L’arcivescovo Scola incontra il giornalista Quirico: esporsi in prima persona per testimoniare la verità

L’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola

L’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola

(di Patrizia Pedrazzini)Quando parlo del prossimo la mia bocca, nel servirsi della lingua, è da paragonarsi al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra nervi e tendini: il colpo che vibro deve essere esattissimo nel non esprimere né di più né di meno della verità“. Parola di San Francesco di Sales (1567-1622), patrono dei giornalisti, in onore del quale si è svolto, sabato 25 gennaio a Milano, l’annuale e tradizionale incontro fra l’arcivescovo, cardinale Angelo Scola, e la stampa. Un appuntamento che questa volta è stato l’occasione per far dialogare l’alto prelato con un giornalista oggetto lo scorso anno di un drammatico rapimento: l’inviato de La Stampa Domenico Quirico, sequestrato per cinque mesi in Siria, dove si trovava per raccontare il conflitto in corso.
Tema dell’incontro, la testimonianza, ovvero la figura del giornalista in quanto testimone. Ovvero che cosa significhi, veramente, testimoniare. Che sarebbe poi l’essenza stessa del giornalismo. Per Quirico un’essenza “semplice come la mia fede: cioè scrivere ciò che uno vede, essere presenti laddove l’uomo soffre. Raccontare il dolore è una cosa molto complicata, che richiede molta onestà, e la prima onestà è di vederlo e di condividerlo. Non si racconta chi soffre se non soffri anche tu“. Mai, ha sottolineato, esporsi alla domanda. “Ma tu dov’eri?”, perché “solo se ci sono posso scrivere, parlare, filmare, scattare fotografie“. Di qui la logica considerazione per la quale fare giornalismo “è una cosa terribilmente semplice: essere lì. Non è una scelta, è una necessità”. Senza dimenticare che l’umanità e il dolore non si trovano mai solo da una parte, e che quindi l’obbligo della testimonianza si deve tradurre nel raccontare “non solo i buoni, ma anche i cattivi, i maledetti, i dannati, i perdenti”. Una strada, quella della testimonianza, che ha fornito al cardinale l’aggancio per sottolineare la necessità della “commozione” da parte del giornalista, dell’autoesposizione, del farsi coinvolgere, del “pagare di persona”. “Si può conoscere senza il cuore, solo con la testa? Non credo proprio”, si è detto l’arcivescovo, denunciando come “noi Europei siamo diventati duri di cuore, impagliati, per dirla con Eliot. E questo perché la compassione non rientra più fra i nostri costumi”.
Dalla testimonianza partecipe, allora, al “rapporto di responsabilità morale”, ovvero al dovere di considerare le conseguenze dirette che “quello che scrivo avrà sulle persone delle quali scrivo”. Quindi al “peccato del giudizio temerario”, come l’ha definito il cardinale (“sorta di itterizia che trasforma tutto in giallo, in qualcosa di negativo”), all’ossessione per la dietrologia, alla faticosa coerenza, o se si vuole all’incoerenza, che deve sì, ha chiarito Scola, fare i conti con la fragilità umana, ma che può facilmente trasformarsi in colpa. E senza farsi ammaliare dall’ingannevole, quanto diffusa, opinione che esistano più verità. Perché “la verità è una sola, non ce ne sono tante. Semmai ci sono tanti punti di vista”. Fino all’obbligo dell’onestà, dell’attenzione costante alle parole che si utilizzano, della correttezza a tutti i costi.
E ancora una volta all’attualità del pensiero di San Francesco di Sales: “La maldicenza è un vero omicidio, perché tre sono le nostre vite: la vita spirituale, con sede nella grazia di Dio; la vita corporale, con sede nell’anima; la vita civile, che consiste nel buon nome. Il peccato ci sottrae la prima, la morte ci toglie la seconda, la maldicenza ci priva della terza. Il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie tre delitti: uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta, e toglie la vita civile a colui del quale sparla. Dice San Bernardo che entrambi, sia colui che sparla sia colui che ascolta il maldicente, hanno il diavolo addosso: uno sulla lingua e l’altro nell’orecchio”.
Nel 2013 sono stati 129, nel mondo, i giornalisti e gli operatori dell’informazione uccisi mentre svolgevano il loro lavoro

A proposito di Enrico IV, il punto di Andrea Bisicchia sull’ossessione del nuovo a teatro.

