Tommaso Le Pera maestro e storico dell’immagine scenica. Le sue foto, documenti per penetrare il fascino del teatro

(di Andrea Bisicchia) – Sulle pagine di questo giornale ci siamo occupati più volte di Tommaso Le Pera, in particolare in occasione della pubblicazione delle sue MONOGRAFIE PER IMMAGINI di spettacoli tratti dai testi di Shakespeare, Goldoni, Pirandello o di attori come Mariangela Melato, Gabriele Lavia, Gigi Proietti, Geppy Gleijeses, Tato Russo e di registi come Antonio Calenda. Si tratta di volumi che contengono delle vere e proprie gallerie, con immagini fotografate di spettacoli rimasti nella nostra memoria e che, per l’alta qualità, sono da considerare dei veri e propri documenti. Il ritratto che è venuto fuori, da tali pubblicazioni, era quello di un Maestro della “Fotografia teatrale”, oltre che della sua memoria visiva.
L’Editore Etabeta ha appena pubblicato il volume “Incontro Tommaso Le Pera”, di Romolo Perrotta, scritto in forma di dialogo, dal quale si ricava l’immagine non solo dell’artista, ma anche quella dell’uomo, di cui l’autore ripercorre la storia, partendo dalle radici, ovvero dal piccolo paese calabrese in cui Tommaso è nato, Sersale, in provincia di Catanzaro, dove, da fanciullo, iniziò la sua carriera, prima a contatto col padre Giuseppe, operatore di proiezioni cinematografiche e poi con lo zio Luigi, fotografo, che Tommaso considerava un artista, con cui collaborò anche dopo il trasferimento a Roma, con la famiglia, dato che lo zio gli inviava delle foto da ritoccare, a pagamento.
Tommaso aveva capito che le foto non servivano solo per documentare, ma anche per creare esteticamente, creazione che richiede pazienza e perseverazione e, soprattutto, un lavoro laboratoriale. Questa sua idea la porterà avanti quando inizierà la sua attività professionale che ebbe il suo primo committente in Peppino De Filippo. Erano gli anni Settanta, gli anni delle “cantine romane”, che Tommaso seguiva con puntualità ed interesse, ma fu un attore di tradizione come Peppino a capire che si trattava di un fotografo ben diverso dai paparazzi.
Da quel momento Tommaso Le Pera ha fotografato circa 4500 spettacoli, non solo con tutti i Teatri Stabili, tranne Il Piccolo Teatro che utilizzava Mario Cimnaghi, fotografo pagato mensilmente, proprio come i tecnici, ma anche con tutte le Compagnie Private. A lui, pertanto dobbiamo una forma di storiografia del tutto particolare, benché priva di teorizzazioni, essendo il risultato dell’uso sapiente della macchina fotografica, col passaggio dall’analogico al digitale, ovvero dalla “camera oscura” al computer.
Anni di lavoro senza sosta, sempre in treno e in macchina a inseguire debutti, a stare fianco a fianco di attori e registi che, alla fine, sono stati loro a chiamarlo Maestro. A questo proposito, Romolo Perrotta lo incalza con delle domande riguardanti il suo essere artista o artigiano, a cui Tommaso risponde: “Sono un semplice storico”, come dire che esiste una scienza dello spettacolo, con sede nelle Università, ma che ne esiste un’altra, quella dell’immagine, che si consuma nei laboratori fotografici che ha il compito di documentare gli spettacoli, storicizzandoli. A loro volta, servono agli studiosi per mettere a confronto i loro risultati teorici con i documenti offerti dal fotografo, documenti che Tommaso Le Pera “costruisce” sapientemente. Basta vedere le sue foto per avere un’idea anche registica degli spettacoli da lui fotografati, essendo dei veri documenti, conseguenza di una continua specialistica frequentazione dei teatri e, pertanto, di una vera e propria pratica di palcoscenico.
In 55 anni, Tommaso Le Pera è riuscito a costruire un archivio unico al mondo di fotografia teatrale, il cui valore non è solo artistico, ma anche didattico, per chi voglia intraprendere questa carriera che, sostiene Tommaso, va integrata con gli studi e con la conoscenza delle Opere d’arte, le cui raffigurazioni, possono insegnare a inquadrare i temi che si intendono “fermare” con lo scatto fotografico anche perché, a suo avviso, la fotografia si può configurare come un derivato della pittura che, se ben frequentata, diventa utile a esercitare la sensibilità artistica.

