A Brera nuova sistemazione per Bellini e Mantegna. Secondo Ermanno Olmi

Milano. Visitatori in ammirazione davanti alla “Pietà” del Bellini alla Pinacoteca di Brera (foto p.a.p.)

Milano. Visitatori in ammirazione davanti alla “Pietà” del Bellini alla Pinacoteca di Brera (foto p.a.p.)


(di Patrizia Pedrazzini) Alla Pinacoteca di Brera si è consumata una sfida. Fra tre Maestri. Due grandi pittori del Quattrocento padano, Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. E un grande regista dei giorni nostri, il bergamasco Ermanno Olmi, il poeta de “L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore”, “Il mestiere delle armi”. Tre Maestri del silenzio e del dramma ora accomunati, nella sala VII del museo milanese, da una particolare visione, o se si preferisce lettura, del dolore. Perché l’ottantaduenne Olmi è stato chiamato dalla Soprintendenza a ideare un nuovo allestimento per due dei suoi maggiori capolavori, finora “penalizzati da collocazioni che non ne mettevano bene in risalto l’eccellenza”: il “Cristo morto” di Mantegna e la “Pietà” di Bellini. Una vera e propria sfida, che il regista ha raccolto e affrontato con lo strumento a lui più consono: la cinepresa. Prendendo i due capolavori e mettendoli letteralmente in scena, lungo un percorso fatto di pietoso riserbo, raccoglimento, muto dolore. Ecco allora il “rivoluzionario” allestimento (realizzato con il sostegno di Skira Editore e con Van Cleef & Arpels come partner principale).
Ecco, in fondo al luminoso corridoio della Pinacoteca dedicato al colore della pittura veneta, la saletta, buia, all’inizio della quale, appoggiato su una mensola di metallo e protetto da due lastre di cristallo, spicca nella giusta luce, in tutta la sua bellezza e nella cornice originale, il capolavoro di Bellini. Un mezzo giro intorno al quadro ed ecco apparire, dietro, nel nero della stanza, senza cornice, fissato a 67 centimetri da terra a un grande pannello altrettanto nero, il “Cristo morto” di Mantegna, illuminato da
Milano. Il “Cristo morto” di Andrea Mantegna nell’allestimento di Ermanno Olmi (foto Giacomo Gatti)

Milano. Il “Cristo morto” di Andrea Mantegna nell’allestimento di Ermanno Olmi (foto Giacomo Gatti)


un fascio di luce. Un allestimento finalizzato, al di là della visione poetica e insieme drammatica che lo contraddistingue, anche a dar vita a un ideale dialogo fra i due dipinti (tra l’altro i due pittori erano cognati), entrambi appartenenti alla categoria dei “compianto”. E la cui lettura può sicuramente avvalersi degli esiti di recenti ricerche grazie alle quali è possibile ipotizzare, nel viso del Cristo di Mantegna, l’autoritratto del pittore, e in una delle tre figure a lato del corpo (quella meno visibile) il viso di uno dei suoi due figli scomparsi, il più giovane e più caro. Un percorso, quindi, di dolore privato e di sofferenza profonda, che trova sublimazione nella fede e nell’arte. E che l’allestimento di Olmi sottolinea fino all’estrema conseguenza: la scelta di occultare quasi alla visione immediata il capolavoro di Mantegna. In fondo, il quadro (una pittura a tempera su tela) non venne dipinto per essere esposto, ma per restare nascosto a sguardi estranei e, per volontà testamentaria dello stesso autore, essere deposto nel medesimo sepolcro nel quale erano già stati tumulati i due amati figli. Ecco allora la “rivoluzionaria” idea di Olmi, il suo “andare al di là” del rigore accademico e dei tradizionali criteri museali. Una scelta coraggiosa, sicuramente, ma non per questo immune dal destare perplessità.
Perché, contrariamente al capolavoro di Bellini, sul quale inevitabilmente si focalizza l’attenzione del visitatore fin dall’inizio del corridoio che conduce alla sala, quello di Mantegna ne esce, pur considerato nella sua essenzialità e nella “solitudine” chiamata a esaltarne la potenza e la bellezza, quasi sacrificato. Il livido cadavere di Cristo, che niente ha di divino, il vertiginoso scorcio prospettico che ne fa uno dei capolavori del Rinascimento, è nascosto, quasi rarefatto. Come il dolore che vuole raccontare. Fatto di penombre e di silenzi. Ma questo è Ermanno Olmi.

Lunedì 16 dicembre dibattito a Firenze sui rischi sismici e su come salvaguardare i capolavori museali

Grazie alla collaborazione tra Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo e l’Università di Firenze, lunedì 16 dicembre (dalle 9.30 alle 11.30) alla Galleria dell’Accademia di Firenze si terrà il convegno dal titolo “Valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale: un’applicazione sperimentale per il museo della Galleria dell’Accademia di Firenze”. I recenti eventi sismici, che hanno coinvolto il territorio italiano, hanno evidenziato la notevole fragilità dell’edilizia storica. La carenza di adeguate azioni di prevenzione ha comportato negli anni notevoli danni al patrimonio culturale nonché un dispendio enorme di risorse economiche per gli interventi di ricostruzione post-sisma. Scopo dell’incontro è illustrare la metodologia di lavoro impostata per la verifica di vulnerabilità sismica della Galleria dell’Accademia di Firenze che, in quanto custode di uno dei più importanti capolavori della scultura cinquecentesca quale il David di Michelangelo, ha un ruolo prioritario nell’attività di tutela del patrimonio culturale italiano.

