Judi Dench diverte e commuove nella ricerca del figlio strappatole cinquant’anni prima

Judi Dench e Steeve Coogan in una scena di "Philomena", di Stephen Frears

Judi Dench e Steeve Coogan in una scena di “Philomena”, di Stephen Frears


(di Paolo Calcagno) Non sono molti i registi che riescono a raccontare in maniera avvincente stranote vite di personaggi storici (mi riferisco a “The Queen”) liberandole dalla polvere dei cliché martellanti con cui vengono imposte dai media, o ignote esistenze, “regine” delle pagine strappalacrime dei tabloid inglesi, elevandole con rara efficacia narrativa a simboli critici dell’ipocrisia clericale e a esempi quasi inarrivabili dell’amore e del perdono. Nel secondo caso, mi riferisco a “Philomena”, il film di Stephen Frears (già autore di “My beautiful laundrette”, “Le relazioni pericolose”, “The van”), premiato alla Mostra di Venezia 2013 per “la migliore sceneggiatura”, scritta peraltro dal protagonista maschile e produttore del film, Steeve Coogan. In entrambe le occasioni, il maestro britannico del grande schermo, due volte candidato all’Oscar, ha fatto perno su interpreti di straordinario talento, quali Helen Mirren (premio Oscar per “The Queen”) e Judi Dench (candidata all’Oscar, già conquistato con la sua interpretazione in “Shakespeare in love”, con una delle 6 precedenti nomination), divenuta popolarissima con il ruolo di “M”, il capo di James Bond, in vari film sul mitico “007”.
Philomena Lee è ancora un’adolescente irlandese di estrazione popolare quando scopre i piaceri del sesso cui si abbandona con il suo giovane moroso. Purtroppo, la fanciulla rimane incinta, il fidanzatino se la squaglia e la famiglia per nascondere lo scandalo la manda in convento, a Roscrea. Affidata completamente al severo sistema educativo delle suore, la ragazza partorisce Anthony che le viene concesso solamente per un’ora al giorno, durante una pausa dal suo massacrante lavoro di lavandaia del convento. Le ragazze-madri rinchiuse a Roscrea scoprono ben presto che i loro bambini vengono, sì, aiutati a venire al mondo e allevati fino alll’età di tre anni per poi essere “venduti” a facoltose famiglie, spesso straniere, che visitano il convento con la superficialità mondana con cui si frequentano gli allevamenti di cani o di cavalli. Anche Anthony viene strappato con autoritaria inappelabilità all’amore di Philomena e ceduto a una ricca famiglia americana. Siamo in Irlanda, nel 1952, non nel medioevo, quando questa storia accadde realmente per, poi, essere raccontata nel romanzo di Martin Sixsmith “The lost child of Philomena Lee” (in Italia, divenuto “Philomena” e pubblicato da Edizioni Piemme). Invano, da adulta, Philomena cercherà di rintracciare il suo Anthony: le suore di Roscrea non esiteraanno a respingere i suoi legittimi tentativi di avvicinamento al figlio perduto con crudeli bugie su un incendio che aveva ingoiato documenti e certificati, tranne l’illegale contratto di rinuncia a pretese sul bambino, anche negli anni a venire, sottoscritto dalla protagonista del commovente caso. Cinquant’anni dopo, l’ormai anziana signora irlandese incontra un disincantato giornalista in disgrazia, costretto per motivi politici a lasciare il suo lavoro di corrispondente estero della Bbc e di malavoglia divenuto collaboratore di una rivista specializzata in storie di vita vissuta.
Steve Coogan, distintosi in ruoli brillanti sugli schermi e sui palcoscenici britannici, è irresistibile nell’interpretazione del giornalista snob che si degna di seguire la vicenda di cronaca vera, ma non dimentica mai di citare il suo nobile passato di “ex Bbc, ora non più”. Ma contagiosa è anche l’empatia con cui Coogan fa avvicinare umanamente il giornalista a Philomena, via via che la vicenda scorre. E, certo, la prova d’attore di Steve Coogan è elemento fondamentale in questo film, oltre alla maestria narrativa di Stephen Frears, delicato e premuroso nel riprendere la spontaneità e la semplicità di Philomena, scrollando di qualsiasi melassa la sua candida caparbietà nel voler scoprire il destino del figlio; e oltre al talento da attrice di razza di Judi Dench che ci conquista con l’entusiasmo del personaggio (Philomena si eccita infantilmente sulla piccola vettura da trasporto dell’aeroporto e la paragona all’auto scoperta del Papa) e ci commuove con la sua devozione religiosa che le consente di accettare l’immenso dolore che le riserva la sua appassionata ricerca e di perdonare le suore che hanno manovrato il caso con protervia e violenza integraliste da Santa Inquisizione. Non ci sembra giusto per chi vorrà vedere il film di Frears riferire i dettagli dello sviluppo della storia di “Philomena” che, pur senza essere un capolavoro, si distingue per essere un film ottimo, sostenuto da una sceneggiatura precisa ed efficace nell’alternare il divertimento godibile della commedia all’intensità coinvolgente del dramma.