Romolo Perrotta: “INCONTRO TOMMASO LE PERA. LA MEMORIA VISIVA DEL TEATRO” – Editore Etabeta 2023 – pp. 90, € 12.

A Palazzo Medici Riccardi: la “cavalcata fantastica” del Futurista Depero. Pitture, bozzetti, arazzi e marionette

Fortunato Depero, “Marionette per i balli plastici”, 1918 – olio su cartone, cm 30×30 – Collezione privata

FIRENZE, domenica 15 ottobre(di Carla Maria Casanova) Fortunato Depero (1892-1960), indiscusso rappresentante del Secondo Futurismo, arriva a Firenze per la prima volta nella imponente formazione della mostra Depero, cavalcata fantastica, curata da Sergio Risaliti ed Eva Francioli (catalogo Officina libraria) e allestita fino al 28 gennaio 2024 in Palazzo Medici Riccardi. (Una chicca: è qui che a pochi metri, sempre nel Palazzo, si apre la celebre Cappella del Corteo dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli. Sarebbe un vero peccato perderla).
A suggerire la mostra è stata la presenza nelle raccolte dei Musei Civici Fiorentini di Nitrito in velocità (1932), dono al Comune di Firenze dell’ingegnere navale Alberto Della Ragione all’indomani della devastante alluvione del 1966. Il dono comprendeva anche altre 240 opere dell’avanguardia novecentesca. Di Depero, in mostra sono 47, di cui molte provenienti dal Mart di Trento e Rovereto.
Pittore, scultore, illustratore e molto altro, Depero fu, con Balla, uno dei firmatari del Manifesto dell’aeropittura. Gli si riconosce di essere stato l’unico a tentare davvero l’utopica impresa della “Ricostruzione futurista dell’universo”.
Nato nella trentina Val di Non – “altopiano di prati e selve oscure di larici e abeti”-, Fortunato bambino viene spedito in un collegio tedesco a Merano, dove mangia male e studia poco. “Disegnavo, modellavo, dipingevo, scolpivo con passione precoce e tumultuosa frenesia di autodidatta” lascerà scritto nelle sue memorie. Il dado è tratto. Lo scoppio della guerra non lo arresta. Esplora ogni forma d’arte, coinvolge tutti gli ambiti dell’esistenza, dalla musica alle ricette di cucina, dalla moda al teatro, dal design alla pubblicità. È opera sua la bottiglietta triangolare del Campari! Inventa materiali che definisce “complessi plastici motorumoristi”. Si serve di pupazzetti, manichini, marionette. Agli studi per questo settore (dove sono esposti i bozzetti scenografici dei Ballets russes di Diaghilev per i quali disegna scene e costumi de Le chant du rossignol) è dedicata la prima parte della mostra fiorentina.
La seconda è idealmente incentrata sulla lavorazione degli Arazzi (in mostra numerose “tarsie di panno”) di cui il pezzo forte è la maestosa Cavalcata fantastica, sinfonia di gialli e aranci sullo sfondo di castelli da fiaba. Sono arazzi pure il severo Re di Denari e il Mandarino, costruito su una trama di lana e panno applicata su un canovaccio di cotone. Nella seconda metà degli Anni Trenta, a causa dell’austerità della politica autarchica, Depero contribuisce al rilancio del buxus, materiale economico a base di cellulosa atto a sostituire il legno delle impiallacciature.
L’ultima sezione è dedicata a un approfondimento sui temi della meccanizzazione del movimento e sul mito del progresso. “Padroneggiamo gli elementi” annunciava l’artista affrontando il mito della velocità e della civiltà meccanica.
Tra le sue opere più note gli olii I miei Balli plastici e il Paese di tarantelle, coloratissime, ironiche scene che pullulano di personaggi.
Nel 1943, per ottenere commissioni, Depero si allinea con il Regime e produce il mosaico “A passo romano”: gli costerà una drastica emarginazione negli anni a venire. Invitato due volte a New York, le sue visioni futuristiche entusiasmano gli USA. Di ritorno nella sua Rovereto senza eccessive illusioni, apre con la moglie Rosetta un Atelier che chiamerà la Casa del Mago. E davvero un Mago è, Fortunato Depero, artista tutt’altro che “infantile”, men che meno banale, anzi geniale, ironico, allegro, come è manifesto in tutta la mostra fiorentina.

