Le “prime” teatrali della settimana 18/24 novembre. E c’è anche Scarpetta che parla italiano

Martedì 19, al Teatro Studio, va in scena “Shakespeare, streghe, ribelli e altre passioni”, ispirato alle tre streghe di “Macbeth”, di/con Laura Curino, che descrive queste terribili anime nere shakespeariane, orride sorelle, erroneamente marginali, che dicono sempre le loro fatali verità.
Nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano, al Teatro Studio, Via Rivoli 6 – Repliche fino a domenica 1 dicembre.

“Il martedì al Monoprix” di Emmanuel Darley, con Enzo Curcurù. Commedia acclamata al Festival di Avignone e di Edimburgo, affronta la difficile tematica della differenza e dell’esclusione, mettendo in scena il conflitto fra un figlio transessuale e suo padre nella cornice della vita quotidiana. “Il martedì al Monoprix”, di E. Darley, con E. Curcurù, regia di Raffaella Morelli (scene Moretti, costumi Napolitano).
Teatro Elfo Puccini (Sala Bausch), Corso Buenos Aires 33, Milano. Dal 19 al 24.

Da mercoledì 20 novembre, debutta “Ritorno a casa” di Harold Pinter al Piccolo Teatro Grassi. Dopo l’inquietante versione di Luc Bondy, la scorsa stagione, con Bruno Ganz ed Emmanuelle Seigner, questo nuovo allestimento è ora proposto da Peter Stein con Paolo Grazosi e Arianna Scommegna.
Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello, Milano. In scena fino all’1 dicembre.

“Prodigiosi deliri”, in prima nazionale, ispirato a due studi di Sigmund Freud e Ludwig Binswanger, affronta i casi del dott. Schreber e di Ellen West, forse i due capitoli più emblematici di tutta la psichiatria moderna. Nella diversa patologia nervosa (paranoica quella di Schreber, isterica quella di Ellen), sono stati cercati e sviluppati quegli elementi teatrali utili a un disegno drammaturgico e scenico.
“Prodigiosi deliri”, con Mario Sala, Patrizia Zappa Mulas, regia Lorenzo Loris, al Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16, Milano. Dal 20 novembre al 22 dicembre.

Giovedì 21, al Teatro Franco Parenti, “Miseria e nobiltá”, di Eduardo Scarpetta, uno dei titoli più famosi della drammaturgia partenopea. Cavallo di battaglia dei più grandi attori napoletani (e non) del secolo scorso, viene ora presentato integralmente in italiano, nella riduzione di Geppy Gleijeses. La commedia ha come protagonista Felice Sciosciammocca, celebre maschera di Eduardo Scarpetta, e la trama gira attorno all’amore del giovane nobile Eugenio per Gemma, figlia di Gaetano, un cuoco arricchito. Il ragazzo però è ostacolato dal padre… “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta, con Geppy Gleijeses, Lello Arena e Marianella Bargilli, e con Gina Perna, Antonio Ferrante, Gino De Luca, Loredana Piedimonte, Antonietta D’Angelo, Vincenzo Leto, Jacopo Costantini, Silvia Zora, Francesco De Rosa; regia Geppy Gleijeses.
Teatro Franco Parenti – Sala Grande – Via Pier Lombardo 14. Milano – Repliche fino a domenica 1 dicembre

Cosa succede se un brutto diventa bello? Grottesca satira di Von Mayenburg al Teatro Filodrammatici

Milano. Una scena di “Brutto”, di Marius von Mayenburg, al Teatro Filodrammatici.

Milano. Una scena di “Brutto”, di Marius von Mayenburg, al Teatro Filodrammatici.