Milano. Una scena di “Enrico IV” in scena al Teatro Litta con la regia di Alberto Oliva (foto Congiu)

Milano. Una scena di “Enrico IV” in scena al Teatro Litta con la regia di Alberto Oliva (foto Congiu)

Prendendo spunto dalla nostra critica dell’”Enrico IV” di Pirandello, in scena al Teatro Litta di Milano, con la regia di Alberto Oliva, da noi pubblicata in occasione della prima rappresentazione, Andrea Bisicchia, storico del teatro, saggista, docente universitario, responsabile culturale del Teatro Franco Parenti, ha voluto puntualizzare e chiarire una diffusa tendenza del teatro italiano sugli interventi dei registi, non sempre rispettosi dei testi originali.
Ecco qui di seguito il suo apprezzato contributo.


(di Andrea Bisicchia) Che le manifestazioni artistiche, per imporsi presso l’opinione pubblica, abbiano bisogno di ricorrere alla trasgressione, concepita come marchio di novità, è un fatto noto, meno noto è che trasgressione voglia dire creazione. Filosofi e, soprattutto sociologi, hanno cercato di teorizzare i motivi di simile scelta adducendo, come pretesto, le conseguenze della modernità (Antony Giddens), della postmodernità (Francois Lyotard), della ipermodernità e del consumo sfrenato (Gilles Lipovetsky). Tutti concordano nell’individuare le cause nello strapotere dell’effimero, nella ricerca dell’eccesso, della violazione delle regole, tanto che i giovani artisti ricorrono spesso alle contaminazioni o alla multidisciplinarietà, facendone un uso smodato.
Sono convinto che ogni artista, spinto dalla velocità, preferisca ricorrere al saccheggio, ma il più saccheggiato è il teatro, nel senso che oggi si vuol teatralizzare ogni istante della propria vita, tanto che si sale su un palcoscenico per raccontarla, magari non alla maniera di un reality. Accade che giudici, giornalisti, politici si improvvisino attori, in barba a quelli che hanno studiato nelle Accademie o nelle Scuole di teatro. La cosa più sconcertante è che si affidano a organizzatori, senza scrupoli per intraprendere delle vere e proprie tournée.
Poi c’è il saccheggio della terminologia, tanto che il politico diventa clown, mettendo in crisi la specificità del personaggio che, tradizionalmente, sa far ridere, oltre che piangere, ma che nell’uso fattone recentemente, diventa sinonimo di disprezzo. C’è inoltre una generazione di registi che usa la contaminazione senza avvedersi dei pasticci che ne conseguono. È accaduto con “L’olandese volante”, realizzato alla Scala, la cui natura leggendaria è stata letta in chiave anticapitalista, dato che il regista Andreas Homoki l’ha ambientata in una società commerciale di navigazione, al tempo del colonialismo, per non parlare dell’uso disinvolto dei costumi in recentissimi spettacoli di Filippo Timi per il suo “Don Giovanni” o di Alessandro Gassman, per il suo “Riccardo III”, dove tutto appare esagerato, anche nel trucco, tanto che i personaggi sembrano strizzare l’occhio a quelli del fumetto.
Le stesse osservazioni si possono fare a scapito delle contaminazioni musicali dove c’è di tutto e di più, o dell’uso della tecnologia utilizzata per proiettare lo spettacolo in uno scenario immateriale, ricorrendo ad un diverso contesto linguistico, dove la parola viene accantonata, deturpata, irrisa, per essere sostituita da una intensa espansione corporale o sensoriale, attraverso l’uso sofisticato di strumenti tecnologici, come se l’evento immateriale dovesse promuovere una nuova emotività rispetto all’evento reale, ma dove è fin troppo evidente una confusione di stili e di linguaggi, alla ricerca dell’estetizzazione della civiltà, piuttosto che di un testo che va rappresentato. Se non si riesce a distinguere la regia (fonte di creatività) dai registi di professione, artefici di questa confusione, il saccheggio potrà durare all’infinito.

Leo Gullotta e Eugenio Franceschini in un testo di Patroni Griffi. Prima del naufragio della parola

Milano. Leo Gullotta, intenso protagonista di “Prima del silenzio”, di Patroni Griffi, al Teatro Franco Parenti (foto di Tommaso Le Pera).

