Come reagire alla massificazione della cultura e all’assenza del rigore intellettuale nell’arte? Con il ricorso alla guerriglia

(di Andrea Bisicchia) Nel volume “Manuale di guerriglia artistica”, edito da Skira, Marco Meneguzzo, storico dell’arte contemporanea, con specializzazione in eventi internazionali che ne hanno caratterizzato il mercato, nel secondo dopoguerra, racconta i mutamenti che sono avvenuti, al tempo della globalizzazione, oltre che il suo modo di intendere il concetto artistico, spesso, sottoposto a una certa “ignoranza” che ha stravolto, persino, l’idea stessa di cosa debba intendersi per arte. Nello stesso tempo, ha scelto di rivolgersi ai giovani artisti, dando loro dei consigli, non certo con l’atteggiamento del Maestro, bensì con l’utilizzo della sua competenza, dovuta alle tante conoscenze ed esperienze.
Se, negli anni Sessanta, don Milani esortava i giovani studenti a disobbedire, non essendo più l’obbedienza una virtù, Marco Meneguzzo invita i giovani artisti a utilizzare la guerriglia nei confronti del sistema e della sua “debolezza concettuale”, ricordando loro che l’artista non deve essere mai consustanziale a tale sistema, ma di proporsi come un interlocutore privilegiato, in funzione della sua prospettiva futura, specie se globalizzata.
Il concetto di guerriglia comporta anche quello di clandestinità, da intendere come alternativa per potere esercitare la propria visione artistica, oltre che il proprio linguaggio e magari proporsi come antagonista nei confronti di ogni forma di conservatorismo. Ciò a cui tiene particolarmente Meneguzzo è che il giovane artista non si faccia fagocitare dal sistema, diventato sempre più autoreferente e che faccia in modo di astrarsene per potere mantenere i propri valori. Anzi, a suo avviso, non dovrebbe innamorarsi di nessun sistema perché, essendo giovane, è già “nuovo” e in possesso della freschezza creativa. Ci sarebbe, eventualmente da chiedersi per quanto tempo debba rimanere giovane e, per quanto tempo, debba fare ricorso alla guerriglia, ovvero al modo di essere diverso, considerando che la diversità è sinonimo di riconoscibilità, con la convinzione, però, che non esista riconoscibilità senza qualità.
Nel passaggio dalla modernità alla postmodernità, il compito dell’artista è stato quello di diventare “oracolare”, ovvero di possedere quell’insieme di atteggiamenti e di creatività che costituiscono lo stereotipo dell’artista, quello che è sempre appartenuto alle avanguardie o ad artisti come Andy Warhol, Damien Hirst, Mario Merz, Enzo Cucchi, veri e propri esempi di “oracolarità”.
Il problema è un altro, afferma Meneguzzo, e consiste nel capire se “oracolo” si è dall’inizio o si diventa, anche perché, in arte, il mutamento corrisponde a quello del gusto, le cui oscillazioni, come sosteneva Dorfles, sono sempre sottoposte a eventi imprevedibili, con l’obiettivo di abbattere ogni forma di consolidamento.
Un altro pericolo che Meneguzzo avverte è quello del “nuovo a tutti i costi”, poiché, il nuovo non sempre corrisponde al concetto di novità. Il nuovo, nell’arte, appartiene al linguaggio e alla sua capacità di opporsi al gusto imperante. Lucio Fontana, Marcel Duchamp, per esempio, sono i testimoni e i modelli della capacità di un artista di rimanere sempre vivo e di indirizzare nuove strade da percorrere. Ciò che spaventa oggi è, secondo Meneguzzo, il dominio dell’eclettismo, privo di ogni rigore intellettuale, a cui bisogna reagire col ricorso alla guerriglia, a dimostrazione che il disubbidire è diventato una virtù. I guerriglieri, a loro volta, possono essere solitari o proporsi come gruppi, sempre col compito di combattere il potere, sia all’interno che all’esterno, anche se, la vera azione eversiva, parte sempre dall’interno. Pirandello, per esempio, fece partire la sua rivoluzione dall’interno del teatro borghese, come a dire che i nuovi rivoluzionari hanno il compito di costruire culture diverse, persino con l’abilità tecnica o col ricorso a Internet.
C’è da dire che il pubblico delle Biennali, come quelle di Venezia, di Kassel o di Lione, non certo sempre specializzato, ha superato nell’ultimo anno le cinquecentomila presenze in ogni mostra, non sempre proponibili sul piano estetico, eventi che spingono maggiormente la guerriglia a reagire contro la massificazione della cultura.

