Il gusto napoletano di Luigi De Filippo per l’operetta e il vaudeville
(di Paolo A. Paganini) Io non so se Eduardo Scarpetta, nel 1901, si sia ispirato al vaudeville e all’operetta per scrivere “Cani e gatti – Marito e moglie”. Ma Luigi De Filippo, che ora ha messo in scena questa scoppiettante commedia napoletana, forse ci ha fatto un pensierino. E comunque poco importa. Non è fondamentale e niente aggiunge alla singolare gradevolezza dell’operazione. Anche perché De Filippo, come protagonista e regista, pur rispettoso dell’ambientazione, l’ha adattata non dico ai tempi nostri ma a un certo gusto contemporaneo sul piano dei tempi comici e della velocità delle battute, che spesso sono sornione, ma il più delle volte esplosive come fuochi d’artificio. Dicevamo dell’operetta. Ebbene, qui, il porgere è ora tutto spumeggiante e operettistico: voci nitide e ben impostate. Oh dio, adesso cantano, abbiamo pensato. Ma non ce n’è stato di bisogno. La lingua napoletana è già musica, si legge su un ideale pentagramma. E poi, dicevamo, il vaudeville. Entrate, uscite, colpi di scena, personaggi che hanno qualche cadavere nascosto negli armadi, sempre per questioni di corna, prima o poi scoperte con conseguenti risse e litigi forsennati, fino al bacio finale e promesse di eterno amore (fino alla prossima occasione) di tre coppie di sposi: due freschi marito e moglie con fedelissimo apparato genitoriale di lei, alla fin fine altrettanto litigioso, più un’altra coppia: un avvocato in buonafede ma con moglie gelosamente viperina. Ecco, la commedia (due ore con un intervallo) è tutta qui, una storia di gelosie muliebri, con accattivante morale partenopea: donne, state al vostro posto, curate il desco e non rompete le scatole ai mariti, perdonando qualche scappatella. Suvvia, che è mai? La commedia scarpettiana rivela, tuttavia, un’altra qualità, altrettanto cara al gusto mediterraneo del racconto. Scavi psicologici, teorie del profondo, approfondimenti eccetera qui non sono di casa. Si racconta, si narra, si spiegano le vicende in una continua gioiosa affabulazione, che Luigi De Filippo prosegue anche a fine spettacolo, raccontando di sé, dei suoi meravigliosi 83 anni, con aneddoti e storie di famiglia. Uno spasso, e il pubblico del milanese teatro Carcano, stracolmo, se l’è goduto beato.Applausi finali per tutti (e tutti meritevoli per affiatamento, generosità e per quel certo gusto pulcinellesco della maschera e della caricatura). Almeno li nomineremo in ordine di apparizione: Fabiana Russo, Vincenzo De Luca, Claudia Balsamo, Riccardo Feola, Giorgio Pinto, Michele Sibilio, Lorena Semeraro, Luca Negroni, Stefania Aluzzi, Stefania Ventura, Luigi De Filippo, Francesca Ciardiello, Paolo Pietrantonio. Un’ultima considerazione sul diritto degli attori di essere almeno nominati. E’ assolutamente disdicevole (prassi sempre più diffusa) che non venga pubblicato non dico un programma di sala (con i tempi che corrono…) ma almeno un foglietto da distribuire in sala. A chi tocca? Al teatro o alla compagnia? Si replica fino a domenica 20.
E con la regia di Giorgio De Lullo i “Sei personaggi” divennero un archetipo

Fabio Poggiali ha potuto consultare archivi pubblici e privati,ha dato ordine storiografico a questo materiale e ci ha “raccontato”, non solo la storia delle regie pirandelliane di De Lullo,ma anche la storia di un momento tanto particolare quanto esaltante della storia del teatro italiano.
”Giorgio De Lullo, regista pirandelliano”, di Fabio Poggiali, Ed. Mimesis, 2013, p330, euro 26
Un libro per ricordare quella notte bianca in onore di Giuseppe Pontiggia
(di Piero Lotito) Fanno un bel coro, 45 voci. E se parliamo di voci di amici, vuol dire che il canto sale più forte, quando si tratta di ricordare chi non c’è più. Così per Giuseppe Pontiggia, che per questo coro è rimasto semplicemente «il Peppo». Un bel libro, curato da Daniela Marcheschi, raccoglie il pensiero (oggi si è fissati con il temibile termine “testimonianza”) di chi Pontiggia lo ha frequentato, gli ha voluto bene, ha letto le sue opere.
“Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca” è il titolo del volume, che in copertina richiama il 21 giugno scorso, quando quegli amici e moltissimi altri si ritrovarono alla Libreria Popolare di via Tadino, accomunati dall’affetto per l’uomo (il Peppo, appunto) e dall’ammirazione per lo scrittore.