“Philomena”, di Stephen Frears, con Judi Dench e Steeve Coogan. Gran Bretagna 2013

Esposta a Torino – a Palazzo Madama – fino al 23 febbraio 2014 la “Sacra Famiglia” di Raffaello

Dal 21 dicembre al 23 febbraio, Palazzo Madama ospiterà la “Sacra Famiglia” di Raffaello appartenente alle collezioni del Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. Dipinta probabilmente intorno al 1506, dopo l’arrivo a Firenze di Raffaello, l’opera è stata identificata con uno dei due “quadri di Nostra Donna” che Giorgio Vasari segnala tra quelli realizzati per Guidobaldo da Montefeltro, duca di Urbino. Perfetto equilibrio di forme, proporzioni, prospettiva e colori, il capolavoro di Raffaello ha sempre sollecitato artisti e letterati, come ben testimonia un passo dello scrittore francese Honoré de Balzac: “Ogni figura è un mondo, un ritratto il cui modello apparve in una visione sublime, intriso di luce, designato da una voce interiore, tracciato da un dito celeste” (1832). L’opportunità di vedere a Torino questo dipinto nasce da un più ampio programma di collaborazione tra le due istituzioni museali: mentre il dipinto di Raffaello sarà a Torino, un’altra grande opera del Rinascimento italiano, il “Ritratto d’uomo” di Antonello da Messina, appartenente alle raccolte di Palazzo Madama, è esposto a San Pietroburgo, in uno scambio finalizzato a sottolineare i rapporti di collaborazione culturale e scientifica tra le due istituzioni. La “Sacra Famiglia” arrivò in Russia nel 1772, acquistata dall’imperatrice Caterina II e nel 1827 fu oggetto di restauro con il trasferimento della pittura dalla tavola alla tela.

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica. Piazza Castello, Torino.

Vassily Kandinsky: a Milano la vita e le opere di un eclettico artista senza confini

Quadro con macchia rossa (1914), olio su tela, cm 130x130

Quadro con macchia rossa (1914), olio su tela, cm 130×130

(di Patrizia Pedrazzini) Non sono molti gli artisti che sono riusciti, nel corso della loro esistenza, a vivere come cittadini di tre Stati diversi. Vassily Kandinsky è stato uno di questi: nato in Russia, a Mosca, nel 1866; celebrato come tedesco al Bauhaus, la prestigiosa scuola di architettura, arte e design che fiorì in Germania fra il 1919 e il ’33; morto francese a Neuilly-sur-Seine, poco fuori Parigi, nel 1944. Un artista senza confini, il cui cammino di viaggiatore, di esploratore di culture, di analista delle ragioni che muovono linee e colori, viene ora riproposto, e ripercorso, nell’ambito della mostra che Milano gli dedica nelle sale di Palazzo Reale. Una grande retrospettiva monografica che, attraverso più di ottanta opere (oli, litografie, xilografie, tempere, linoleografie, linoleum, inchiostri, grafiti, acquerelli, guazzi, puntasecca), provenienti dalla Collezione del Centre Pompidou, racconta, toccandone in ordine cronologico i periodi principali della vita, il viaggio artistico e spirituale di uno dei pionieri dell’arte astratta. Da quando, nel 1896, fresco di studi di economia e diritto romano e russo all’Università, rimane “folgorato” dalla visione de “I covoni” di Claude Monet nella mostra degli Impressionisti che si tenne quell’anno a Mosca, alle esperienze raccolte negli anni trascorsi qua e là in Europa nei decenni fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, fra Rivoluzione russa e affermazione del Nazismo, in un turbine di conflitti, venti di rivolta, instabilità. Ma anche, inevitabilmente, di nuove idee e nuove visioni, a contatto con le quali Kandinsky sviluppa il proprio pensiero artistico, che abbraccia peraltro più campi, dalla pittura alla musica al teatro. Nei quali cerca e difende lo “spirituale nell’arte”, come recita il titolo del suo scritto fondamentale (pubblicato a Londra nel ’14), dove affronta lucidamente, sul piano teorico, il rapporto tra forma e colore, e quello, per lui fondamentale, tra colore e suono, alla base dell’astrazione.

