Il primo volume, dedicato alle “Passioni”, in un prezioso cofanetto, che comprende anche “Sogno” e “Follia” dei greci

(di Andrea Bisicchia) In un bellissimo cofanetto, l’Editore Raffaello Cortina, ha raccolto, in tre volumi, di Giulio Guidorizzi, noto grecista delle Università di Milano e Torino, “I colori dell’anima”, così suddivisi: “I greci e le passioni”, “I greci e il sogno”, “I greci e la follia”.
Abbiamo deciso di dedicare una recensione per ogni libro, evitando una frettolosa sintesi che non avrebbe, certo, evidenziato la profondità degli argomenti, tutti legati a un denominatore comune, che è quello dell’anima, della quale si sono occupati, non solo i filosofi, a cominciare da Platone, ma anche poeti epici, come Omero e gli autori tragici, Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Ci soffermeremo sul primo dei tre volumi, dal titolo “I greci e le passioni”, per capire in che modo questo tema centrale, nel dibattito antico, si fosse evoluto nel tempo, fino a diventare l’archetipo a cui hanno fatto riferimento, dalla seconda metà dell’Ottocento, agli inizi del Novecento, psicologi, psicanalisti, psichiatri, oltre che drammaturghi come Ibsen, Strindberg, Pirandello.
Giulio Guidorizzi, che è un conoscitore attento e profondo della materia che tratta, è partito da Omero, cercando, nei suoi versi e nelle sue trame, di farci capire quale fosse la psicologia che caratterizzava i personaggi dell’Iliade e dell’Odissea, per affrontare il medesimo problema con i grandi e anche i piccoli personaggi delle tragedie. La sua indagine ha come scopo la conoscenza delle loro pulsioni, capaci di determinare il loro stesso agire e scoprire in che modo fossero maturate, ma, particolarmente, in che modo interagissero con l’anima. Guidorizzi divide il lavoro, di questo primo libro, in quattro capitoli, facendoli precedere da un prologo e un epilogo, intercalandoli con quattro Appendici. Il tragitto da lui indicato parte dalle passioni mitiche, per pervenire a quelle epiche, a quelle tragiche, fino ad addentrarsi nelle passioni delle passioni, definite cosmiche, che avevano a che fare con la malattia dell’anima. Nelle Appendici, lascia maggiore spazio alle passioni familiari, quelle di Fenice, per esempio, la cui storia sembra anticipare il dramma di Edipo, con i conseguenti parricidi, incesti immaginati e realizzati, quelle di Antigone, Ippolito, Fedra, Medea mentre, a proposito di certi intrecci amorali, ci ricorda che Aristarco (310 a. C.) rimase alquanto imbarazzato dinanzi a certe bassezze, che erano conseguenze di odio e di vendette, fino a censurare, nelle edizioni successive, i versi che facevano riferimento a storie incestuose e a donne che “mescolavano il seme con più uomini”. Per Guidorizzi, le passioni non sono altro che la conseguenza di certi impulsi irrefrenabili che stavano soprattutto a base delle tragedie, dove accadeva l’ineluttabile e dove avevano il sopravvento le forze irrazionali, specie quando le passioni erano senza controllo.
È grazie al genere tragico che si comincia a indagare il mondo della nostra psiche, in esso è presente la materia che permetterà a Freud di creare le sue teorie, in particolare quella sui sogni che è oggetto del secondo libro, di cui riferiremo nella prossima recensione, sogni che anticipano certi avvenimenti degli eroi tragici, con le  loro passioni ingovernabili, le loro nevrosi, le loro libido, che saranno causa dei loro effetti estremi e che potevano essere purificati solo dalla catarsi che, nella psicoanalisi, corrisponde al momento in cui il paziente si è liberato da tutti i disordini psichici.
Guidorizzi possiede una vastissima conoscenza, sia del mondo omerico che di quello tragico, con i correlati filosofici, in particolare con i “Dialoghi” platonici, pertanto le sue citazioni, numerosissime, diventano la dimostrazione di come ogni sua teorizzazione abbia una dimostrazione, non solo nei versi dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche in quelli delle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Una curiosità, nell’Appendice IV, Guidorizzi riporta alcune pagine del “Simposio“ di Platone, riferite alla figura dell’androgino, ovvero di chi ha rinunziato alle passioni, figura fondamentale per capire certi fenomeni legati alla diversità di genere, non contemplata addirittura nella formula LGBTQA, mentre continua a esistere ancora oggi la stessa che Emanuelle Richard ha definito: “corpi astinenti”, che è anche il titolo di volume da lei curato.

