Dalle pitture vascolari alla fotografia digitale, l’importanza della iconografia per meglio conoscere il teatro del passato

(di Andrea Bisicchia) – L’iconografia è stata, sempre, una fonte per riguardare le arti del passato e lo è stata, in particolare, per il teatro, dato che, ad essa, sono spesso ricorsi gli storici per ricostruire, insieme ai testi, le particolarità sceniche che hanno caratterizzato le messinscene del tempo, pertanto la documentazione figurativa, costituita da pitture vascolari, illustrazioni, immagini pittoriche è stata determinante per meglio conoscere le tragedie antiche, la Commedia dell’Arte, le interpretazioni degli attori, con i loro costumi d’epoca, finalizzate a meglio conoscere il rapporto esistente tra dimensione visiva, dimensione spaziale e dimensione teatrale.
In un volume, pubblicato da Cue Press, “In forma di quadro. Note di iconografia teatrale”, di Renzo Guardenti, non solo avvertiamo la passione dell’autore, per l’argomento trattato, ma anche il suo modo di intendere la ricerca scientifica su alcuni periodi storici del nostro teatro, a cominciare dai primi Italiens, che operavano a Parigi, ovvero dai nostri Comici dell’Arte, per arrivare al Settecento e all’Ottocento, con riferimenti a Talma, Marrocchesi e Sarah Bernhardt, attori dei quali Guardenti ha percorso la loro storia utilizzando non solo gli studi a essi dedicati, ma anche i materiali fotografici rinvenuti, per meglio inquadrare alcuni modelli dell’attorialità italiana ed europea.
Il volume contiene anche un saggio sulla iconografia viscontiana, applicato ai suoi spettacoli, a cominciare da “A porte chiuse” di Sartre del 1945, con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vivi Gioi, un saggio che va considerato anche come una riflessione sul modo di mettere in scena da parte di Visconti. Lo studio di Guardenti, che insegna Storia del teatro presso l’Università di Firenze, aiuta a capire meglio in che modo avvenga il processo compositivo, cosa determina l’arte della visione e in che cosa consista la traslazione tra visione esteriore e visione interiore. Gli apparati metodologici utilizzati dall’autore fanno riferimento agli studi, ormai classici, di Kernodle, Panofsky, Warburg, Zorzi, Ragghianti, tutti attenti a ricercare i significati intrinseci e simbolici di un’opera d’arte, oltre che quelli della sua doppia natura, ma ciò che interessa, maggiormente all’autore, è capire il rapporto esistente tra immagine e pratica scenica, tra linguaggio figurativo e linguaggio rappresentativo, tra teatralità della pittura e la sua correlazione con la resa scenica.
Secondo Guardenti, la memoria di uno spettacolo tende e depositarsi e a sedimentarsi nelle arti figurative, con particolare riferimento a spettacoli dei secoli scorsi, fino a creare un vero e proprio processo di “traduzione” e di “trasmutazione” che offre delle tracce o delle indicazioni per meglio comprendere e, magari, approfondire, un evento spettacolare, del quale ci sono rimaste delle immagini visive che, a loro volta, si possono scomporre, ingigantire, grazie ai recenti mezzi tecnologici, e permettere, attraverso i dettagli, di capire il significato di una azione o di una interpretazione.
In simili casi, lo storico procede nella sua indagine, utilizzando il metodo dell’assemblaggio o dell’analisi del frammento, per ricostruirne una forma di archetipo e restituire, al mosaico ricomposto, una specie di unità. Del resto, il frammento è stato oggetto di teorie estetiche che lo hanno reso un “segno” autonomo, il cui risultato è percepibile nella “contemplazione dell’istante”. Il frammento possiede una sua fissità, ma, come sosteneva Benjamin, nella immobilità si insinua la dialettica. Tutto questo è ancora percepibile nella fissità delle immagini che riguardano, per esempio, attori e spettacoli della Commedia dell’Arte, ripetutamente studiata da Guardenti, oppure attori e attrici tra Settecento e Ottocento, che grazie al materiale iconografico, mostrano delle posture utili per conoscere le loro pratiche interpretative.
Questo lavoro rende più moderna la coscienza storiografica, applicata alla voga figurativa e ai riscontri in contesti diversi, come quelli che si trovano nei Castelli, nei Palazzi signorili e, in forma ridotta, persino, nelle porcellane.
Come non fare riferimento a Tiepolo e alla qualità teatrale della sua pittura e ai suoi ben noti Pulcinella?
Il volume è diviso in due parti, una teorica (pp 145) e una figurativa (pp 120 ), a dimostrazione di  come certe tesi sostenute dall’autore siano fondamentali per capire il  rapporto esistente tra Teatro e Iconografia.

