accaduto, come a molti di noi, di piangere, dopo aver visto la prima versione milanese dei “Giganti della montagna”, e “Il giardino dei ciliegi”, con le regie di Strehler, o dopo aver visto “8%” di Fellini, registi ben “conosciuti” da Maurizio, perché col primo ci ha lavorato, mentre il secondo è stato ospite a pranzo, oltre che nella sua 500, dove Federico faticava ad entrare.
E che dire di Visconti, di Antonioni, di Bertolucci, veri grandi costruttori di emozioni, convinti che le emozioni contengano una intelligenza particolare che orienta la nostra visione degli spettacoli, proprio come la vita, perché ci coinvolgono, ci esortano a giudicare, dato che germogliano, dentro di noi, dapprima in forme irrazionali che durante la notte vanno controllate, per poterne, dopo, scrivere più lucidamente, quando si è chiamati ad esprimere un giudizio, specie se si è il critico del Corriere della Sera.
A dire il vero, Porro quelle emozioni le aveva provate durante l’adolescenza, quando, magari con la complicità paterna, assisteva a film vietati ai 18 anni, mentre lui ne aveva 16.
Per Maurizio, il cinema e il teatro dei grandi maestri, gli stessi che oggi si vogliono dimenticare perché è impossibile arrivare alla loro altezza, hanno dato vita a dei capolavori che hanno permesso la creazione di una nuova religiosità, tutta laica, anche quando con Testori si rivestiva di un cristianesimo fremente e conflittuale, come nel caso di “Rocco e i suoi fratelli”, nel momento in cui Nadia, come un Cristo crocifisso, offre il suo corpo alle pugnalate di Simone. Facendo riferimento a questo film, Maurizio inventa una sintesi concettuale molto precisa, contrapponendo la fede religiosa di Testori alla fede nel cinema di Visconti.
Grazie al suo modo di raccontare, Maurizio ci ha dato tanta materia nella quale, molti di noi possono rispecchiarsi, anche perché è riuscito ad offrirci una storia del cinema e del teatro senza gli strumenti tipici della storiografia accademica, che l’ avrebbero appesantita mentre, al contrario, il lettore non solo si emoziona, ma anche si diverte, assistendo a una vera e propria passerella, tipo quella di 8%, dove vede passare Wanda Osiris, Luchino Visconti, la “sorella” Maria Angela Melato, l’accigliato ma bello Marcello Mastroianni, la “divertente” Monica Vitti, l’intellettuale Michelangelo Antonioni, la cui “Eclisse” può essere considerata un “Trattato sui sentimenti”, “Il Gattopardo”, che non piacque soltanto al “comunista” Guido Aristarco, “Il posto delle fragole”, di Bergman, il regista con cui era “un piacere soffrire” e perché si viveva “l’esplosione del cinema dentro il sistema drammaturgico del teatro”, “2001 Odissea nello spazio” di Kubrick, visto al Cinema Alcione, che era anche un teatro di varietà meno noto dello Smeraldo. Ma come dimenticare i film di Sordi che portavano in scena i ritratti dell’italiano medio, o quelli di Bertolucci più impegnati politicamente.
Maurizio ricorda come il tragitto che dal Piccolo Teatro portava a Corso Vittorio Emanuele o via Manzoni, negli anni Sessanta-Settanta, era diventato quello della Broadway milanese, quando al cinema si andava con l’abito da sera nell’ultimo spettacolo.
Sulla sua passerella sono passati molti altri, li troverete nella seconda parte del volume, nell’“Elenco degli Ospiti”, curato attentamente dallo stesso Maurizio, che non dimentica di citare anche l’elenco dei cinema da lui frequentati.

Maurizio Porro, “IO LI CONOSCEVO BENE”, Ed. La Nave di Teseo 2023, pp. 332, € 22

“La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo. Quasi un archetipo della letteratura mitteleuropea. Inettitudine e grandezza