Marco Meneguzzo, “MANUALE DI GUERRIGLIA ARTISTICA”, Skira Editore 2022, pp. 88, € 19

Uno spettacolo al Teatro Studio, in onore del “maledetto” Baudelaire. In buona compagnia con Dante e con i Greci

MILANO, giovedì 12 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) Charles Baudelaire, autore dell’unico e fondamentale libro di poesie, “Fleurs du mal” (1857), è fra le più alte espressioni della poesia europea di tutti i tempi. Ebbe il trascinante e suggestivo fascino di involontario caposcuola in una confraternita di “maledetti”, da Verlaine a Mallarmé, a Rimbaud.
Lui, Charles, il “maledetto” per antonomasia, tanto che il suo libro dovette subire un processo per immoralità. Che ne aumentò la fama.
La maledizione, che Baudelaire si portava addosso, nasceva dalla sua ripugnanza per la vita borghese, con il suo nero seguito di angoscia, disgusto, malinconia. Per la noia, insomma, che Charles aveva coniato dall’inglese “spleen”, “umore nero”. Un termine medico entrato poi nel vocabolario d’uso comune. Alla base di tutto, c’era in Charles il sentimento della caduta, il senso di una battaglia persa, tra la carne e lo spirito, dell’inferno contro il cielo, di Satana contro Dio.
Intravedendo però un’unica via di salvezza nella la bellezza, anelito di speranza, ultimo doloroso rifugio del poeta.
La bellezza eterna e l’arte “che ne è il suo riflesso”, unica arma contro “la realtà ripugnante del tempo”: vero nemico dell’umanità, un mostro che distrugge la forza vitale.
Le droghe, poi, serviranno a fornire un po’ di fiducia, necessaria per sopravvivere: l’oppio, l’hashish, e, soprattutto, il vino. Sempre con controllata moderazione, solo per raggiungere i mistici e meravigliosi “Paradisi artificiali”, perché “là, tout n’est qu’ordre et beauté, calme et volupté”. Eppure, con la sua straordinaria potenza poetica, fatta di verità e di fascinosi simbolismi, Charles, il poeta maledetto, riuscì perfino a immortalare la bellezza del male. Del male di vivere, di ieri e di oggi.
Questa breve introduzione ci consente di entrare in una triade meravigliosa di poesia, com’è creata e recitata al Teatro Studio, da Toni Servillo, con la regia autorale di mostruosa abilità, dello scrittore Giuseppe Montesano, che ha drammaturgicamente cucito insieme: “Tre modi per non morire: Baudelaire, Dante, i Greci”.
In un monologo di 106 minuti senza intervallo, detti da Servillo al leggio. Niente scenografie, solo luci e un misterico, suggestivo e meraviglioso commento musicale, per lasciare così libero campo ed esaltazione solo alla incontrastata maestà della parola, di un fulgore abbacinante, grazie anche e soprattutto al suo interprete, che ha lasciato da parte la sua istrionica ironia, così malinconica e dolorosa della “Grande bellezza”, per riprendersi in un altro eccezionale versante drammaturgico, di una generosità interpretativa di rara potenza e passionalità drammatica.
Delle tre parti del lavoro di Montesano, quella di Baudelaire occupa lo spazio maggiore. Che volete, il verginale ed angelico Dante come può competere con il “maledetto” Baudelaire, poeta imparentato con noi moderni e con il nostro tempo disperato, come fare paragoni fra il peccaminoso Paradiso artificiale di Baudelaire e le mistiche serenità del Paradiso dantesco?
Diciamo che Dante, qui, scivola via.
Ma poi il monologo si rifà potentemente con i Greci, che già duemilacinquecento anni fa inventarono la logica, la filosofia e la cultura, prevedendo fin da allora il fallimento dell’uomo nella sua attuale disperazione di un mondo senza anima, senza creatività, schiavo della dittatura tecnologica, dove il digitale ha preso il posto della libertà, della verità, dei sentimenti, ed ora l’angoscia e il suo spleen hanno scavato una irrimediabile fossa di angoscia, di orrori, di noia. Ed ogni ricerca di bellezza e di libertà è diventata inutile. Pax.
Entusiastici applausi finali, e un’intima soddisfazione, o una speranza, o un’illusione: il teatro ha dimostrato che sa ancora parlare al suo pubblico. Una specie di rinascita?
Si replica fino a domenica 22.

Lavoro culturale. C’è chi lo ritiene improduttivo. Ma più di sette milioni di occupati facciamo finta che non esistano?

