Un esilarante soufflé comico di Eduardo con Imparato/Esposito al Manzoni

Gianfelice Imparato, al centro, in “Uomo e galantuomo” (foto Studio Azais)

Gianfelice Imparato, al centro, in “Uomo e galantuomo” (foto Studio Azais)


(di Paolo A. Paganini) Farsa acerba del giovanissimo Eduardo De Filippo, eppure percorsa da qualche ingombrante brivido pirandelliano, “Uomo e galantuomo”, scritta nel ’22, ma rivisitata e andata in scena undici anni dopo nell’interpretazione dei tre fratelli Eduardo, Peppino e Titina, è tuttora tanto piacevole quanto palesemente squilibrata nella sua struttura drammaturgica. Si ha oggi un bel dire che non è soltanto una farsa, che il nocciolo duro è pur sempre l’umanissima filosofia popolare di Eduardo, con le sue pieghe amare, con la sua indulgente pietas verso l’innocenza del vulgo, ma tira di qua, tira di là, l’abito dei presupposti contenuti si sbrindella, si lacera tutto, e rimane a nudo la farsa pura e semplice. E allora godiamocela così com’è, come con un pizzico appena di seriosità l’ha registicamente impostata Alessandro D’Alatri, ma come poi Gianfelice Imparato e Giovanni Esposito l’hanno stravolta in un ilare e giocoso divertimento. Almeno nelle intenzioni, perché i tre atti della commedia scandiscono anche tre piani di lettura non sempre felici. Il primo atto contempla una compagnia di scavalcamontagne, più affamati che talentosi, arrivati in ameno luogo di villeggiatura, per rappresentare un dramma all’aperto con l’esito di spernacchianti dissensi. Ma c’è una scena dove, a ruota libera, questi guitti fanno le prove sul terrazzo dell’albergo che li ospita (e ciascuno mettendoci del suo): da tenersi la pancia dal ridere. Merita tutto lo spettacolo. Il secondo atto, inquietante e allappante rispetto al primo, contempla il cedimento della farsa in dramma. Per salvare l’onore della donna amata e malmaritata, l’amante della fedifraga si finge pazzo (lectio magistralis di Ciampa nel pirandelliano “Berretto a sonagli”). Il terzo atto contempla la catarsi. Tutti in carcere dove un perplesso delegato di polizia tenta di capirci qualcosa tra sani che si fingono pazzi e pazzi che improvvisamente rinsaviscono. Il finale? Ovviamente riprende il ritmo della farsa che rivendica i suoi diritti: tutti si fingono pazzi, chi per non pagare il conto d’albergo, chi per nascondere la vergogna delle corna, chi per camuffarsi “da uomo in galantuomo”. Naturalmente, in questo soufflé alla napoletana, Gianfelice Imparato e Giovanni Esposito sono stati gli straordinari cucinieri nel confezionare bocconi di saporita ineguagliabile fragranza comica. Il contorno attoriale, nell’eterna felicità della lingua napoletana, è stato senz’altro all’altezza, da Antonia Truppo a Valerio Santoro, a tutti gli altri. Successo da grande soirée nel milanese teatro Manzoni.

Si replica fino a domenica 27 ottobre.