Nell’antico rito degli uomini-albero la fusione tra la terra e l’umano

Foto da _Alberi_(di Paolo Calcagno) Il culto e il sogno, l’immaginario e il reale, il paesaggio e il personaggio, Shakespeare e la Basilicata. Michelangelo Frammartino, 45 anni, regista calabrese di formazione milanese (“Il dono”, Le quattro volte”), all’originalità dei temi che racconta associa il fascino e la profondità di una ricerca stilistica che punta a destrutturare le forme narrative, ad allentarne i bordi e a violare i confini dei linguaggi espressivi, com’è spesso tipico, arditamente e irriverentemente tipico, di chi proviene dalla Videoart. La sua cineinstallazione “Alberi”, dopo i trionfi al Moma di New York e nelle gallerie d’arte di Copenaghen, è il pezzo pregiato di Filmmaker, storico Festival di ricerca (Milano, fino all’8 dicembre) che il direttore Luca Mosso ha opportunamente dedicato al ricordo di Paolo Rosa, artista e maestro di “Studio Azzurro”, scomparso l’estate scorsa.
Significativamente collocata nella sala del cinema Manzoni, riaperta per l’occasione e già destinata alla trasformazione in spazio per il mondo degli affari e della merce, “Alberi” ci porta nei boschi della Basilicata per raccontarci il rito dei “romiti”, gli uomini-albero di Satriano della Lucania che, secondo il culto arboreo di origine medievale, nel periodo di Carnevale si vestivano interamente di edera e impugnando un bastone rivestito di un ramo di ginestra bussavano alle porte del paese per chiedere l‘elemosina. “Era un modo per mendicare senza perdere la faccia, di trovare una solidarietà con i paesani sotto mentite spoglie –spiega Michelangelo Frammartino -. L’uomo-albero appartiene a una tradizione ormai in abbandono. Nel 2011, a Satriano, qualche romito sfilava tra le maschere di “Scream” e di Obama. Il rito non esiste più. Così ho pensato di ricrearlo, ma reinventandolo in direzione della collettività: invece di uno o due romiti, ne ho vestiti cento e ho chiesto loro di dirigersi in processione verso il centro del paese e di occupare interamente la piazza, trasformando in una specie di foresta il luogo pubblico per eccellenza. Non è un’operazione-nostalgia quanto il tentativo di eliminare i confini, rompere le distanze tra uomo e paesaggio“.
Dal buio della notte nei boschi di faggio alle prime luci dell’alba fino alla scoperta della presenza di un villaggio isolato, dalle porte delle case escono uomini che in processione raggiungono il bosco. Lì si vestiranno di edera, trasformandosi in romiti, uomini-albero che celebrano la fusione di umano e vegetale, la fusione dell’uomo con la terra, il cosmo, il Tutto. Terminata la vestizione, i romiti come un esercito vegetale, tornano nel paese fino a affollare la piazza centrale. La loro moltitudine danzante finirà però per ingoiarci e riportarci nelle tenebre iniziali, dalle quali si uscirà con una nuova alba, in un loop senza fine che permette allo spettatore di determinare l’inizio e la fine del film.
Le immagini di Frammartino, di chiari riferimenti scespiriani (“la foresta che cammina”, il fitto bosco di faggi), sostenute da efficaci tracce sonore, producono effetti immersivi nello spettatore che conducono all’assopimento e al “sogno”. Il verde che stordisce della natura si cala sullo schermo nel buio della notte completando l’illusione narrativa con l’eliminazione della distanza tra paesaggio e personaggi. “Il mio lavoro filmico – conferma Frammartino – punta a raccontare l’indebolimento del soggetto in funzione di una maggiore ricchezza interpretativa. Se nell’inquadratura la distanza tra figura e paesaggio sfuma fin quasi a scomparire, sono i parametri primi dell’immagine che vengono a cadere. E allo spettatore tocca vivere uno spaesamento molto costruttivo che parte dalla decostruzione della visione e giunge verso nuove prospettive di visione“.

“Alberi”, regia di Michelangelo Frammartino. Italia, 2013

Monografia dedicata a Beppe Giacobbe a alla sua ironica visione del mondo

image002In questa prima monografia, “Visionary Dictionary: Beppe Giacobbe from A to Z”, dedicata al lavoro di Beppe Giacobbe, lui stesso ci ricorda che “fare l’illustratore è un servizio”. I suoi disegni ironici, concettuali, provocatori e ambivalenti, dimostrano la sua grande capacità di risolvere problemi visuali. Come una colonna sonora di un film, le illustrazioni di Giacobbe danno forma al mood di un testo, avvertendo eventuali tensioni, contraddizioni e disagi: un ebreo ortodosso seduto su un rotolo di filo spinato, un astronauta che porta un secchio con dentro l’universo, una macchina sportiva con lumache al posto delle ruote. Con grande sobrietà e leggerezza Beppe Giacobbe offre una visione del mondo che ci invita a riflettere sullo stato delle cose. Una raccolta di oltre 250 illustrazioni, suddivise per argomenti chiave – assenza, speranza, identità, ecc. – ordinati alfabeticamente come in un dizionario “visionario”, appunto. Fedeli al concetto di servizio anche nella consultazione, sarà così possibile comprendere meglio il punto di vista dell’autore, la genesi di uno stile figurativo che ha fatto e continua a fare scuola, anche tra le generazioni più giovani.

“Visionary Dictionary: Beppe Giacobbe from A to Z” – Illustrazioni di: Beppe Giacobbe – Intervista di: Matteo Bologna. Testi di: Gianluigi Colin, Paolo Di Stefano, Edgardo Franzosini, Charles Hively, Marina Mander. – edizione inglese/italiano – pagg 288, euro 55, Editore Lazy Dog Press.
Il libro è disponibile da dicembre 2013 su www.lazydog.eu
e in alcune librerie selezionate in Italia e all’estero