(di Andrea Bisicchia) – Quali saranno, nell’imminente futuro, le strategie necessarie per affrontare e, magari, risolvere i problemi del lavoro culturale, la cui rete si è dipanata e allargata continuamente, creando delle griglie sempre diverse e più sofisticate, mentre nuovi spazi vengono trasformati e utilizzati con prospettive di lavoro nel campo dello spettacolo, suscitando pessimismo in coloro che ritengono il lavoro culturale non produttivo, con una conoscenza, almeno bizzarra, del problema e con assoluta ignoranza dei dati, trasmessi dalla Commissione Europea, sui posti occupati nell’ambito di questo lavoro, che superano i sette milioni e mezzo di lavoratori, con un contributo al PIL non indifferente?
Antonio Taormina, che insegna Progettazione e Gestione dell’attività culturale, nel volume edito da FRANCO ANGELI, “Lavoro culturale e occupazione”, raccoglie sedici interventi di esperti, studiosi, professionisti del settore e fa precedere il testo da una sua Introduzione in cui sintetizza anche gli argomenti trattati, cercando di spiegare la relazione che esiste tra lavoro culturale e occupazione, lavoro che definisce “bene pubblico” e che ritiene insostituibile perché coinvolge una serie di discipline che vanno dallo Spettacolo dal vivo al Design, ad Architettura, al Cinema, all’Editoria, alla Musica, alla Televisione, alla Radio, alle Arti Performative, ai Patrimoni Storico-artistici, discipline di studio che preparano molti giovani studenti al mondo del lavoro culturale.
Si tratta di un sistema produttivo, apparentemente immateriale, dato che si riferisce a vere e proprie industrie culturali messe al servizio del pubblico e che utilizzano il mercato con tecniche di management non dissimili dalle industrie tecnologiche o manifatturiere, con delle prospettive economiche non indifferenti.
La ricerca è stata divisa da Antonio Taormina in quattro parti che riguardano gli SCENARI, con studi indirizzati alle strategie, alle peculiarità, alle norme che regolano il mercato del lavoro culturale, le MAPPATURE che permettono di conoscere le dimensioni, le caratteristiche, l’istruzione, anche attraverso studi statistici, il volontariato, le VISIONI, in cui vengono esaminate le competenze, le ibridazioni, le trasmissioni del sistema produttivo e, infine, il FOCUS sullo Spettacolo, con una indagine sulla materia che riguarda il lavoro su basi previdenziali e normative, necessarie in un settore talmente precario da assoggettarsi a continue riforme, essendo i confini molto labili, soprattutto per quanto riguarda le nuove figure professionali, sempre più bisognose di formazione e sempre più sottoposte a regimi di iniquità e di precarietà, come ha dimostrato la recente pandemia che ha colpito in maniera drammatica i lavoratori dello spettacolo, scesi in piazza con delle vere azioni performative, delle quali, rimane indelebile nella nostra memoria, quella “recitata” nella piazza antistante il Duomo di Milano, con quei cinquecento bauli utilizzati dai tecnici come strumenti a percussione, con l’intento di chiedere al governo nuove regole a livello economico nei casi estremi, come quello pandemico, argomento trattato nel libro in questione.
Antonio Taormina parte dalla crisi del 2008 che si fa iniziare col fallimento della Lehman Brothers, a cui si è ispirato Stefano Massini per lo spettacolo “Lehman Trilogy”, nella messinscena di Ronconi, al teatro Strehler, che difficilmente dimenticheremo, per dimostrare come l’ ”Improbabile” (Nassim Taleb) possa governare la nostra vita.
In quell’anno, il Parlamento Europeo aveva approvato “Lo statuto speciale degli artisti”, implementato nel 2019, dove, per loro, si prevedevano misure e tutele che, a dire il vero, vengono applicate con parsimonia, alimentando il precariato, l’incertezza del futuro, rendendo sempre più incerta la relazione tra istruzione e occupazione, argomento caro all’autore, dato che ne discute in uno dei capitoli del libro, dove ammette la potenzialità dell’istruzione, con riferimento a quella universitaria, ricorrendo a dati statistici, secondo le rivelazioni di AlmaLaurea che riferiscono le percentuali di lavoratori “culturali”, tra tempi determinati e indeterminati. Eppure, sostiene Taormina, va segnalata la mancata coerenza tra percorsi di studio e occupazione, in modo particolare nel campo della progettazione e ideazione per quanto riguarda lo spettacolo dal vivo che, negli ultimi decenni, ha influito molto sul tessuto economico e sociale del nostro paese.
Ci scusiamo per non citare tutti gli autori dei saggi, ne ricordo alcuni con cui ho avuto rapporti, da Cristina Loglio a Renato Quaglia, a Lucio Argano col quale, all’Università Cattolica, ho discusso delle tesi di laurea su alcuni degli argomenti trattati nel libro.