Il gusto napoletano di Luigi De Filippo per l’operetta e il vaudeville

Luigi De Filippo al Carcano di Milano

Luigi De Filippo al Carcano di Milano


(di Paolo A. Paganini Io non so se Eduardo Scarpetta, nel 1901, si sia ispirato al vaudeville e all’operetta per scrivere “Cani e gatti – Marito e moglie”. Ma Luigi De Filippo, che ora ha messo in scena questa scoppiettante commedia napoletana, forse ci ha fatto un pensierino. E comunque poco importa. Non è fondamentale e niente aggiunge alla singolare gradevolezza dell’operazione. Anche perché De Filippo, come protagonista e regista, pur rispettoso dell’ambientazione, l’ha adattata non dico ai tempi nostri ma a un certo gusto contemporaneo sul piano dei tempi comici e della velocità delle battute, che spesso sono sornione, ma il più delle volte esplosive come fuochi d’artificio. Dicevamo dell’operetta. Ebbene, qui, il porgere è ora tutto spumeggiante e operettistico: voci nitide e ben impostate. Oh dio, adesso cantano, abbiamo pensato. Ma non ce n’è stato di bisogno. La lingua napoletana è già musica, si legge su un ideale pentagramma. E poi, dicevamo, il vaudeville. Entrate, uscite, colpi di scena, personaggi che hanno qualche cadavere nascosto negli armadi, sempre per questioni di corna, prima o poi scoperte con conseguenti risse e litigi forsennati, fino al bacio finale e promesse di eterno amore (fino alla prossima occasione) di tre coppie di sposi: due freschi marito e moglie con fedelissimo apparato genitoriale di lei, alla fin fine altrettanto litigioso, più un’altra coppia: un avvocato in buonafede ma con moglie gelosamente viperina. Ecco, la commedia (due ore con un intervallo) è tutta qui, una storia di gelosie muliebri, con accattivante morale partenopea: donne, state al vostro posto, curate il desco e non rompete le scatole ai mariti, perdonando qualche scappatella. Suvvia, che è mai? La commedia scarpettiana rivela, tuttavia, un’altra qualità, altrettanto cara al gusto mediterraneo del racconto. Scavi psicologici, teorie del profondo, approfondimenti eccetera qui non sono di casa. Si racconta, si narra, si spiegano le vicende in una continua gioiosa affabulazione, che Luigi De Filippo prosegue anche a fine spettacolo, raccontando di sé, dei suoi meravigliosi 83 anni, con aneddoti e storie di famiglia. Uno spasso, e il pubblico del milanese teatro Carcano, stracolmo, se l’è goduto beato.Applausi finali per tutti (e tutti meritevoli per affiatamento, generosità e per quel certo gusto pulcinellesco della maschera e della caricatura). Almeno li nomineremo in ordine di apparizione: Fabiana Russo, Vincenzo De Luca, Claudia Balsamo, Riccardo Feola, Giorgio Pinto, Michele Sibilio, Lorena Semeraro, Luca Negroni, Stefania Aluzzi, Stefania Ventura, Luigi De Filippo, Francesca Ciardiello, Paolo Pietrantonio. Un’ultima considerazione sul diritto degli attori di essere almeno nominati. E’ assolutamente disdicevole (prassi sempre più diffusa) che non venga pubblicato non dico un programma di sala (con i tempi che corrono…) ma almeno un foglietto da distribuire in sala. A chi tocca? Al teatro o alla compagnia? Si replica fino a domenica 20.

