Vladimir Putin e Enrico Letta ratificano a Trieste l’intesa “Ermitage Italia” che avrà sede a Venezia

Nell’ambito del vertice governativo italo-russo che si è tenuto martedì 26 novembre a Trieste, alla presenza del presidente russo Vladimir Putin e del Premier italiano Enrico Letta, è stato ratificato il Protocollo d’Intesa per l’apertura del Centro Scientifico Culturale “Ermitage Italia” a Venezia. Annunciata nel luglio scorso, e quindi siglata a San Pietroburgo, l’intesa è stata inserita tra gli accordi bilaterali tra i due Stati quale unico protocollo specifico di carattere culturale. A Palazzo della Regione a Trieste, dove si sono riunite le delegazioni governative per la firma degli accordi e dei protocolli tra i due Stati, la Città di Venezia e il Museo Statale Ermitage, hanno riaffermato la comune volontà di rinnovare “le attività scientifiche culturali e organizzative della Fondazione Ermitage Italia attraverso il Centro Scientifico e Culturale ‘Ermitage Italia’, promotore il Comune di Venezia. “Ermitage Italia”, centro di studi e ricerche per lo sviluppo delle relazioni culturali tra Italia e Russia e lo studio dell’arte italiana in Russia, avrà dunque sede nel cuore della città lagunare nelle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco e da qui svolgerà la sua attività sul territorio nazionale. “Dopo il lavoro svolto insieme in questi anni – ha commentato il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni – sono felice che sia riconosciuto anche a livello governativo un impegno importante che è stato sostenuto sia dal Museo Statale Ermitage sia dalla Città di Venezia, e ci auguriamo che questo riconoscimento permetta di sviluppare i progetti in atto e i tanti che ancora vogliamo avviare”. Tra gli impegni già annunciati dal Sindaco di Venezia e dal Direttore dell’Ermitage, un convegno internazionale, in programma la prossima primavera nella città lagunare, sullo stato dei musei nel nuovo secolo, in cui i direttori delle principali Istituzioni europee si confronteranno alla luce dei 250 anni dell’Ermitage – che ricorrono proprio nel 2014 – e della peculiarità del sistema museale italiano.

L’ex Commissario Montalbano indaga sui presunti crimini del grande musicista Furtwängler

Milano. Massimo De Francovich e Luca Zingaretti in una scena di “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood, al Piccolo Teatro Strehler (foto Buscarino)

Milano. Massimo De Francovich e Luca Zingaretti in una scena di “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood, al Piccolo Teatro Strehler (foto Buscarino)