Milano. Leo Gullotta, intenso protagonista di “Prima del silenzio”, di Patroni Griffi, al Teatro Franco Parenti (foto di Tommaso Le Pera).

(di Paolo A. Paganini) Eugène Delacroix (1798-1863), pittore romantico francese, trasse impulso ed ispirazione dalla lettura di Shakespeare, oltre che da Goethe, da Byron e dall’amato Dante. Non può dunque stupire un suo intervento in materia teatrale. Ebbe a dire, forse, ma non ne sono sicuro andando a memoria, e comunque faccio mie le sue presunte osservazioni: “Per fare teatro sono sufficienti un tavolo e una candela”. Ora, assistendo all’interessante riesumazione di “Prima del silenzio” (1980), di Giuseppe Patroni Griffi, il riferimento a Delacroix è stato quasi automatico, vedendo in scena ancor meno di un tavolo e d’una candela, ma solo uno scalcagnato divano. Sembrerà perlomeno eccentrico parlare d’uno spettacolo cominciando dalla scena, ma l’incipit s’impone guardando a bocca aperta gli effetti scenici che con due trucchi (ma quanta fatica c’è dietro) ha escogitato la troupe scenica di Luca Scarzella (video), Umile Vainieri (disegno luci), Luca Filaci (risoluzione scenica), Franco Patimo (disegno audio), facendo rivivere, tra l’altro, in maxi-proiezione, le fantasmiche apparizioni sceniche di Sergio Mascherpa, Andrea Giuliano e Paola Gassman (grazie altresì alla mano sicura del regista Fabio Grossi).
I due trucchi che dicevamo sono di per sé semplicissimi: un fondale su cui proiettare le immagini e un corrispondente velo sul proscenio, e in mezzo l’azione scenica. Ora, trasferendo e dividendo l’immagine tra fondale e proscenio, l’effetto diventa straordinariamente tridimensionale e avvolgente. Vuoi un mare minaccioso di onde in burrasca? E sembrerà che si riversi in platea travolgendo gli attori. Vuoi un volo fra eteree leggerezze di nubi in quota? E ti sembrerà di volare. Entrambe le situazioni avvengono sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti, dove Leo Gullotta (un inquieto intellettuale di bianco pelo che tra ricchezza e libertà ha scelto la libertà) e Eugenio Franceschini (un giovane e scapestrato in errante ricerca di tanti perché) uniscono le loro vite per un tratto del loro tragitto terreno.
L’intellettuale ha lasciato moglie, figli, servitù, vita comoda, preferendo a una vita asfissiante una squallido ma felice stato adolescenziale, nel quale poter liberamente guazzare in disquisizioni sulla morte, sul senso del passato, sull’inutilità del presente, sulla castrazione delle convenzioni, sull’ipocrisia del perbenismo, solo elogiando, santificando diremo meglio, anzi innalzando un monumentale tributo alla parola, solo e unico viatico all’essenza della vita, salvifica sublimazione dell’esistenza stessa. “Parola, perché la vita non è soltanto un ricordo… La vita è parola… Parola per impedire la morte del passato…”
Orbene, in tempi di apnea verbale, di parole appese come vecchi stracci sulle grucce della banalità, di parole offese, violentate, sbrindellate, oggi più di trent’anni fa, il testo di Peppino Patroni Griffi, oltre che una testimonianza di fede, è un grido di dolore, un’invocazione, forse patetica e disperata in nome di una naufragata civiltà. Un voler resuscitare un antico verbo primigenio e creativo. Prima che arrivi il silenzio totale d’una distruttiva e definitiva barbarie. Lo spettacolo, di novanta minuti senza intervallo, s’intitola appunto: “Prima del silenzio”!
Leo Gullotta: un esemplare sacerdote della parola. Eugenio Franceschini (caspita che bravo!) invece vorrebbe solo un po’ di silenzio… Al vecchio intellettuale, ingenuo e illuso, non rimarrà che la solitudine. Un subisso di calorosissimi applausi alla fine.
“Prima del silenzio”, di Giuseppe Patroni Griffi, regia di Fabio Grossi. Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14 – Milano. Repliche fino a domenica 2 febbraio.
Tournée
Dal 4 al 9 febbraio: Torino, Teatro Carignano.
Dal 13 al 16 febbraio: Forlì, Teatro Diego Fabbri.