E con la regia di Giorgio De Lullo i “Sei personaggi” divennero un archetipo

(di Andrea Bisicchia ) Ci sono spettacoli che rimangono nella nostra Fabio Poggiali (1)memoria,che vivono e rivivono in rapporto ad altri, che ci permettono dei confronti, facendoci rimanere fedeli a quegli stati d’animo, a quelle sensazioni, a quei sentimenti provati la prima volta. Tra le migliaia da me visti, quelli che occupano uno spazio privilegiato sono una decina, tra questi “I sei personaggi in cerca d’autore” con la regia di De Lullo. Se cerco di capirne il perché, mi rispondo: Perché tutte le edizioni successive che ho visto mi hanno sempre rimandato a questa specie di archetipo, del quale le altre messe in scena possono essere considerate delle semplici varianti. Fabio Poggiali ne ha ricostruito la fortuna critica in un volume pubblicato da Mimesis:”Giorgio De Lullo, regista pirandelliano”, però nessuno si era mai chiesto perché, prima del debutto in Italia, l’approvazione per la scelta registica la si fosse cercata in terre di Russia, di Polonia, di Ungheria. La spiegazione più semplice potrebbe essere che alla Compagnia fu offerta una tournée con un minuscolo repertorio che, oltre a “I Sei Personaggi”, prevedeva le “Morbinose” di Goldoni, “Il diario di Anna Frank” di Goodrich e Hackett, due testi già collaudati, mentre il capolavoro pirandelliano non lo era ancora. Il motivo del debutto all’estero era forse da ricercare nella volontà di De Lullo di cominciare a sperimentare l’idea di una messinscena che necessitava di un periodo di incubazione prima del debutto italiano. Il regista aveva le idee chiare, ma in teatro, quando l’idea si confronta con la scena, mostra immediatamente i suoi difetti o i suoi pregi. De Lullo doveva amalgamare le personalità degli attori, dare unità alla sua ispirazione, confrontare la ricerca estetica con quella filologica e, soprattutto, scegliere tra l’edizione del ’21 e quella del ’25. Durante la tournée, De Lullo aveva già dato delle indicazioni precise circa la recitazione, i movimenti, le intonazioni, il rigore e i risultati non si fecero attendere. Romolo Valli fece riferimento alla recensione apparsa sulla “Pravda”, dalla quale ricavò la sensazione che i Sei personaggi fossero stati scritti in quel medesimo anno. Quando avvenne il debutto romano (17 gennaio 1964), lo spettacolo era oramai oliato e, quindi, venne presentato in un’edizione definitiva. La critica, in maniera unanime, sottolineò la svolta data all’interpretazione pirandelliana, trascurando le due realizzazioni precedenti di Orazio Costa, (1946-1948) e di Strehler (1953), ma soprattutto dimenticandosi della vera svolta data da Squarzina con “Ciascuno a suo modo” (1962). Se Costa e Strehler si erano rifatti all’edizione del 1921, De Lullo lavorò sull’edizione del ‘21 e su quella del ‘25, creando un copione adatto ai suoi attori, scegliendo una sorta di contaminazione tra fantasia e realtà, tra estetismo e filologismo, ma aggiungendo qualcosa che era mancata in tutte le edizioni precedenti,ovvero quel tanto di intellettualismo che fece del Padre, non tanto il raisonneur pirandelliano,quanto una specie di sapiente, se non di filosofo che cerca il senso della vita, anche quando questa si presenta in tutto il suo squallore.
Fabio Poggiali ha potuto consultare archivi pubblici e privati,ha dato ordine storiografico a questo materiale e ci ha “raccontato”, non solo la storia delle regie pirandelliane di De Lullo,ma anche la storia di un momento tanto particolare quanto esaltante della storia del teatro italiano.

”Giorgio De Lullo, regista pirandelliano”, di Fabio Poggiali, Ed. Mimesis, 2013, p330, euro 26

Un libro per ricordare quella notte bianca in onore di Giuseppe Pontiggia

libro Pontiggia(di Piero Lotito) Fanno un bel coro, 45 voci. E se parliamo di voci di amici, vuol dire che il canto sale più forte, quando si tratta di ricordare chi non c’è più. Così per Giuseppe Pontiggia, che per questo coro è rimasto semplicemente «il Peppo». Un bel libro, curato da Daniela Marcheschi, raccoglie il pensiero (oggi si è fissati con il temibile termine “testimonianza”) di chi Pontiggia lo ha frequentato, gli ha voluto bene, ha letto le sue opere.
“Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca” è il titolo del volume, che in copertina richiama il 21 giugno scorso, quando quegli amici e moltissimi altri si ritrovarono alla Libreria Popolare di via Tadino, accomunati dall’affetto per l’uomo (il Peppo, appunto) e dall’ammirazione per lo scrittore.
Dopo aver prima gioiosamente chiacchierato tra gli scaffali e poi sul marciapiede lì avanti, i lettori del Peppo – perché tutti lo sono rimasti -, si radunarono in una sala e raccontarono ciascuno il proprio Pontiggia. Chi emozionandosi, chi allegramente, chi scientificamente. Nella Notte Bianca quel coro evocò la sapienza, il sapere, lo stile, l’umorismo (anche qui, chissà perché, oggi si preferisce il più acuminato “ironia”) e l’umanità di uno scrittore che diventa, col tempo che passa, ogni giorno più grande agli occhi di chi ama più la letteratura che non la pubblicistica. C’erano quella sera anche Lucia, la moglie del Peppo, e Andrea, il figlio. Il libro, uscito da pochi giorni, ben restituisce il calore dell’incontro, con il polifonico ricordo di personaggi dell’editoria, ma anche – doppiamente prezioso – di «uomini non illustri», a Pontiggia così cari.

“Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca “- Guido Conti Editore GuaraldiLAB – pagine 140, euro 12. In vendita alla Libreria Popolare di via Tadino 18, Milano.