Renzo Guardenti. “In forma di quadro. Note di iconografia teatrale”, Ed. Cue Press 2020, pp. 270, € 34,99

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Aldo, Giovanni e Giacomo in una commedia sulla vita e le sue illusioni. Perché anche di disincanto si può sorridere

(di Patrizia Pedrazzini) – Allegro, spiritoso, con momenti di grande tenerezza e quel fondo di amarezza e di malinconia che è poi la firma della “comicità” lombarda, arriva nelle sale per Natale “Il grande giorno”, ultimo lavoro di Aldo, Giovanni e Giacomo, per la regia di Massimo Venier.
Commedia (come sempre) agrodolce ma non triste, divertente ma mai grossolana, nella quale il trio appare di nuovo in grandissima forma. Certo il ritmo non è quello dei bei tempi andati, ma si sa, gli anni passano, i figli crescono e i capelli imbiancano (per chi li ha). E poi, alla fine, i nostri tre, sono mai veramente cresciuti?
Eccoci allora sul lago di Como dove, nella ricca cornice di Villa Kramer (che poi si scoprirà chiamarsi Villa Smerdi), presa in affitto per l’occasione, ci si appresta a celebrare (per tre interi giorni) il matrimonio tra la figlia di Giovanni e il figlio di Giacomo. I promessi sposi si conoscono fin da bambini, perché i due padri sono soci in affari nella “Segrate Mobili”, azienda leader nella costruzione di divani. Ovviamente tanto Giovanni è generoso, entusiasta e al limite dell’esagerazione, tanto di contro il povero Giacomo è attento ai soldi, pignolo e piuttosto taccagno. Ma cosa non si farebbe per i figli?
E allora vai con l’ingaggio, per colazioni aperitivi pranzi e cene, di un maître noto come “il Riccardo Muti del catering” (Pietro Ragusa), mentre per le nozze si è andati a scomodare nientemeno che un cardinale, tale Pineider (Roberto Citran), purtroppo per lui celiaco. Poi ci sono la moglie di Giacomo (Antonella Attili) e la compagna di Giovanni (Elena Lietti). E l’ex moglie di quest’ultimo, la, si favoleggia, bellissima Margherita (Lucia Mascino), attesa con il nuovo fidanzato, “una specie di Alain Delon giovane”, inglese o americano non si sa bene: Aldo. Di fatto il solito “terrone”, allegro, simpatico e giocherellone, che fin da subito piace tanto ai due promessi (e alla nonna). Ma con il cui arrivo, inutile dirlo, comincia a succedere di tutto. Gaffes a pioggia, equivoci, disastri (mai premere un pulsante che sembra lasciato lì per caso…), momenti imbarazzanti e, non bastasse, un pesante, molto pesante scheletro che, nel disagio generale, si catapulta fuori dall’armadio, rischiando di mandare a quel paese tutto: amicizie, certezze, amori, e pure il matrimonio dei ragazzi. Come andrà a finire?
“Il grande giorno” è una commedia, sì, ma non più di tanto. Certo le battute non mancano: dall’immarcescibile “ma porca di quella maledetta puttana” (si poteva farne a meno?) ai più lievi e spassosi “se quello è Alain Delon, io sono Philip Morris”, o “anche il capitano del Titanic era un professionista”. Ma alla fine la chiave di tutto è già fin da subito in quel coro, gridato a squarciagola a tavola, di “Maledetta primavera”, nella nostalgia e nel disincanto che quella canzone riesce come poche e evocare. E nella fine delle illusioni, con la quale, prima o poi, ci si trova tutti a dover fare i conti.
E allora ben venga, perché no, la figura del modesto prete di mezza montagna chiamato in extremis (dopo che il cardinale si è azzoppato) a celebrare le nozze, che mai ha officiato un matrimonio in vita sua (solo funerali, su al paesello), ma che in compenso non solo apprezza alla grande i manicaretti del maître, ma anche, con somma semplicità, elargisce a tutti la propria personalissima pillola di saggezza: “Dopo ogni fine, c’è un nuovo inizio” (gli piace tanto questa frase, la dice a ogni funerale).
Che sarà anche scontata e al limite del comico, però è vera. E se da una parte quelli che ne escono meglio sono i ragazzi, meno avvezzi ai compromessi e ai sotterfugi, e più coraggiosi nell’affrontare i temporali della vita, dall’altra non c’è tristezza, né pessimismo, nella tavolata finale dei nostri eroi, che raccolgono i cocci dei rispettivi disastri e sorridono a un futuro che chissà come sarà, ma che importa? Non è mai troppo tardi per accettare i propri errori, non rinunciare ai propri desideri e fare, con garbo, la propria piccola, grande rivoluzione.
Gradevole, tenero, equilibrato. Bello.