“I COLORI DELL’ANIMA. I greci e le passioni”, di Giulio Guidorizzi, Raffaello Cortina Editore, pp. 190, 3 volumi, di cui fanno anche parte: “I greci e il sogno” e “I greci e la follia”. Prezzo del cofanetto € 44

La Sicilia tra secondo 800 e anni Trenta. Humus tumultuoso di Pirandello, tra lingua dialetti proverbi e saghe di famiglie

(di Andrea Bisicchia)Scrivere un romanzo biografico, ovvero, cercare di narrare la storia di un artista famoso, è ben diverso che scrivere una biografia di tipo saggistico, con rimandi scientifici, indicati nelle note a piè di pagina. Silvana La Spina è una narratrice di razza, la quale, volendo raccontare a suo modo la storia di un uomo difficile, non si è tirata indietro nell’affrontare una materia alquanto ibrida, essendo intrisa di molteplici e particolari storie familiari che, nel suo romanzo, prenderanno il sopravvento su quelle letterarie.
Compito del romanziere non è certo quello di esprimere dei giudizi critici sui valori artistici delle Opere che accompagnano la vita di un uomo, ma quello di far conoscere al lettore come quell’uomo difficile sia arrivato a comporre la sua Opera immortale.
Silvana La Spina è partita da se stessa, ovvero dalle sue conoscenze, non solo dei testi pirandelliani, ma anche della storia siciliana, tra il secondo Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, iniziando dalla rivolta della Gancia, che precede la rivoluzione dei Mille di Garibaldi, quando dei rivoluzionari che avevano adibito il convento della Gancia a Palermo a centro delle loro operazioni contro le truppe borboniche videro il loro esperimento soffocato nel sangue, anche se diventerà un insegnamento per molti personaggi che popolano il romanzo di Silvana La Spina, dei quali ci racconta i loro malcontenti, il loro orgoglio, le storie d’amore, spesso, ambigue, ricostruendone anche il linguaggio, con gli apporti dialettali e con i tanti proverbi che riassumano situazioni non sempre narrabili.
Questo mescolare la lingua col dialetto, è una prerogativa della scrittrice, specie quando dà voce ai suoi personaggi, analizzati nel loro rapporto con le storie locali, con le difficoltà economiche, nel momento in cui le zolfare entrano in crisi sia per ragioni naturali sia per motivi competitivi, con i molteplici conflitti che ne scaturiranno, tutti messi a confronto con la vita tumultuosa di Pirandello, definito dallo zio Rocco “l’uomo di zolfo”, lo stesso che dà il titolo al romanzo , pubblicato da Bompiani.
La biografia della La Spina si può leggere pertanto come un susseguirsi di racconti, di miti che inseguono, soprattutto i suoi protagonisti, quelli che si muovono ai margini della storia, avendo partecipato ad eventi che hanno contribuito alla liberazione dell’isola dall’oppressione borbonica e che hanno fatto vanto delle loro partecipazioni alla rivolta, culminata nella battaglia dell’Aspromonte (1862).
