La società, patria ideale degli uomini senza qualità, diventati protagonisti (se c’entra la schizofrenia)

(di Andrea Bisicchia) Esiste la coscienza ed esiste quella che Nietzsche definiva: “la coscienza intensificata” che i neuroscienziati chiamano “iper- riflessività”, un termine che Louis A.Sass utilizza spesso nel suo approfondito studio sulla schizofrenia, oggetto del volume: “Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni” (Cortina Editore) scritto nel 1992, finalmente tradotto da Nadia Graziani, con la prefazione illuminata di Giovanni Stangherlini e un’introduzione dello stesso autore, concepita per l’edizione italiana. Sass ha dedicato molti anni all’indagine della psiche e della schizofrenia, lo ha fatto ricorrendo a interessi interdisciplinari, intersecati con ricerche sulla psicologia clinica, con la filosofia, l’arte, il teatro, la letteratura.
Secondo il grande studioso così come nella mente umana esiste una vita nascosta, alla stessa maniera ne esiste una, altrettanto nascosta, nella mente degli autori e delle loro creature, le cui storie controverse, spesso veri e propri casi clinici, risultano necessari agli psicoterapeuti, per meglio capire i disturbi dei loro pazienti, magari ricorrendo a un metodo di fenomenologia comparativa che li mette nelle condizioni di studiare i fenomeni clinici degli ammalati di mente attraverso personaggi altrettanto sofferenti, appartenenti al mondo dell’arte.
In Italia lo fa, con straordinaria competenza, Eugenio Borgna che, all’argomento, ha dedicato parecchi volumi, l’ultimo dei quali:”La dignità ferita” (Feltrinelli). Louis A. Sass non disdegna il rapporto tra follia e modernità, intendendo, per modernità, tutto ciò che possa essere riferibile alla storia della cultura e al modernismo, al quale va addebitata la letteratura più innovativa del primo Novecento, caratterizzata da un soggettivismo così radicale da coinvolgere, spesso, la mente degli autori e quella dei loro personaggi, favorendo il prevalere della dimensione inconscia e frammentata della loro psiche. Si tratta di una tendenza, le cui origini vanno ricercate in filosofi come Nietzsche, Bergson, Freud, Einstein, e in autori come Joyce, Kafka,Yeats, Pirandello, Svevo, Musil, Beckett, chiamati in causa da Sass, soprattutto per l’uso sperimentale che hanno fatto del tempo, il cui fluire secondo la teoria di Bergson, si è trasformato in una frantumazione del tempo narrativo, teatrale, figurativo.
Non per nulla Sass, nelle sue ricerche comparative, fa riferimento ad Artaud, Jarry, De Ducshamp, né si dimentica di liberare la schizofrenia da quell’aura romantica e mistica che l’aveva precedentemente caratterizzata, essendo ai suoi occhi qualcosa di più, perché riguarda, non soltanto l’individuo, ma anche la società che ritiene la vera sede della dissociazione, patria ideale degli uomini senza qualità, delle loro crisi di identità, diventati protagonisti di tanti testi narrativi e teatrali, per i quali l’analisi del critico letterario ha bisogno del contributo degli studi di neuropsicologia per meglio penetrare il loro mondo interiore.

Louis A. Sass, “Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni”, Editore Cortina, p 516, euro 32

La “Celestina” di Luca Ronconi al Piccolo Teatro tra erotismo e pornografia

Milano. Lucrezia Guidone in una scena di “Celestina”, regia di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Strehler (foto Luigi Laselva)

Milano. Lucrezia Guidone in una scena di “Celestina”, regia di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Strehler (foto Luigi Laselva)