FAENZA, giovedì 2 novembre (di Andrea Bisicchia) Negli anni Settanta, con “La Rigenerazione”, avvenne la scoperta del Teatro di Svevo, tanto che la commedia, dopo il successo di Tino Buazzelli (1974), fu ripresa da altri mattatori, come Tino Carraro e Gianrico Tedeschi.
A dire il vero fu Squarzina, con la complicità di Tullio Kezich, a far trionfare il romanzo “La coscienza di Zeno”, protagonista Alberto Lionello, nel 1964. Si discusse, in quella occasione, di quanto fosse pertinente la trasposizione scenica di un testo narrativo, visto che qualche critico letterario sosteneva il “dogma dell’intraducibilità”.
Pur facendo storcere il naso ai cultori del romanzo, l’edizione dello Stabile di Genova mostrò come qualche volta la riduzione teatrale di un capolavoro potesse essere utile per approfondirlo ulteriormente proprio con i mezzi del teatro. Da allora “La coscienza di Zeno” è stata proposta più volte, a cominciare dal Rossetti di Trieste, con la regia di Enzo Giraldi, protagonista Renzo Montagnani (1974), per continuare con la regia di Sciaccaluga, protagonista Giulio Bosetti (1994), ed ancora, con la regia di Scaparro, protagonista Giuseppe Pambieri (2013). Sembra che al romanzo fosse stato interessato Giorgio Strehler, che aveva lavorato a una sceneggiatura per trarne un film.
Lo Stabile del Friuli Venezia Giulia lo ha riproposto in un nuovo adattamento, curato da Monica Codena e Paolo Valerio, che ne è anche regista, e che ben si adatta a un bravissimo Alessandro Haber (foto sopra), che abbiamo visto al Teatro Masini di Faenza, esauritissimo.
Come non riflettere, allora, su una serie di luoghi e di personaggi che hanno fatto grande la letteratura mitteleuropea, tutti simili, diversamente inetti, perché hanno deciso di non partecipare attivamente alla vita sociale di un’Europa guerrafondaia, dove contava solamente l’economia bellica.
Zeno Cosini, in fondo, non era diverso da Mattia Pascal né da Ulrich, l’uomo senza qualità di Musil, né da Leopold Bloom dell’”Ulisse” di Joyce, personaggi archetipi, nei quali è difficile non riconoscersi, che si muovono tra città come Trieste, Miragno-Roma, Vienna, Dublino, anch’esse città archetipiche.
Sono gli anni in cui questi autori avevano distrutto l’ordine della narrazione, non più lineare, avendola concepita come un flusso di coscienza, dentro il quale passato e presente si sovrappongono.
Paolo Valerio, ben consapevole di tutto questo, ha costruito uno spettacolo pensando al suo protagonista, inventandosi un alter ego più giovane, interpretato da Alberto Onofrietti che agisce sulla scena, mentre Alessandro Haber diventa protagonista dell’Io narrante, seduto su una poltrona che, in fondo, sostituisce il divano dello psicanalista, dove, anziché scrivere la sua autobiografia su consiglio del Dottor S. preferisce raccontarla, un racconto che Paolo Valerio trasforma in rievocazione, grazie a un uso intelligente della scenografia, con proiezioni, alla Svoboda, di Marta Crisolini Malatesta che cura anche i costumi, dove abbonda il grigio, da intendere come grigiore della vita, arricchita dalle luci di Gigi Saccomandi che, con l’alternarsi dei colori, rimanda all’alternarsi delle scene evocate da Zeno, ma anche dei sentimenti contrastanti, conseguenza di amori sbagliati e di continue infedeltà, all’interno di famiglie che stanno vivendo il trapasso da un tardo romanticismo a quello della crisi identitaria.
Paolo Valerio non rinunzia a certi accostamenti pittorici, come il grande occhio, proiettato sul sipario e, successivamente, su un grande specchio rotondo, che fa pensare a un oblò, che rimanda non solo all’introspezione psicoanalitica, ma anche a Magritte, di cui ricorda il fondoschiena di un quadro famoso, qui mostrato da Carla, ovvero dall’attrice Valentina Violo.
La recitazione evita ogni forma di immedesimazione ad eccezione della scena finale di Ada, della bravissima Chiara Pellegrin, moglie di Guido, interpretato da Emanuele Fortunati, suicida, dopo il disastro economico della ditta, da lui causato. Tutti gli attori, da Francesco Migliaccio, il famoso padre dello schiaffo, a Ester Galazzi, a Meredith Airò Farulla, interprete di Augusta, moglie di Zeno, Riccardo Maranzana, Caterina Benevoli, Gianni Schiavo, concorrono al successo della serata, con un pubblico che non smette di applaudire.

“LA COSCIENZA DI ZENO”, dal romanzo di Italo Svevo. A cura di Monica Codena e Paolo Valerio. Regia di Paolo Valerio. Con Alessandro Haber. Al Teatro Masini di Faenza.