Un romanzo storico, quindi?
Non proprio, perché la storia entra ed esce per dare maggiore spessore ai personaggi, magari nati secondari, ma che la scrittrice rende veri e propri protagonisti.
La Sicilia degli anni di formazione del giovane Luigi era nel caos, ben diverso dal Caos in cui era nato Pirandello e in cui verrà sepolto, un caos che sapeva di miseria, di disuguaglianze, di sottocultura, di ignoranza diffusa, di pregiudizi, che diventeranno, a loro volta, materia dei racconti, dei romanzi, delle commedie pirandelliane.
Il romanzo di Silvana La Spina narra le vicende di tre famiglie, quella dei Pirandello, quella dei  Ricci Gramitto, quella dei Portulano, le cui saghe finiranno per intrecciarsi, per diventare la vera storia del romanzo che conduce il lettore verso aspetti poco conosciuti dei tormenti, dei fallimenti, delle vittorie dello scrittore agrigentino, da quando muoverà i suoi primi passi a Palermo, per spostarsi successivamente a Roma e a Bonn, dove si laureerà e dove avrà una “libera” storia d’amore con Ketty, ben diversa da quella  che lo legherà alla cugina Linuccia che avrebbe dovuto sposare.
La scrittrice sceglie anche di pescare nel torbido, raccontandoci l’avventura amorosa del padre per un’altra cugina, da cui nascerà una figliastra, storia d’amore tormentata, a cui il padre rinunzierà per un altro amore, quello della famiglia e di un figlio che vuole diventare poeta. Forse, però, la storia più tormentata e più torbida è quella dell’amore sessuale tra Luigi e la moglie Antonietta, vissuta con un eros insaziabile, dato che, quei due, tutte le notti “ficcavano”, al contrario di quello con Marta Abba che sarà un amore platonico, visto che Luigi si negherà fisicamente, a lei, durate l’atroce notte, in un albergo di Como e che lo farà diventare la favola del teatro italiano, ben diversa dalla “Favola del figlio cambiato”. E poi c’è la storia della gelosia, vissuta con inquietudine perenne da Antonietta, per paura di essere tradita dall’uomo a cui si offre senza ritegno, ma che la porterà alla follia.
Silvana La Spina contrappone all’amore sincero di Antonietta, quello di un uomo orgoglioso, sempre scontroso, in perenne conflitto con la volgarità della borghesia romana che vede rappresentata nelle opere di D’Annunzio, che lui non si stanca mai dal disprezzare.
Non mancano le pagine dedicate agli amici come Bontempelli e Rosso di San Secondo, al rapporto con Mussolini e con il fascismo e quelle dei successi teatrali, attestati dal Premio Nobel. Insomma, il lettore si trova dinanzi a tanti racconti appassionanti e a continue trame divergenti che rendono il romanzo, per i suoi intrighi particolari, sempre appetibile e affascinante.