(di Paolo A. Paganini) C’era una volta, sul finire del Cinquecento, “La commedia di Calisto e Melibea”. Autore? Mistero. Un po’ come per Shakespeare. Di edizione in edizione, circa cinque (dal 1499), la commedia passò dai sedici atti iniziali a ventuno. Con la quinta edizione, dal titolo “Tragicomedia de Calixto y Melibea y de la puta vieja Celestina”, venne definitivamente chiamata semplicemente “Celestina”, personaggio motore di tutta la mastodontica opera. E con questa, finalmente, si conobbe l’autore, “El Bachiller” Fernando de Rojas. Se di lì a quasi un secolo dopo non fosse arrivato Cervantes, De Rojas sarebbe ricordato oggi in assoluto come il più grande e celebre autore spagnolo. Rimane tuttavia come iniziatore del teatro moderno, colui che influenzò tutta la letteratura iberica, compreso Cervantes, compreso Lope de Vega.
Celestina, mezzana, tenutaria di bordello, mammona, vecchia perversa, lucidamente perfida, genio del male, ruffiana, temerariamente impudica in quel periodo di rigida moralità, è al centro di una trama semplicissima, fatta di intrighi, di filtri magici, di passioni, e quindi fatalmente destinata a finire tragicamente in lutti e sangue. Calisto, dunque, impazzisce d’amore per la bellissima Melibea, che lo respinge. Sempronio, servo di Calisto, lo consiglia di rivolgersi a Celestina, la vecchia malafemmina, intrigante e capace di ogni sortilegio d’amore. E Celestina, con ingegnosi pretesti, riesce a convincere la recalcitrante e bellissima fanciulla, vergine e pudica, a darsi al giovane, in un gorgo di travolgente e irrefrenabile passione. Ma una notte, Calisto, lasciando la ragazza, mette malamente un piede sulla scala che lo portava di nascosto all’amato bene, cade e muore. Melibea, disperata, si getterà dall’alto di una terrazza. Nel frattempo, in rapida successione, i due servi di Calisto, per non aver avuto giusto compenso da Celestina, la uccidono; e, a loro volta, vengono giustiziati.
Tutto questo emerge in pagine di plebei e bassi capitoli di altissima letteratura, con finezze psicologiche e sottigliezze stilistiche, pur nella licenziosità dell’opera, che penetrano con abilità sconcertante negli abissi dell’anima umana. “La Celestina” è stata tradotta in tutte le lingue europee, ed ha avuto svariate trascrizioni e riduzioni. L’ultima (1991), di Michel Garneau, con il titolo “Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, in scena al Piccolo Teatro Strehler, tre ore e mezzo con un intervallo, è ora firmata da Luca Ronconi. E farà molto parlare.
In bilico fra erotismo (carica di sensualità nell’attrazione sessuale) e pornografia (raffigurazione di soggetti erotici che offendono il pudore), l’azione drammaturgica, lenta e tuttavia solenne, nella tipica estetica ronconiana di estenuare recitazione e plastiche gestualità, analitici passaggi psicologici e dinamici scatenamenti d’irrefrenabile sensualità, è posta su tre precise e scandite accentuazioni narrative e figurative: 1) l’infoiamento dell’erotomane Calisto, che nella sua foga masturbatoria si farebbe il mondo intero; 2) il fin troppo brusco passaggio alla scoperta del sesso da parte della timorata fanciulla Melibea; 3) la sovrastante presenza di Celestina, che tutto avvolge e condiziona con la sua mefitica esaltazione del sesso, centro motore di ogni piacere, di ogni desiderio, dove non c’è posto per sentimento e spiritualità, ma tutto è vizio e corruzione. Di questo passo, non ci si meraviglierà delle varie orge onanistiche, di umide deflorazioni di vergini, di nudità femminili e maschili in copule, di iterate frequentazioni in postriboli e anfratti compiacenti.
E, a proposito di anfratti, la scena è un vero campionario di botole e porte semoventi, sempre così amate da Ronconi.
Dei quattrodici interpreti, almeno nomineremo – e come astenersi? – Maria Paiato, ch’è una Celestina tragicamente perversa e tuttavia capace d’un alone di ingenua animalità con quella sua spicciola santificazione plebea di soldi e sesso. Paolo Pierobon sarà ricordato come una delle massime espressioni di erotomania scenica. Lucrezia Guidone, nel ruolo di Melibea, nuda, innocente vittima sacrificale per troppo amore e per null’altro, è stata tenera e convincente. Bene anche il servo Sempronio, interpretato da un eccellente Fausto Russo Alesi. Apprezzabili tutti gli altri. Applausi cordiali alla fine per tutti, regista e collaboratori compresi.

“Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, di Michel Garneau, da Fernando de Rojas, regia di Luca Ronconi. Al Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano. Repliche fino a sabato 1 marzo.