 

Poetico, senza esasperate tecnologie: una favola a misura di bambini. Ma con più significati di quanto non si creda

(di Marisa Marzelli) Non sarà l’Avatar di James Cameron – che sta monopolizzando i grandi schermi natalizi nella speranza di rinverdire i fasti di un cinema assaporato nelle sale piene, come da tempo non si ha più memoria – ma Ernest e Céléstine è un cartone animato alla vecchia maniera e accuratamente confezionato, uno di quei titoli che un tempo spingevano al cinema tutta la famiglia.
Siamo alla fine del 2022 e ancora non è chiaro se il destino delle sale cinematografiche sia ormai segnato o se ci siano ancora spiragli di sopravvivenza per una distribuzione non solo in funzione delle piattaforme. Certo, è più comodo guardare un titolo nuovo senza uscire di casa, cercare il parcheggio, fare contemporaneamente altro e mettere in pausa quando si vuole. Più comodo, ma alla lunga più costoso e alla fine noioso, perché ogni titolo diventa intercambiabile; si va perdendo il concetto di qualità e il cinema lascia sempre più per strada il concetto e il valore di arte concentrandosi su quello industriale di semplice prodotto.
Colpa degli anni di pandemia che ci hanno allontanati dai luoghi affollati? Colpa di un trend che si era già messo in moto prima? Fatto sta che anche il 2022 non chiuderà con un bilancio di recupero rispetto agli anni pandemici e, secondo le previsioni, bisognerà attendere almeno sino al 2024 per vedere il ritorno ai livelli globali di botteghino pre-Covid.
Ernest e Céléstine – L’avventura delle 7 note – è un cartoon che oggi si può considerare anomalo, qualcuno direbbe senza paura rétro, e proprio per questo coraggioso. Già il tratto è leggero e acquarellato, il ritmo è tranquillo (per non dire lento), non c’è traccia di interventi di computer grafica. La storia è una favola a misura di bambini piuttosto piccoli, con la sua morale che vale per tutti, raccontata con attenzione pedagogica. Un film poetico, nelle intenzioni e nella resa, modesto nella durata, senza effetti speciali e creature aliene ha ancora diritto di cittadinanza nell’immaginario dei bambini di oggi? O piuttosto, saranno in grado di capirlo e apprezzarlo?
Le vicende di Ernest e Céléstine, nel loro genere, sono un classico. Nata dalla creatività della scrittrice e illustratrice belga Gabrielle Vincent, l’amicizia della strana coppia formata dal grosso orso Ernest, artista di strada, e dell’intraprendente topolina Céléstine è già stata raccontata al cinema una decina d’anni fa da un primo film di successo (sceneggiato da Daniel Pennac), addirittura candidato all’Oscar. È seguita una serie televisiva ed ora ecco quest’Avventura delle 7 note (coproduzione franco-lussemburghese), firmata dai registi Jean-Christophe Roger e Julien Chheng, a cui nella versione italiana danno la voce ai protagonisti Alba Rohrwacher e Claudio Bisio. Dopo il risveglio dell’orso dal letargo invernale, per un incidente si rompe il prezioso violino di Ernest (uno Stradivorso) e può ripararlo solo un famoso liutaio del paese d’origine di Ernest. Prende così avvio il viaggio verso la lontana Ostrogallia, luogo per eccellenza di famosi musicisti e grandi musiche. Ma, arrivati sul posto, i protagonisti si rendono conto che la magica Ostrogallia si è trasformata in una dittatura dove la musica è bandita ed è ancora accettata una sola nota, il do. Persino il trillo degli uccellini è bandito. Ma la ribellione e la resistenza ribollono.
Riusciranno Ernest e Céléstine a ripristinare la bellezza della musica e la libertà di pensiero contro il grigiore delle imposizioni?
Si mescolano vari temi importanti e anche complessi per i bambini, dal valore della libertà agli a volte conflittuali rapporti genitori-figli; sempre illustrati con metafore lievi e tanta poesia. Un film meno ingenuo di quanto possa apparire ad uno sguardo distratto e soprattutto che ha il coraggio di parlare con il linguaggio del cuore e non affidarsi ad una magari sbalorditiva ma sterile tecnologia.
In contemporanea con il film, esce in italiano anche il relativo albo illustrato (editore Gallucci).