Silvana La Spina, “L’UOMO DI ZOLFO. Il romanzo di Pirandello”, Bompiani Editore 2023, pp. 410, € 20

Solitudine, mostruosità e violenza. Antichi temi? O nostri contemporanei? L’orrendo Minotauro sarà sempre fra noi

(di Andrea Bisicchia) Uno dei libri più importanti di Franco Rella è sicuramente “Miti e figure del moderno” (Feltrinelli 2003), in cui veniva trattato il tema della dissoluzione dei miti che poggiavano sui presupposti della razionalità classica.
Nel suo ultimo volume, nato durante la solitudine, causata dal covid, “La solitudine del Minotauro”, Aragno Editore, Rella ritorna su un’altra dissoluzione, quella che ha per protagonista il figlio di Pasifae, moglie di Minosse, che concepì il Minotauro, unendosi sessualmente a un toro bianco, che era stato inviato, al re di Creta, per compiere un sacrificio.
Rella individua in questo mito tre temi: la solitudine, la mostruosità, la violenza, temi che appartengono, non solo al passato, ma anche alla nostra contemporaneità. Intraprendere un viaggio nei miti antichi, vuol dire adattarsi anche alle sue continue trasformazioni e a un immaginario che non procede a senso unico. L’esempio del Minotauro ne è la dimostrazione, perché il mito che lo riguarda cambia a seconda dell’approccio interpretativo. Per esempio, lo scontro con Teseo può essere letto a livello etico come l’ennesima lotta tra bene e male, a livello gnoseologico come lotta tra il vero e il falso, coinvolgendo, in tal modo, il problema della verità, quella che, come spesso accade, ci costringe a indossare una maschera.
A tal proposito, Rella cita un noto aforisma di Cartesio: “Larvatus prodeo”, secondo il quale, gli attori utilizzano la maschera per non fare apparire sul volto il loro imbarazzo, alla stessa maniera per conoscere la verità della scena del mondo l’uomo ha bisogno di mascherarsi.
Che cos’è, allora, lo spazio costruito da Dedalo per il Minotauro? È uno spazio di protezione? di conoscenza? È uno spazio irreale e, pertanto, astratto? Come uscirne? Rella parte dall’esperienza del covid, ovvero dalla esperienza della pestilenza che tutti noi abbiamo sperimentato, quella che ci ha fatto vivere in assoluta solitudine, la stessa del Minotauro, di cui Rella non analizza soltanto la mostruosità, bensì il corpo infetto, simile a quello di Filottete, costretto a vivere, solo, nell’isola di Cnosso, per una cancrena virulenta, tanto da essere colpito da un desiderio di morte. Questa tesi è quella che avanza Franco Rella, perché, a suo avviso, il Minotauro si offrì quasi in suicidio alla clava e non alla spada, di Teseo, il futuro fondatore di Atene, colui che era considerato giusto, perché accoglieva stranieri, come Edipo, per riscattarli dalle loro involontarie nefandezze. In fondo, per Rella, Edipo è uguale al Minotauro, essendo entrambi privi di colpa, anche se hanno vissuto nell’orrore, dal cui ha inizio l’esperienza di entrambi, quella che ha generato la violenza che ha sempre a che fare col sacro, perché dietro di essa c’è la volontà degli dei.
C’ è da dire che anche Pasifae può considerarsi incolpevole e lo fa nel monologo rimastoci dei “Cretesi” di Euripide, dove lei accusa il marito per non aver voluto sacrificare il toro a Poseidone, tanto che il dio si è vendicato.
Dicevamo della mostruosità e della violenza, c’è da chiedersi fino a che punto i mostri vivano nella nostra psiche e in che modo sia possibile difendersi. È forse il caso di rivolgerci al sacro, che ne è la diretta conseguenza, come ci ha insegnato Girard? Per Rella, la sola protezione è offerta dalla scrittura, la propria e quella degli altri, visto che le citazioni nel libro sono infinite, si va da Rilke, a Proust, a Cartesio, a Beckett, all’amato Kafka, con riferimento a quel bellissimo racconto labirintico che è “La tana” o al “Castello”, altro luogo da cui è impossibile uscire. Non poteva mancare il riferimento al “Minotauro” di Dürrenmatt, il breve racconto che ci offre l’immagine di un Minotauro danzante, dinanzi allo specchio, ovvero dinanzi a una moltitudine di minotauri che sembrano moltiplicarsi come i rinoceronti di Ionesco. In Dürrenmatt, la storia di Teseo e Minosse diventa un dramma psicologico, in fondo lo è anche per Rella, per il quale la psiche è una componente immateriale che ha però una funzione determinante per conoscere i labirinti della mente e del corpo, a cui lo stesso Rella ha dedicato il volume “Ai confini del corpo”.
Rella non cita Henri De Montherlant, la cui “Pasifae” utilizza il suo corpo e la sua sessualità per compiere un gesto immorale, quasi da sfida, con cui poter controbattere l’immoralità sociale, oltre che le convenzioni, con tutte le conseguenti consuetudini.
La sua, non è una sfida alla natura, ma alle leggi e alle intolleranze politiche e religiose.

“LA SOLITUDINE DEL MINOTAURO”, di Franco Rella, Aragno Editore 2023, pp. 154, € 18

La fantasia? È dinamica. Come le immagini teatrali di Emma Dante, che, dal reale, si inoltrano poi in un mondo onirico