Senza titolo (1917), olio su tela, cm 27.5x31.5

Senza titolo (1917), olio su tela, cm 27.5×31.5

L’esposizione milanese ripercorre tutto questo. A partire dalla prima sala, rivestita di pitture parietali, per passare alle quattro vere e proprie sezioni della mostra (che a loro volta si sviluppano in otto sale): l’esperienza di Monaco (1896 – 1914), il ritorno in Russia (1914 – 1921), gli anni del Bauhaus (1921 – 1933), la permanenza a Parigi (1933 – 1944). Un percorso di evoluzione artistica che è già di per sé un viaggio, verso cambiamenti sempre più marcati e significativi, ma anche sempre ognuno nel solco della stagione precedente. E senza mai abbandonare le radici della tradizione russa. Ecco allora, dopo i primi studi artistici all’Accademia di Monaco, i paesaggi post-impressionistici e le tempere ispirate all’arte “popolare” del Paese natale. Ma anche un’opera come “Improvvisazione III”, del 1909, che già segnala il passaggio verso l’astrattismo. Ecco “Quadro con macchia rossa”, del 1914, l’anno nel quale lo scoppio della Grande Guerra lo costrinse a rientrare a Mosca. E l’ultimo dipinto berlinese, “Sviluppo in bruno”, del ’33, quando già sapeva di dover lasciare la Germania. Fino ad “Accordo reciproco” (1942), nel quale si leggono due figure, una maschile l’altra femminile, che venne esposto accanto al letto di morte del Maestro per volere della moglie Nina. La stessa che, fra il ’76 e l’81, fece dono della collezione al Centre Pompidou.

“Vassily Kandinsky. La collezione del Centre Pompidou”. Milano, Palazzo Reale, fino al 27 aprile 2014. Informazioni:  Vassily Kandinsky

Disegni, incisioni e stampe di artisti delle Venezie del primo 900 in mostra agli Uffizi

Guido Balsamo Stella (1882-1941) “Attitudini di difesa” (Amazzone), 1913 - Acquaforte

Guido Balsamo Stella (1882-1941) “Attitudini di difesa” (Amazzone), 1913 – Acquaforte


A Firenze, nella Sala Edoardo Detti del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi – sotto la direzione di Marzia Faietti e di Giorgio Marini – è stata inaugurata la mostra “Una novella patria dello spirito. Firenze e gli artisti delle Venezie nel primo Novecento”. Rimarrà aperta fino al prossimo 9 febbraio 2014. Con questa mostra si è inteso indagare e valorizzare la speciale attrazione esercitata dalla città di Firenze su molti artisti veneti, friulani e giuliani nei primi decenni del Novecento, quando il capoluogo toscano rappresentò per molti aspetti la sintesi più compiuta della cultura italiana, e non solo figurativa e letteraria. Ne emerge quell’arte del “Bianco e Nero” che proprio allora andava ricevendo nuovo impulso grazie anche ai molti artisti, attirati dal fascino del glorioso passato d’arte della città. Essi contribuirono alla sorprendente vitalità di una stagione particolarmente felice per l’incisione: basti citare la Scuola d’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti, guidata da Carlo Raffaelli e poi da Celestino Celestini che, raccogliendo l’eredità di Fattori, avviò nel 1912, prima in Italia, corsi ufficiali, o la Prima Esposizione Internazionale di Bianco e Nero (1914), e ancora la Seconda Esposizione Internazionale dell’Incisione Moderna (1927), esperienze tutte che fecero di Firenze, per alcuni lustri, l’autentica capitale dell’incisione in Italia. La città viveva la stimolante fioritura delle riviste storiche d’inizio secolo accogliendo un gruppo di intellettuali che dalle regioni non ancora “redente” vi convergevano seguendo il richiamo di una comune cultura “italiana”.
Carlo Cainelli (1896-1925) “Interno di caffè”, 1920 - Acquaforte e acquatinta

Carlo Cainelli (1896-1925) “Interno di caffè”, 1920 – Acquaforte e acquatinta


Ai nomi più noti di Saba, Slataper, Stuparich o Michelstaedter tra i letterati, fanno riscontro quelli dei giovani artisti loro conterranei che vi inseguivano la ricerca di un’identità culturale, trovandovi in alcuni casi una nuova patria d’elezione. Il più emblematico resta quello di Giannino Marchig, ma vanno ricordati anche Rietti, Croatto e Sbisà, cui si aggiunsero i trentini Disertori e Cainelli, e ancora Bianchi Barriviera e Balsamo Stella dal Veneto. La maggior parte di essi trascorse a Firenze gli anni fondamentali della propria formazione, con la conseguenza che molte delle loro opere furono acquisite direttamente alla loro epoca, mentre altre sono frutto di acquisizioni anche molto recenti. Il percorso muove attraverso 66 opere su carta, tra disegni e stampe, che rivelano come nella dimensione intima della lastra o del foglio questi artisti abbiano saputo sintetizzare in maniera mirabile i temi del ritratto, della figura e del paesaggio. Pur con percorsi diversi, tutti trovarono nella speciale valenza “segreta”, lenta e di meditata pazienza della pratica incisoria uno strumento consono a esprimere un loro personale “sentimento del tempo”, per molti ancora sotto gli influssi delle poetiche simboliste.