Vita da bar fin dal ’60. Chiacchiere e pettegolezzi. Tra un mondo che non c’è più e un presente che non si capisce

MILANO, giovedì 12 ottobre ► (di Emanuela Dini) “Boomers, un gioco per vecchi”, lo dichiara subito, senza mezzi termini, Marco Paolini, nel lavoro in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano, fino al 22 ottobre.
Una cavalcata dagli anni ’60 a oggi, un ritorno nostalgico ai bar di provincia, il bar della Jole, dove c’è la solita clientela affezionata di ferrovieri, camionisti, contadini, postini – tutti e solo rigorosamente maschi – i giornali di carta sui tavoli così non si devono comperare, le discussioni infinite su tutto, i pettegolezzi che non si chiamavano ancora gossip, il “professore” che sapeva tutto e rispondeva alle domande di tutti perché non c’era ancora Internet.
Un bel viaggio a ritroso, uno spettacolo “rigorosamente vietato ai minori di 48 anni non accompagnati”, come si raccomanda Paolini (e quanto ha ragione!) condito da musiche che fanno parte della memoria ancestrale dei Boomers, dalla sigla della fine delle trasmissioni Rai riproposta in un assolo di tromba struggente, a Bang bang di Sonny e Cher e via riproponendo.
Una rievocazione intergenerazionale, che gioca su un difficoltoso dialogo tra Boomers e millennians che “non comunicano, si sono rotti i codici”, dove un padre che aveva avuto i capelli lunghi e l’eskimo negli anni ’70 non ha ancora capito bene che lavoro fa il figlio “sempre seduto in camera alle scrivania” e non sa bene cosa sono i fondali e il metaverso in cui il ragazzo lo invita a entrare.
Un arrancare dolente in un mondo dove cambiano le parole “Take away? Ma sì, ciapà su”, i rapporti, le situazioni.
Una comunicazione difficile e confusa, dove si intrecciano simulazioni virtuali e memorie degli anni 60, 70, 80 una realtà senza più confini tra il vero e il virtuale, un mondo ubriaco che non ha più punti di riferimento e avrebbe una gran voglia di ritrovarli, ma non si può. “Morire democristiani non era poi così male, visto quello che è successo dopo”.
Storia, musica, cronaca, guerre – con un brano iniziale su Hamas, Palestina e Israele che forse sarebbe stato meglio eliminare, visto il momento – si accavallano e si incrociano, lo sbarco sulla luna e il crollo del Ponte Morandi, in un insieme fin troppo affastellato che forse gioverebbe di qualche messa a punto e ripulitura.
Uno spettacolo che arriva sicuramente ai Boomers, che lascia capire la difficoltà di relazionarsi coi millennians e che ha qualche piccola difficoltà, come quello che dovrebbe essere il coro finale del pubblico, inviato a cantare “Figli delle Stelle” ma che, almeno la sera della prima, non è andato oltre a qualche sommesso mormorio.
Paolini sempre bravo, che risplende quando torna sul suo territorio e disegna il bar di provincia, la cantante Patrizia Laquidara che lo accompagna, i musicisti Luca Chiari, Stefano Dallaporta e Lorenzo Mafredini che ripropongono jingle e canzoni del secolo scorso.

“Boomers”, testi di Marco Paolini e Michela Signori, consulenza alla drammaturgia Marco Gnaccolini, Simone Tempia. Regia di Marco Paolini, con Marco Paolini e Patrizia Laquidara.  Piccolo Teatro Strehler fino al 22 ottobre

REPLICHE

09/11/2023 – 12/11/2023: Treviso (TV) – Comunale Mario del Monaco

14/11/2023: Palmanova (UD) – Teatro Gustavo Modena

15/11/2023: Cordenons (PN) – Auditorium Moro

23/11/2023: – 26/11/2023: Trieste (TS) – Politeama Rossetti (Sala Ass. Generali)