Antonio Taormina (a cura di), “LAVORO CULTURALE E OCCUPAZIONE”, Franco Angeli editore 2021, pp. 226, € 29.

Vita e forma: un dualismo filosofico caro anche a Pirandello. Ma Georg Simmel lo considerò causa del malessere sociale

(di Andrea Bisicchia) Georg Simmel (1858-1918), è considerato un pioniere della sociologia, insieme a Weber (1864-1920) e a Durkheim (1858-1917), benché preferisse essere considerato un filosofo, così come Durkheim preferiva essere ritenuto un antropologo. C’è da dire che tutti e tre finirono per interessarsi di discipline diverse, utili alla ricerca sociologica.
Simmel era conosciuto da Pirandello, il quale cercò di confrontarsi con lui sul concetto di “forma” e di “relativismo”, con particolare riferimento a “Il conflitto della civiltà moderna”, in cui Simmel addebitava il malessere della civiltà di fine Ottocento e inizio Novecento al contrasto tra vita e forma, tanto caro a Pirandello, secondo il quale la vita si manifesta attraverso forme diverse, col dubbio che la forma possa essere insufficiente per il manifestarsi della vita stessa, essendo la forma l’aspetto esteriore che l’individuo assume in un contesto sociale.
Di Georg Simmel, MIMESIS ha pubblicato, per la prima volta in Italia “Sociologia della concorrenza”, a cura di Alessandra Peluso, che fa precedere il breve testo dell’autore tedesco (40 pagine) da una lunga introduzione di ben 111 pagine, dalla quale il lettore potrà trarre spunti per un maggiore approfondimento.
Come è noto, la sociologia studia, particolarmente, le trasformazioni sociali. Nel caso di quanto asserito in questo libro, le trasformazioni riguardano le comunità economiche, costruite sul concetto di “concorrenza” che, per Simmel, è fondamentale, a patto che si eserciti con una “lotta indiretta”, perché se la concorrenza diventa diretta, danneggia l’avversario, trasformandosi in lotta, che è fine a se stessa. La società, pertanto, si riflette nella concorrenza, così come l’individuo, secondo Pirandello, si riflette nello specchio e, quindi, nel suo doppio. La concorrenza subisce il flusso continuo della vita, alla stessa maniera con cui lo subisce l’individuo e, per quanto riguarda il teatro, il personaggio.
Oggi siamo abituati a considerare la concorrenza come una vera e propria lotta di “tutti contro tutti” e non di “tutti per tutti”, Simmel lo aveva già previsto, così come aveva previsto che le conseguenze del conflitto, sarebbero state alquanto tragiche. In fondo, anche Eraclito sostenne che “polemos” fosse padre di tutte le cose, dato che esso contiene in sé una forma di dialettica che le giustifica, anche se, in alcuni casi, negativa, senza per questo ricordare l’uso che ne fece Adorno nel suo saggio omonimo.
Per Simmel, è necessaria una interrelazione tra diritto, etica, politica, economia monetaria, leggi di mercato, per potere permettere alla concorrenza di non trasformarsi in ostilità, bensì in una competitività fondata su principi regolativi, a cominciare dalle leggi antitrust che diventano fondamentali per ogni libera concorrenza. Eppure, Simmel è convinto che sia la lotta che la divisione, caratterizzino il progresso della vita sociale, tanto che, per spiegarlo, ricorre al Cosmo il quale, per avere una forma, accetta il suo doppio: armonia-disarmonia, attrazione-repulsione, convinto che anche la società viva grazie a un altro suo doppio: associazione-concorrenza, consenso-dissenso, unità-divisione. Il doppio non comporta sempre una negatività, anzi, sostiene Simmel, nella totalità delle relazioni, ciò che appare negativo non è sempre dannoso, perché l’unità nella vita sociale non è altro che una somma di interazioni, il cui fine è quello di perseguire un valore che dovrà essere interamente indipendente dalla lotta che, a sua volta, non si esaurisce in una vittoria che non conta nulla perché non esaudisce i valori per cui si è lottato, valori che, molto spesso, sottostanno al potere del denaro che occupa un posto centrale nella visione del mondo, tanto che c’è chi preferisce la concorrenza per acquisire più denaro, senza badare al meccanismo di reciprocità per il quale l’uomo diventa il punto in cui si intersecano le relazioni non formali. Simmel sostiene anche che la sociologia è una scienza che studia le forme con tutte le relazioni formali e aggiunge che la “sociazione”, è quel processo, attraverso il quale, una forma, col passare del tempo, diventa stabile proprio grazie alle interazioni reciproche.

Georg Simmel: “SOCIOLOGIA DELLA CONCORRENZA”, Mimesis edizioni 2022, pp. 153, € 10

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