Eschilo in Oklahoma: gli odiosi segreti della grande famiglia di Meryl Streep

Meryl Streep e Julia Roberts in una scena de “I Segreti di Osage County”, di John Wells

Meryl Streep e Julia Roberts in una scena de “I Segreti di Osage County”, di John Wells

(di Paolo Calcagno) Metti una sera a cena: Meryl Streep con Julia Roberts, Margo Martindale, Ewan McGregor, Dermot Mulroney, Julianne Nicholson, Juliette Lewis, Abigail Breslin, Benedict Cumberbatch, Chris Cooper. È il cast stellare, ricco di premi Oscar, de “I segreti di Osage County”, diretto da John Wells nella scena madre del film, la cena che riunisce l’intera famiglia Weston nella casa di origine, nel Midwest, in seguito al suicidio del capofamiglia. La scomparsa del personaggio interpretato da Sam Shepard è la circostanza che riunisce nella casa la vedova Meryl Streep, le tre figlie, Julia Roberts, Juliette Lewis, Julianne Nicholson, la sorella della dispotica matriarca, Margò Martindale, e i relativi mariti, ridotti al ruolo di ininfluenti accompagnatori, Chris Cooper ed Ewan McGregor, così come il fidanzato della Lewis, Dermot Mulroney.
Nel film, tratto dall’omonima pièce teatrale, scritta dal premio Pulitzer Tracy Letts e vincitrice di 5 Tony Awards (gli Oscar del Teatro), la riunione conviviale della grande famiglia è una sorta di resa dei conti, amara e surreale, di rancori e accuse rimasti in sospeso dal tempo in cui le figlie vivevano ancora con i genitori, intrecciando rapporti non facili e, persino, difficilissimi nei confronti della madre. Una dura amarezza stampata sul volto, persino imbruttita, Julia Roberts tiene testa alla prepotente bravura di Meryl Streep nel progressivo sfilacciamento della formale pace familiare, via via che i segreti più bui saltano fuori, precipitati dal crollo delle ipocrisie su cui poggiava una finta convivenza di comodo. Fra accuse spietate e rivelazioni crudeli, in un ambiente dove tutti abbaiano contro tutti, assistiamo alla demolizione irrimediabile dell’armonia della famiglia.
Prende, così, forma uno scenario da Eschilo in Oklahoma, dove ogni sofferenza genera altre sofferenze, fino a investire tutti i membri di quella famiglia di Osage County, immergendoli in un bagno di dolore da tragedia greca che non risparmia niente e nessuno.
Irresistibilmente istrionica fin dalle prime scene del film, Meryl Streep con il nevrotico e perfido ritratto della matriarca ci regala un’altra perla recitativa che l’ha già condotta alla diciottesima nomination e che potrebbe farle conquistare il quarto Oscar della sua carriera. Ma è tutto il cast a offrire una prova superlativa nello sfascio dei sentimenti e della ragione dei vari personaggi del film. In particolare, spicca l’interpretazione di Julia Roberts in un ruolo che l’ha già portata in lizza per l’Oscar (sarebbe il secondo dopo quello ricevuto nel 2000 per “Erin brockovich – Forte come la verità”) alla migliore attrice non protagonista. Un ruolo che potrebbe segnare una svolta nella sua carriera: dopo essere stata per oltre vent’anni la “fidanzata d’America”, probabilmente, Julia Roberts ha sentito il bisogno di cambiare registro per la sua raggiunta maturità, anagrafica e artistica. Vederla con le rughe, qualche capello bianco, truccata perché sembri bruttina e appesantita grazie a dei cuscini sui fianchi, per tanti, forse, sarà uno shock. Ma ora l’incantevole e mitica protagonista di “Pretty Woman” sa di aver dimostrato di essere pronta anche per ruoli che non puntino esclusivamente sul suo abbagliante fascino.

“I Segreti di Osage County”, di John Wells, con Meryl Streep, Julia Roberts. Stati Uniti, 2013.

Pirandello, giustiziere dei peccati dell’inconscio commessi “non si sa come”

Milano. Pia Lanciotti e Elena Ghiaurov in una scena di “Non si sa come” di Pirandello al Piccolo Teatro Grassi (foto Norberth)

Milano. Pia Lanciotti e Elena Ghiaurov in una scena di “Non si sa come” di Pirandello al Piccolo Teatro Grassi (foto Norberth)