Dopo aver prima gioiosamente chiacchierato tra gli scaffali e poi sul marciapiede lì avanti, i lettori del Peppo – perché tutti lo sono rimasti -, si radunarono in una sala e raccontarono ciascuno il proprio Pontiggia. Chi emozionandosi, chi allegramente, chi scientificamente. Nella Notte Bianca quel coro evocò la sapienza, il sapere, lo stile, l’umorismo (anche qui, chissà perché, oggi si preferisce il più acuminato “ironia”) e l’umanità di uno scrittore che diventa, col tempo che passa, ogni giorno più grande agli occhi di chi ama più la letteratura che non la pubblicistica. C’erano quella sera anche Lucia, la moglie del Peppo, e Andrea, il figlio. Il libro, uscito da pochi giorni, ben restituisce il calore dell’incontro, con il polifonico ricordo di personaggi dell’editoria, ma anche – doppiamente prezioso – di «uomini non illustri», a Pontiggia così cari.
“Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca “- Guido Conti Editore GuaraldiLAB – pagine 140, euro 12. In vendita alla Libreria Popolare di via Tadino 18, Milano.
A Brera la grandiosa teatralità della pittura lombarda del Seicento
(di Patrizia Pedrazzini)
Inginocchiata su un prato punteggiato di mughetti, iris, campanelle, narcisi, peonie, primule, garofanini e tulipani, Maria di Magdala è vestita e acconciata come una dama del tardo Cinquecento. Abito in seta rosa cangiante, ampia scollatura rifinita d’oro e perle, camiciola bianca con maniche a sbuffo, manto in broccato bianco e rosso su fondo oro bordato in seta color pavone. I lunghi capelli, biondi e ricci, sono un po’ sciolti, un po’ raccolti in trecce avvolte intorno al capo, e impreziosite da un nastro azzurro. Davanti a lei, in piedi, Cristo dopo la Resurrezione. Il corpo, atletico e flessuoso secondo il modello maschile codificato da Prassitele, traspare appena sotto la leggera stoffa del sudario bianco. Ha le stigmate, e guarda intensamente la donna sottolineando, con le mani e le braccia, la volontà di non essere trattenuto.“Noli me tangere”, della pittrice milanese Fede Galizia (che la realizzò nel 1616) è una delle quattro grandi pale d’altare (le altre portano la firma di Carlo Francesco Nuvolone, del fratello Giuseppe e di Giovan Battista Crespi, detto il Cerano) che compongono, insieme ad altri 42 dipinti, la mostra “Seicento lombardo a Brera. Capolavori e riscoperte”, allestita alla Pinacoteca e curata da Simonetta Coppa e Paola Strada.
Un ricco patrimonio normalmente conservato nei depositi, a causa della drammatica mancanza di spazio del museo milanese, e perciò da anni nascosto alla vista del pubblico. Ma soprattutto una “carrellata” sui principali protagonisti dell’arte pittorica del XVII secolo in Lombardia, dall’età del cardinale Federico Borromeo (che fu arcivescovo di Milano dal 1594 al 1631) alla svolta classicista della Seconda Accademia Ambrosiana (attiva per tutto il Settecento).
Opere di grandi dimensioni, ma anche dipinti di soggetto sacro di piccolo e medio formato (tra i quali il bozzetto per una pala d’altare della Certosa di Pavia di Morazzone); ritratti e autoritratti di pittori milanesi appartenuti al cosiddetto “Gabinetto de’ ritratti”; nonché tre oli su tela realizzati per la Sala dei Senatori di Palazzo Ducale (oggi Palazzo Reale) a Milano. Fra questi ultimi, la “Andata al Calvario” di Daniele Crespi (morto, come anche Fede Galizia, in seguito alla peste manzoniana del 1630), sorta, per le sue caratteristiche, di filo conduttore dell’intera esposizione.
Specchio di un clima culturale ancora permeato dal rigore riformista, ispirato al Concilio di Trento, del cardinale Carlo Borromeo (arcivescovo fra il 1561 e il 1584), il dipinto del Crespi si distingue non solo per la fierezza e la crudeltà della scena, ma soprattutto per la facile comprensione dei sentimenti e per la chiarezza delle pose, che conferiscono al fatto evangelico la potenza drammatica di una rappresentazione scenica. Una teatralità, una ricchezza di effetti scenografici e luministici, dalle quali traspare l’enorme influenza che, in età spagnola, ebbe a Milano la grande diffusione della drammaturgia, sostenuta e propagata nelle strade, nei chiostri, nelle chiese, dagli stessi ordini religiosi, che fecero del teatro uno dei maggiori strumenti di comunicazione del tempo. Delle 46 opere che compongono la mostra, 21 sono destinate a essere esposte nell’ambito del futuro progetto museale “Grande Brera”.