30/11/2023 – 03/12/2023: Venezia (VE) – Teatro Goldoni

13/12/2023 – 17/12/2023: Padova (PD) – Teatro Verdi

16/01/2024 – 21/01/2024: Bergamo (BG) – Teatro Donizetti

24/01/2024: Udine (UD) – Nuovo Giovanni da Udine

27/01/2024: Pisa (PI) – Verdi

30/01/2024: -Gorizia (GO) – Verdi

31/01/2024: Maniago (PN) – Verdi

02/02/2024: Legnano (MI) – Galleria

03/02/2024: Genova (GE) – Politeama Genovese

06/02/2024: 08/02/2024: Rimini (RN) – Teatro Amintore Galli

“Dogman”. La forza salvifica dell’amore e dell’arte. In un film sull’empatia fra uomo e cane. Con un grande Landry Jones

(di Patrizia Pedrazzini) Direttamente dal Festival di Venezia (dove peraltro nessuno lo ha degnato, quanto a premi, della minima attenzione), arriva sugli schermi “Dogman”, duro, struggente, romantico e disperato ultimo lavoro del regista francese Luc Besson (“Léon”, “Il quinto elemento”, “Giovanna d’Arco”). Per qualcuno, una “favola nera”. Ma i Fratelli Grimm sono lontani e, quanto alla chiara “umanità” dei cani che affollano la pellicola, se in alcuni momenti ha dell’incredibile, chi conosce bene la profonda empatia che lega questi animali all’uomo, non ne rimarrà stupito.
Senza anticipare troppo, il film è la storia di Douglas, “Doug”, ragazzino buono, sensibile e intelligente, nato e cresciuto nella famiglia sbagliata. Un padre violento e mezzo psicopatico, un fratello maggiore che non gli è da meno, una madre succube e terrorizzata. I soli amici che ha sono i cani – qualche decina – che il padre tiene chiusi in una grande gabbia nel cortile della casupola nella quale la famiglia vive, affamandoli per farli combattere meglio. Doug li nutre di nascosto, e quando l’uomo se ne accorge, per punirlo, lo rinchiude con gli animali. Non contento, allorché il figlio cerca di difendere una cucciolata, gli spara un colpo di fucile, facendogli saltare un dito. Solo che per disgrazia il proiettile rimbalza, conficcandosi nella spina dorsale del ragazzino, che rimarrà paralizzato per tutta la vita.
Da quel momento i cani, tutti, lo curano, lo proteggono, lo aiutano, arrivano a interpretare i pensieri di Doug, che di fatto diventa il loro capobranco, ripagandoli con la stessa generosità che gli animali riservano a lui. Sfamandoli, difendendoli, dialogando con loro a sguardi, istruendoli (e la scena nella quale Douglas, ormai adulto, legge Shakespeare ai propri “bambini”, seduti e accucciati ad ascoltarlo in religioso silenzio, è impagabile).
Non andiamo oltre. Ma diciamo almeno che “Dogman” è sì un film sul rapporto fra uomo e cane, ma anche sul potere salvifico dell’amore e dell’arte, sul valore dei reietti e degli emarginati, non di rado migliori proprio perché conoscono il dolore (i pochi minuti riservati al calore e all’affetto che Douglas trova in un club di drag queen, nel quale lui stesso si esibisce, equivalgono, da soli, a un brevissimo film nel film). E su Dio. Quel dio che quando Doug era bambino probabilmente era distratto, e con il quale l’uomo ha un conto in sospeso. E d’altra parte non sarà un caso che dog, cane, alla rovescia faccia god, dio.
Il tutto sorretto alla grande dall’eccellente colonna sonora di Éric Serra, che attinge a piene mani a brani del calibro di “La Foule” di Édith Piaf, “Lili Marleen” di Marlene Dietrich, “Sweet Dreams” degli Eurythmics, per citarne solo tre.
E poi c’è lui, il protagonista, il trentaquattrenne attore, e musicista, americano Caleb Landry Jones: dolce, riservato, quasi timido, eppure all’occorrenza risoluto, crudele e spietato. Quasi perennemente in bilico fra gentilezza e follia. Affascinante. E bravissimo.
E infine loro, i cani: a decine, di tutte le razze e dimensioni (per le riprese ne è stata utilizzata un’ottantina). Attenti, furbi, obbedienti e, ovviamente, addestratissimi. Creature che, come dice Doug, “hanno un solo difetto: si fidano degli umani”.
Senza dimenticare la profonda verità contenuta nella frase che apre il film, dello scrittore e poeta francese Alphonse de Lamartine: “Dove c’è un infelice, Dio manda un cane”.