(di Paolo A. Paganini) Luca Zingaretti, sul pascoscenico del Piccolo Teatro Strehler, voleva far dimenticare il celebre Commissario Montalbano della fortunata serie televisiva di Camilleri? Missione compiuta. Nel dramma “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood (debutto a Londra nel 1995 regia di Pinter, e poi sul grande schermo, 2002, regia Istvan Szabò), Zingaretti sostiene il ruolo del Maggiore Steve Arnold. Incaricato dal comitato americano per la denazificazione, dopo la fine della guerra, nel 1945, deve stabilire se, fra tanti altri fiancheggiatori inquisiti, più o meno compromessi con il nazismo, anche il famoso direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, amato da Hitler, caro a tutti i gerarchi, avesse avuto responsabilità politiche come occulto e mai dichiarato sostenitore dei crimini nazisti.
Teatro inchiesta, affascinante dramma di parola, “La torre d’avorio”, nei due atti di quasi un’ora ciascuno, tiene inchiodati gli spettatori in platea in una tensione emotiva ad alto voltaggio, mentre il Maggiore Arnold tenta a sua volta d’inchiodare il celebre direttore d’orchestra alle sue presunte responsabilità. Né sembrano avere importanza le testimonianze a favore di Furtwängler a dimostrazione dei tanti aiuti da lui dati a molti ebrei, così salvandoli dalle camere a gas. Per il tenace Maggiore erano solo alibi e copertura della sua cattiva coscienza.
Ma, al di là della vicenda reale, l’avvincente dibattito teatrale sta, soprattutto, su due punti fondamentali, uno pregiudiziale, l’altro morale. L’aspetto pregiudiziale è nella domanda, implicita e non dimostrata: Furtwängler non sapeva o non voleva sapere? La risposta riposa in aeternum nella coscienza del direttore d’orchestra. Ma è il punto morale, quello fondamentale, quello più intrigante, sul quale può calare non il giudizio della Storia ma l’opinione di ciascuno di noi. Vale a dire: quando tanti intellettuali, tanti artisti tedeschi, dopo il 1933, preferirono lasciare la Germania, o per evitare persecuzioni o per non avere niente a che fare con il nazismo, lui, Furtwängler, perché preferì rimanere in patria? La musica, la grande musica del repertorio romantico, di Beethoven, di Brahms, di Bruckner, soprattutto di Wagner, sotto la direzione di Furtwängler, già direttore del Gewandhaus di Lipsia e poi del Berliner Philarmoniker, era da considerarsi fiore all’occhiello del nazismo o diritto dell’artista di poter considerare l’arte separata dalla politica?
La musica, viatico consolatorio di elevazione spirituale, era dunque la religione laica che non solo giustificava ma gli imponeva, come dovere morale, di rimanere nella sua terra per continuare a dare una sublimazione liberatoria, al di là delle patrie, al di là della patria, nell’empireo della bellezza musicale, in un oblio lontano dalle atrocità quotidiane, svincolato dai crimini nazisti? La musica, con i suoi ideali attributi di purezza e innocenza, può convivere ed essere superiore al clima del terrore alla violenza politica, o poteva, involontariamente o forse consciamente, essere ritenuta complice, colpevole, corresponsabile?
È ciò che tenta di stabilire il Maggiore Arnold, dedicandosi, con una cocciutaggine odiosa e persecutoria, più da musicofobo che da inquisitore, spregiatore di ogni forma minimamente corretta, volgare fino alla nausea, ma nella buonafede di un redivivo Javert in carne ed ossa, fanaticamente implacabile, per amor di giustizia (umanità e generosità non c’entrano), nel perseguitare, per i suoi peccati di gioventù, l’umanissimo e generoso Jean Valjean de “I miserabili”. E allora aggiungiamo che qui, il nostro ex Montalbano, che s’è assunto anche la responsabilità della regia, è straordinariamente convincente e ricco di sfumature espressive, capace, perfino, di insinuare un sospetto di innocenza e di timidezza in questo difficile personaggio, scorbutico e antipatico.
Massimo De Francovich è un Furtwängler di superba dignità interpretativa nella sua “torre eburnea” (da qui il titolo del dramma), conscio della propria grandezza d’artista (in realtà Furtwängler fu il più grande direttore d‘orchestra della sua epoca, forse superiore a Toscanini, a De Sabata, a Von Karajan, tutti presenti nei riferimenti drammaturgici). Tutti gli altri, ugualmente di grande eccellenza interpretativa: Paolo Briguglia (il tenentino critico nei confronti dei metodi di Arnold), Caterina Gramaglia (la modesta stenografa, figlia d’un eroe di guerra), Gianluigi Fogacci (infido verme opportunista), Francesca Ciocchetti (intensa e alterata vedova d’un pianista ebreo). Pubblico partecipe ed entusiasta. E moltissimi giovani. Bene.
Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano – Repliche fino a domenica 8 dicembre.

A Firenze giornata di studio e concerto per d’Annunzio al Museo di Casa Martelli

Giovedì 28 novembre al Museo di Casa Martelli (via Zannetti 8, Firenze), sarà celebrato il centocinquantenario della nascita di Gabriele d’Annunzio (Pescara 12 marzo 1863 – Gardone Riviera 1 marzo 1938). Il programma dell’iniziativa prevede una giornata di studio e un concerto. Alle 16, dopo le introduzioni del Soprintendente Cristina Acidini, del Direttore dei Casa Martelli, Monica Bietti, e del Vice presidente dell’Ente Cassa di Risparmio, Pierluigi Rossi Ferrini, promotore e sostenitore dell’iniziativa, si susseguiranno gli interventi di Carlo Sisi (Consigliere dell’Ente Cassa di Risparmio), di Claudio Paolini (Sprintendenza Beni Architettonici) che parlerà de “La Capponcina: un arredo in forma di romanzo”; di Marco Marchi (Università di Firenze) che tratterà de “Lo sguardo e i simboli. Con d’Annunzio alla Capponcina”; quindi lo storico dell’arte Andrea Baldinotti parlerà su “Gabriele d’Annunzio, Camillo Biondi, la Manifattura di Signa. Da un epistolario inedito”; a seguire Simona Costa (Università di Roma Tre) chiuderà gli interventi parlando de “Il mago della Capponcina: tra parola e musica, verso un’arte totale”. La seconda parte della giornata prevede alle 20.45 un concerto del mezzosoprano Silvia Regazzo, con Daniela Costa al pianoforte, che prevede romanze di Francesco Paolo Tosti (1846-1915) su liriche di Gabriele d’Annunzio. L’iniziativa è a ingresso libero, fino a esaurimento dei posti disponibili.