(di Paolo A. Paganini) Non c’è storia, non c’è azione. C’è un finale appiccicaticcio, che risolve il dramma nella più consunta delle soluzioni del teatro borghese, un colpo di pistola d’un marito tradito contro l’amico fraterno. Eppure, questo “Non si sa come” di Pirandello (ultimo dramma compiuto del girgentese, nel ’34, prima dell’incompiuto “I giganti della montagna”), vive solo come teatro di parola, e affascina. Oltre il climax della parola, non c’è nessun’altra incursione (che non sia registica). Infiniti monologhi, logorroici travasamenti psichici su come e perché, attanagliano, in un continuo trapanamento delle coscienze, un quintetto di amici della buona società nobil/borghese, che non hanno altro a cui pensare (non avevano certo problemi di disoccupazione, di IMU, di deflazione, termini allora sconosciuti. Il fascismo guardava alle glorie dell’impero e il futuro appariva come un radioso sole che sorge. Anche per Pirandello).
Ebbene, una serena villa di campagna viene travolta da un cascata di parole, di confessioni, di sospetti e gelosie (in tre atti, quasi due ore con un intervallo più un buio per cambio di scena). E continua ad avvincere, a tenere gli spettatori agganciati agli arzigogolamenti mentali del protagonista Romeo Daddi (Sandro Lombardi).
Egli, avendo ucciso, non si sa come, un coetaneo trent’anni prima, e avendo ora tradito, non si sa come, il suo migliore amico, facendosi la di lui consorte in un meriggio di afa, di cicale impazzite, di corpi senza coscienza, questo secondo “delitto” scatena in lui, non si sa come, feroci rigurgiti di penitenziali aspirazioni al martirio per punire le debolezze della carne, che ha ceduto, non si sa come, senza che lui lo volesse. Una stordita e fugace passata di sesso, senza amore, senza desiderio. Un colpo e via andare. E non dovrebbe rimanere nella coscienza se non un’ombra senza ricordi. Senza conseguenze. La temporanea amante Ginevra (Elena Ghiaurov) ritornerebbe così all’amore del marito (Francesco Colella). E Romeo a sua moglie, la fedele Bice (Pia Lanciotti).
Ma se l’uomo è capace di ogni misfatto, senza volerlo, un delitto innocente, insomma, allora tutti sono colpevoli, perché non c’è uomo che non abbia commesso un suo inconsapevole delitto, non si sa come, un delitto perpetrato per debolezza della carne, non dello spirito, magari perfino in sogno, in un sogno di libidini inconfessabili. O in sogno o di fatto, nulla cambia. Se è così, questa cappa di colpevolezza deve calare per forza su tutti: su di sé, sulla moglie fedele, sull’amico fraterno e sua moglie (che ci ha già messo una pietra sopra), sull’innocente amico Nicola Respi (Marco Brinzi), che non c’entra per niente, o quasi, e si prende ogni tipo di colpa, soprattutto come presunto artefice della “pazzia” di Romeo, che ora, in un delirio di purificazione, vuol rivelare a tutti, come appunto farà, il proprio non voluto secondo delitto della carne. Amen.
Con la regia di Federico Tiezzi, al Piccolo Teatro Grassi, il dramma ha avuto un generale consenso di applausi, nonostante qualche squilibrio formale. Avremmo preferito che l’algida atmosfera metafisica rispettasse ancor più una recitazione più interiorizzata, meno passionale, meno espressionisticamente esasperata. Il Romeo Daddi di Sandro Lombardi, con baffi alla Salvador Dalì, figura subito con eccessivi caratteri di patologica esaltazione. È, sì, fuori di sè, come dev’essere, ma è pur sempre uno sciagurato trafitto dai tormenti di un’autocoscienza critica (rimorso?) sulla via dell’espiazione. Ma è piaciuto così. Come sono piaciuti tutti gli interpreti, anche se, a mio giudizio, m’è parsa in parte soprattutto Pia Lanciotti. Ma che forza la Ghiaurov. Un plauso per le voci bene impostate e comprensibili. Finalmente.

“Non si sa come”, di Pirandello. Regia Federico Tiezzi. Al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello, Milano. Repliche fino a domenica 2 febbraio.

Tournée
CUNEO, Teatro Toselli, 4 febbraio; RHO (Milano), Auditorium Comunale, 6 febbraio; LIMBIATE (Milano), Teatro Comunale, 7 febbraio; SAN CASCIANO V.di P. (Firenze), Teatro Niccolini, 11 febbraio; VIAREGGIO, Teatro Politeama, 12 febbraio; EMPOLI (Firenze), Teatro Excelsior, 13 febbraio; LUCCA, Teatro del Giglio, 14/16 febbraio; CORTONA (Arezzo), Teatro Signorelli, 19 febbraio; RECANATI (Macerata), Teatro Persiani 21 febbraio; ASCOLI PICENO, Teatro Ventidio Basso, 22-23 febbraio; FIRENZE, Teatro della Pergola, 4/9 marzo; SCANDIANO (Reggio Emilia), Cinema Teatro Boiardo, 11 marzo; VIGNOLA (Modena), Teatro Fabbri 12-13 marzo; PISTOIA, Teatro Manzoni, 14/16 marzo