È senza denti il “Lupo” di Martin Scorsese e Di Caprio

Leonardo Di Caprio in una scena del film “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese

Leonardo Di Caprio in una scena del film “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese

(di Paolo Calcagno) Scorsese e Di Caprio, consapevolmente senza freni, hanno messo il loro immenso talento al servizio del racconto dell’eccesso senza qualità e senza fascino. Dura ben tre ore “The Wolf of Wall Street” (Il lupo di Wall Street), candidato a 5 Oscar: film, regia, attore protagonista (Leonardo Di Caprio), attore non protagonista (Jonah Hill), sceneggiatura non originale tratta dall’autobiografia di Jordan Belfort ad opera di Terence Winter (creatore di “The Sopranos” e “Boardwalk Empire”). E sono tutte dedicate alla descrizione dei baccanali moderni dell’alta finanza di New York negli anni ’80 e ’90, quando Wall Street aveva poche regole e l’improvvisato broker Jordan Belfort si guardava bene dall’osservarle, mosso da un’avidità ultracompulsa che era l’unica fonte d’ispirazione nella sua corrotta manipolazione della Borsa e nel criminale rastrellamento di milioni (di dollari) a palate, a spese dei suoi clienti cui rifilava titoli di nessun valore.
Mi chiamo Jordan Belfort. L’anno in cui ho compiuto 26 anni, ho guadagnato 49 milioni di dollari, cosa che mi ha fatto incazzare, perché ne mancavano solo tre e avrei ottenuto una media di un milione a settimana“, si presenta così il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio nel “tasmania” cucito su misura e con al polso un Rolex “ordinario” da 12mila euro. Nel selvaggio West della finanza newyorchese Belfort fonda la società Stratton Oakmont, inventa il “pump and dump” (gonfia e sgonfia) con il suo squadrone di broker molto persuasivi, capaci di far salire le azioni a prezzi eccessivi e, subito dopo, farle crollare mandando in rovina gli investitori, si vanta dei bottini raccolti e s’impone all’attenzione dei media come un esempio di gangster moderno: la rivista Forbes lo definisce con evidente disprezzo “una sorta di Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a se stesso”.
Ora, prima di finire scontatamente in carcere, lo scenario di truffe celebrate con festini quotidiani (anche, ma direi soprattutto, in ufficio) dove cocaina e crack vari venivano distribuiti a quintali e le orge animate da prostitute costosissime (naturalmente, scrupolosamente dichiarate in nota-spese) superavano ogni limite, non è che il nostro Jordan fosse un cow-boy romantico, a cavallo di torbide ambiguità per conquistare le “nuove frontiere” dell’esistenza. E per quanto Scorsese si sia sforzato di mostrare con riprese mirabolanti i sabba supercafonal di quel delinquente senza scrupoli e per quanto Di Caprio (presente in ogni sequenza del film) si arrampichi sugli specchi gigioneggiando a dismisura per donare il fascino della “simpatica canaglia” al personaggio, alla decima abbuffata orgiastica le battute divertenti della sceneggiatura di Winter (sono stati contati circa 600 “fuck”) non ci evitano l’assalto di una fastidiosa nausea e la triste perplessità di essere stati bidonati da un “lupo” che non morde, ricco di “peli” in barba ai risaputi “vizi”.
Attenzione, il nostro non è un giudizio di carattere moralistico nei confronti di un lestofante di piccolo cabotaggio esaltato come un “eroe” da commedia dark. Siamo ben consapevoli che i misfatti di Belfort si contano in un paio di centinaia di milioni di dollari: un’inezia se comparati alle rovine causate dalle grandi speculazioni dell’alta finanza, dai “junk bonds” alla “bolla” del Nasdaq della cosiddetta “new economy”, per non dimenticare il crollo miliardario dei “derivati” e dei mutui fino al terremoto della Banca Lehman, devastante per l’economia mondiale. Più che la difesa dei principi etici il rimprovero che indirizziamo a Scorsese e al suo alfiere Di Caprio è mosso dalla difesa del diritto a non essere annoiati e dalla sgradevole sorpresa di cogliere un grande regista chino a osservare compiaciuto, e certo anche divertito, dal buco della serratura il dramma dell’ascesa e della caduta dell’”edonismo reaganiano” e a raccontarcelo come se fosse “ubriaco” (e che Shakespeare ci perdoni).
“The Wolf of Wall Street”, regia di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Matthew McConaughey. Stati Uniti, 2013.