Due dolorosi casi psichici secondo Freud (e Lorenzo Loris) in scena all’Out Off

Milano. Patrizia Zappa Mulas interpreta all’Out Off un classico caso di isteria in “Prodigiosi deliri”.

Milano. Patrizia Zappa Mulas interpreta all’Out Off un classico caso di isteria in “Prodigiosi deliri”.

(di Paolo A. Paganini) “Prodigiosi deliri”, con Mario Sala e Patrizia Zappa Mulas, che Lorenzo Loris ha voluto mettere in scena e “analizzare” nella milanese sala dell’Out Off (un’ora e 15 senza intervallo), sfugge a un tradizionale giudizio critico, sia per la sua specificità scientifica, sia per una sua impossibile classificazione come genere teatrale. Lo spettacolo – per comodità continueremo a chiamarlo così – porta come sottotitolo “Ispirato a due studi di Sigmund Freud e Ludwig Binswanger”. Qui sorge la prima difficoltà interpretativa. Quali sono i confini dell’”ispirazione”? Spieghiamoci. Se si riproduce in laboratorio la sintomatologia di una situazione patologica, ciò rientra nella sperimentazione o nell’ispirazione?
Ebbene, qui, ora, nel “laboratorio” scenico dell’Out Off, è stata inscenata la simulazione di due pazzie, di due casi realmente studiati dai due studiosi del titolo. Non ispirazione, dunque, ma “scientifica” rappresentazione e analisi di due precisi casi clinici. Ed è talmente vero il nostro assunto che la programmazione dello spettacolo “Prodigiosi deliri” avrà come corollario, da qui a quasi tutto dicembre, una serie di specifici studi e di pertinenti letture a latere. Ci saranno primari di psichiatria (Leo Nahon), psichiatri (Sergio Contardi e Giovanni Sias), filosofi della Scienza (Stefano Moriggi), docenti di filosofia teoretica (Federico Leoni). E poi: letture e commenti di brani classici con attori e studiosi, da Laura Marinoni a Luca Ronconi, da Carlo Cecchi a Giorgio Fabbris ed altri.
Veniamo ai due casi in questione come ricaviamo dal programma di sala. Daniel Paul Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figlio d’un rigido educatore, ebbe, a 51 anni, nel 1893, una grave crisi nervosa, che lo portò a un “prodigioso delirio”: sentiva voci, parlava con presenze divine e con fenomeni naturali, sognava una forma di ermafroditismo per concupirsi in copula autogena, in una delirante psicosi, che volle addirittura mettere per iscritto nei più reconditi e descrittivi particolari. Dell’importanza di questi scritti si accorse appunto Freud, e da questa descrizione (ispirazione?) ha preso l’avvio all’Out Off il monologo di Mario Sala. Semplicemente eccezionale: per stupefacente abilità mnemonica, per ancor più sbalorditiva velocità eloquiale, per capacità di calarsi in una attendibile mimesi paranoica. Il secondo monologo, in successione, vede Patrizia Zappa Mulas calarsi nella giovane Ellen West, distrutta fisicamente e mentalmente da problemi con il cibo e con la realtà. Il tremito, l’instabilità psichica, l’isteria allucinata sono realisticamente adottati dall’attrice, che ne fa una dolorosa e suggestiva partecipazione interpretativa, fino a una specie di tripudio dei sensi in una lucida esaltazione poetica, per concludersi subito dopo nel suicidio. Dolcissima e dolorosamente patetica. Ma dove vedeva l’aspetto comico qualche spettatore? Mah.
Repliche fino a domenica 22 dicembre.