REPLICHE E TOURNÉE
31 ottobre – 2 novembre: FAENZA (RA), Teatro Masini
3 – 5 novembre: BOLOGNA, Teatro Duse
6 novembre: SANREMO (IM), Teatro del Casinò
8 novembre: ROVERETO (TN), Teatro Zandonai
9 – 12 novembre: BOLZANO, Teatro Comunale (Sala Grande)
14 – 19 novembre: FIRENZE, Teatro della Pergola
21 – 26 novembre: VERONA Teatro Nuovo
27 novembre: SACILE (PN), Teatro Zancanaro
28 novembre: GORIZIA, Teatro Comunale Giuseppe Verdi
30 novembre – 3 dicembre: ANCONA, Teatro delle Muse
4 dicembre: MONTEGIORGIO (FM), Teatro Comunale Domenico Alaleona
6 – 7 dicembre: FOGGIA, Teatro Umberto Giordano
8 – 10 dicembre: BARLETTA (BT), Teatro Curci
12 – 14 dicembre: SAVONA, Teatro Comunale Chiabrera
15 – 17 dicembre: FERRARA, Teatro Comunale

Goya. Dai ritratti di corte agli orrori e agli incubi della guerra. Perché “il sonno della ragione genera mostri”

MILANO, martedì 31 ottobre (di Patrizia Pedrazzini) Che cos’hanno in comune san Francesco Borgia che, sullo scalone di un nobile palazzo, si congeda dai familiari riccamente vestiti, e lo stanzone claustrofobico di un manicomio abitato da malati di mente in atteggiamenti grotteschi e caricaturali? O la bellissima, dolce e aristocratica Maria Gabriela, marchesa di Lazán, e l’apocalittico Colosso barbuto e devastato dalla furia che, a pugni chiusi, sovrasta un intero popolo intento a fuggire da un pericolo incombente e mortale?
Niente.
A parte la mano dell’artista: il grande spagnolo Francisco José de Goya y Lucientes, nato in Aragona nel 1746 e morto in Francia nel 1828.
Quattro dipinti, quelli citati, separati – due prima, due dopo – da un evento, che lasciò un segno profondo nel Paese e in un certo senso “deviò” il percorso umano e artistico del pittore (e incisore): la guerra d’indipendenza spagnola, che fra il 1808 e il 1814 contrappose gli iberici alle truppe napoleoniche. Un conflitto particolarmente sanguinoso, caratterizzato da esecuzioni di massa e dal ricorso per la prima volta alla tecnica della guerriglia (termine che venne coniato proprio in occasione di questo conflitto).
E in effetti è come se ci fossero due Goya, nella mostra “Goya. La ribellione della ragione”, allestita a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, fino al prossimo 3 marzo. Una settantina di opere a testimoniare l’evoluzione, intima e professionale, del maestro. Che nasce come artista colto e accademico, legato ai temi tradizionalmente cari alla monarchia (quindi ritratti del re e dei nobili, e opere di argomento religioso, care alla committenza, che quanto meno “pagava”), per sviluppare poi uno sguardo “pietoso” verso soggetti più intimi e temi più sociali, fino alla satira e alla rappresentazione delle crudeltà della guerra. Non quella dei generali vittoriosi, quella del popolo che della barbarie è la sola vittima.
Come se la ragione avesse deciso di ribellarsi e di fare sentire la propria voce. Dando vita, in Goya, a un’arte sostenuta da un forte pensiero critico, ma insieme anche profondamente emotiva. Illuminismo e Romanticismo. Ragione e sentimento.
Dal dipinto che apre l’esposizione, “Autoritratto al cavalletto”, del 1785, ai ritratti convenzionali, alla sezione dedicata al popolo che si diverte (suddivisa nei tre momenti del gioco, della festa e dello spettacolo). E qui citeremo almeno “Il trascinamento del toro”, dove all’interno della popolare e cruenta corrida l’artista trova modo di inserire una sorta di “pietas” nei confronti delle vittime sacrificali: il toro e lo sfortunato cavallo.
E poi avanti con la produzione artistica, alla luce (sempre più fioca e incline al buio) di un atteggiamento sempre più critico e ribelle. I poveri, gli emarginati, i “matti”, le vittime della follia e del fanatismo religioso (“Processione di flagellanti”, “Scena di Inquisizione”). Fino alle due serie dei “Caprichos” (con il celeberrimo “Il sonno della ragione genera mostri”) e dei “Desastres de la guerra”: la violenza, le stragi, l’orrore.
Incisioni alle quali Goya affida il proprio pensiero più autentico e libero. E che l’esposizione milanese permette di ammirare, affiancate ognuna dall’originale matrice di rame. Matrici a loro volta appena restaurate (nel giugno di quest’anno) dalla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, a Madrid, nell’ambito di un progetto di recupero senza precedenti. Per la prima volta in mostra.

“Goya. La ribellione della ragione”, Milano, Palazzo Reale, fino al 3 marzo 2024

www.mostragoya.it