Centro Nazionale Studi Pirandelliani. Anche a stampa gli Atti del Convegno sulle “Novelle”, a cura di Stefano Milioto

(di Andrea Bisicchia) – Nel 1997, Enzo Lauretta (1924-2014), nella introduzione al volume “Le novelle di Pirandello: dramma, film, musica, fumetto”, sosteneva la tesi, confermata da altri studiosi, secondo la quale «Nessuna delle Novelle per un anno offre verità, ma tutte propongono ambiguità e dubbi, perché la “Vita nuda” ha questa diabolica struttura e l’uomo che si affaccia, al principio del secolo, reca con sé le stigmate di tali inverosimili e inquietanti incertezze».
Enzo era anche un veggente, tanto da aver creato una sorta di osmosi tra lui e Pirandello, ben evidente nel suo volume, pubblicato da Mursia, “Fuori di chiave”.
Sulla scia delle indicazioni di Lauretta, il Centro Nazionale Studi Pirandelliani ha organizzato un Convegno dal titolo «Le novelle di Pirandello, raccolte», di cui sono stati pubblicati gli Atti, a cura di Stefano Milioto, editi da Lussografica. L’intento è stato quello di analizzare tutto il corpus novellistico, rifacendosi alle prime raccolte, che in questo caso riguardano: “Scialle nero”, “La vita nuda”, “La rallegrata”, “L’uomo solo”, “La mosca”, “In silenzio”.
C’è da dire che, per motivi organizzativi, l’ordine degli interventi non ha seguito quello cronologico, pertanto, la cosa migliore sarebbe partire dalla relazione di Simona Costa che ha annunziato l’Edizione Nazionale delle Novelle, promessa da Mondadori e affidata a una equipe di filologi che dovrebbero capovolgere l’dea che la esegesi possa contare più della filologia, la sola che ha il potere di intervenire sulla carente certificazione identitaria delle molteplici correzioni di una scrittura sempre prossima all’accadere dei fatti, i cui risultati, sono, spesso, come ha osservato Fabrizio Scrivano, di carattere umoristico, attenti alla osservazione di quel senso del ridicolo che era, in fondo, una maniera di guardare il mondo con distacco, quasi ridendone, tanto che le novelle diventano un mezzo per raccontare ciò che accade attorno a noi, rivelando, gradualmente, gli elementi che lo caratterizzano e non quelli che si consumano in uno spazio sempre più angusto che potrebbe essere quello del palcoscenico.
Già nelle Novelle, Pirandello voleva dire che esiste uno spazio della vita nuda, con tutti i suoi risvolti e le meschinità ed esiste un altro spazio che fa presagire quello del teatro, come si può constatare nelle Commedie scritte tra il 1917 e il 1921 che mostrano, tutte, un antecedente novellistico, il cui corpus avrebbe dovuto essere di 360 novelle e che, alla fine, sarà di 236.
Il trapasso dalla novella al teatro è l’argomento affrontato da Paolo Puppa, alla ricerca di quella che diventerà l’azione drammatica, ben diversa dall’azione parlata, perché più attenta a cogliere il mondo sensibile e gestuale dei personaggi che popolano le novelle che, in teatro, dovranno essere ridimensionati, trattandosi di un mondo caricaturale, per il quale, Pirandello sceglie la tecnica dell’Umorismo.
A questo punto, è giusto ripartire dall’inizio, ovvero, dalla prima raccolta: “Scialle nero”, pubblicata per la prima volta nel 1922, argomento trattato da Debora Bellinzani che ha scelto un percorso di lettura utilizzando gli elementi tematici, oltre che sociali, visti alla luce del rapporto realtà-finzione.
Ad Annamaria Andreoli è toccato il compito di analizzare “La vita nuda”, ovvero “lo spogliarello delle illusioni”, quello che l’autore realizzava meglio nelle novelle, poiché trovava, in quegli anni, difficoltà a pubblicare i romanzi. La “Vita nuda” fa pensare a “Maschere Nude”, il titolo che Pirandello darà al suo Teatro. La Andreoli fa notare che, nel secondo Ottocento, accadeva che fosse il romanzo ad essere ridotto per il teatro, vedi “Teresa Raquin” di Zola e “La Signora delle camelie” di Dumas, mentre, all’inizio del secolo, diventerà strettissimo il rapporto tra novella e teatro.
Sarah Zappulla Muscarà concentrerà il suo intervento sulla raccolta “L’uomo solo”, in cui esaminerà, soprattutto, “Tararà”, ovvero la verità e la solitudine di un imputato, solitudine che declinerà, come tema unitario, nelle altre novelle della raccolta.
Di “La mosca” tratterà Marcello Sabbatino, la cui raccolta evidenzia il tema della tortura, in un solco tracciato dalla morte, mentre di “In silenzio” si occuperà Rino Caputo, per dimostrare come il silenzio permetta di sopportare la pena di vivere.
Infine, sono interessanti le relazioni che riguardano le traduzioni, i saggi, le riflessioni degli studiosi provenienti dalla Spagna e dalla Corea del Sud.

“LE NOVELLE DI PIRANDELLO, Raccolte”, a cura di Stefano Milioto, Edizioni Lussografica 2022, pp. 226.