(di Andrea Bisicchia) Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del genere fiabesco, facendo riferimento a “L’uccellino azzurro” di Maeterlinck, messo in scena da Luca Ronconi, che ne fu anche il traduttore nel 1979. Il regista ne aveva trasformato la struttura fantastica in una struttura onirico–simbolica, in modo che lo spettacolo potesse coinvolgere i fanciulli e gli adulti, esperimento che, in maniera del tutto diversa, fu continuato anche da Carmelo Bene, col suo “Pinocchio”, una specie di Peter Pan che non ha alcuna voglia di crescere.
Sia a Ronconi che a Bene è mancata quella continuità con cui Emma Dante ha esplorato alcune delle favole più famose, eliminando ogni intendimento moralistico e portando avanti l’idea che, il mondo delle favole, possa e debba interessare anche ai grandi. “Non tutti vissero felici e contenti. Emma Dante tra fiaba e teatro” è il titolo del volume di Simona Scattina, che ritorna sull’argomento, con una indagine approfondita su come la Dante si sia accostata alla favola tradizionale, intervenendo nel suo interno, con un approccio di tipo antropologico, ormai tipico del suo mettere in scena un testo.
Emma Dante è come quei pittori che si riconoscono per certi segni inconfondibili, non per nulla il suo teatro è costruito, oltre che sul culto del corpo, anche sul culto dell’immagine, solo che, dietro le sue immagini, non troviamo nulla di statico, essendo alquanto immaginifiche e, pertanto, dinamiche, proprio perché costruite sul dinamismo della fantasia, che si fonda con una creatività le cui basi partono da una situazione reale per inoltrarsi nella sfera del mistero, dell’occulto e del meraviglioso.
In questi ultimi decenni si è parlato molto di “visual culture”, la stessa Scattina ne è una studiosa, il cui compito consiste nell’approfondire il culto dell’immagine attraverso un interessante intervento multidisciplinare che va oltre la ricerca dei contenuti. Una volta il rapporto lo si sintetizzava nelle formule: “Vita e forma”, per quanto riguarda Pirandello, o “Forma e contenuto”, per quanto riguarda Benedetto Croce. Quando, alcuni decenni dopo, Vladimir Propp intraprese uno studio scientifico sulla “Morfologia della fiaba”, lo fece con la consapevolezza che la morfologia non è altro che lo studio delle forme, pertanto, nel momento in cui intese analizzare le oltre mille fiabe a disposizione, volle proprio esaminarne le forme con tutte le possibili varianti, anche perché, la ricerca sull’argomento, fino a quel momento, era stata di tipo compilatorio e non certo comparativo. Era come dire che le fiabe potessero essere soggette a quel processo metamorfico che caratterizzava i grandi miti.
Dopo Propp, sono venuti Bettelheim e Todorov, con i loro studi sulle favole, pertanto, la maniera di approcciarsi ad esse è del tutto cambiata. Simona Scattina ne è consapevole ed ha diviso il suo lavoro in cinque capitoli che possono considerarsi una specie di viaggio nel mondo onirico, non solo delle fiabe, ma anche in quello della “regista-artigiana”, alla quale attribuisce una “nuova grammatica della fantasia” con cui interviene nel mondo incantato delle streghe, delle fate, delle principesse, le cui storie non sempre hanno un lieto fine.
I testi presi in esame sono: “Anastasia, Genoveffa e Cenerentola”, “La bella Rosaspina addormentata”, “Cappuccetto Rosso”, “Biancaneve”, “La scortecata”, “Rosinella e Carolina”.
Sono favole che appartengono al nostro immaginario collettivo che, però, la regista cerca di stravolgere con l’utilizzo di quel suo linguaggio teatrale che non intende fare sconti a nessuno, pertanto Grimm, Andersen, Perrault, Basile diventano oggetto di una sua particolare rivisitazione, che, a volte, potrebbe sembrare, persino, eccessiva.
Dicevo, all’inizio, della continuità che caratterizza il lavoro di Emma Dante, con la collaborazione di Carmine Maringola, continuità riscontrabile anche nelle sue regie liriche di andamento favolistico come “La Cenerentola” di Rossini, “L’angelo di fuoco” di Prokof’ev, e la recentissima “Rusalka” di Dvoràk, alla Scala, una fiaba sul fallimento nel voler conciliare natura e cultura.
Simona Scattina è entrata nel mondo immaginario di Emma Dante evidenziandone le ibridazioni, gli stilemi spesso ricorrenti, ma che appartengono alla visione scenica della regista, sempre attenta a riattivare il mito quando mette in scena una tragedia come “Eraclei o la favola, quando cerca di assimilarla al suo mondo interiore. È come se tutto il suo teatro, a cominciare dalla trilogia “mPalermu”, “Carnezzeria”, “Vita mia”, oggetto della prima monografia, sulla Dante, di Anna Barsotti, anche autrice della Prefazione del libro della Scattina, potesse avere inizio con “c’era una volta…”

“NON TUTTI VISSERO FELICI E CONTENTI – Emma Dante tra fiaba e teatro”, di Simona Scattina, Titivillus editore 2019, pp. 198, € 19.