(di Paolo A. Paganini) E se gli uomini avessero la stessa faccia? Ebbene, nello “scherzo” teatrale “Brutto”, di Marius von Mayenburg, quarantunenne drammaturgo tedesco, non proprio sconosciuto in Italia, abile, mordace, acuto, sottilmente ironico, ma dalla battuta a volte feroce ed esilarante, sembra farsi la stessa domanda di cui sopra. La risposta arriva a un parossismo estremo ed esasperato, tatralmente scontato ma d’interessante presa drammaturgica. Ebbene, se gli uomini avessero la stessa faccia, le mogli, per esempio, avrebbero piccanti occasioni di scelta nel portarsi a letto il marito e tutti quelli che somigliano al marito, senza mai sapere qual è mai il legittimo. E gli stessi uomini potrebbero giocare sull’equivoco per boccacceschi scambi di persona. Ma la più curiosa ipotesi è quella per la quale, in un certo senso, si verrebbero a uniformare i sessi in una specie di ambiguità solipsistica. Cioè, vedendo una bella persona uguale in tutto e per tutto a sé stessi, come se si fosse davanti a uno specchio, verrebbe da dire: mi piaccio, mi amo, con l’altro che contraccambia l’autogiudizio con conseguente omofilia. Fine.
Qui, ora, al Teatro Filodrammatici, in un atto unico di un’ora e dieci senza intervallo, l’azione nasce dall’orrenda bruttezza d’un geniale inventore che si convince a rivolgersi a un esperto chirurgo plastico per farsi cambiare i connotati. Ebbene, con l’intervento, diventa bellissimo. E il chirurgo ha un tale successo che si allarga a dismisura il numero dei pazienti, tutti smaniosi di diventare belli come il prototipo. Ovviamente, non si cambia cavallo in corsa. E il chirurgo, visto che gli era riuscito così bene il primigenio intervento, lo ripete in tutto uguale anche per gli altri. Conseguenza: un mondo di facce uguali, con i grotteschi e pruriginosi effetti che abbiamo descritto più sopra.
Con qualche intrinseco riferimento critico alla globalizzazione e alla moda degli interventi plastici (Von Mayenburg non ha tutti i torti, guardando alla pazzia di tante donne, tutte con le labbra uguali, tutte con gli zigomi tirati alti uguali, tutte con i seni uguali, tutte con le chiappe liposuzionate…).
Ma è marginale rispetto alla grottesca comicità di questa pièce, tutta giocata con abile, divertita partecipazione da Tommaso Amadio, Mirko Ciotta, Michele Radice e Cinzia Spanò. Interessante la regia di Bruno Fornasari, qua e là un po’ pasticciata, ma poco avrebbe potuto fare di diverso con i quattro interpreti, in frenetica successione di scene senza soluzione di continuità, in ruoli anche diversi. Grandi risate e successo finale di pubblico.

“Brutto”, di Marius von Mayenburg, al Teatro Filodrammatici, Milano. Repliche fino a domenica 1 dicembre.

“Venere in pelliccia”di Polanski, con una sfrontata, pitonesca Emmanuelle Seigner

Venere-in-pelliccia_h_partb 2(di Paolo Calcagno) Solamente due attori davanti alla cinepresa, l’ispirata e travolgente Emmanuelle Seigner e lo straordinario campione della recitazione dal “taglio su misura” Mathieu Amalric, un esterno iniziale e, poi, per tutto il film, l’interno spoglio della sala di un teatro per le prove. Roman Polanski, dopo “Carnage”, conferma la sua predilezione per il cinema “a corto raggio”, di dichiarata ispirazione teatrale, dove domina la parola, un diluvio di parole, e il palcoscenico si trasforma in un ring per un combattimento destinato a terminare prima del limite e nel quale non sono per niente esclusi i colpi bassi. Fragori di tuoni e improvvisi lampi fanno da colonna sonora al duello, prima malizioso e, infine, devastante, di “Venere in pelliccia” (tratto dalla pièce “Venus in Fur”, di David Ives, a sua volta ispiratosi all’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch).
E’ pomeriggio inoltrato e Thomas ha passato l’intera giornata a fare audizioni alle attrici che aspirano alla parte d Wanda nel lavoro che, come autore e regista, si prepara a mettere in scena. Thomas parla al telefono e si lamenta dell’inadeguatezza strutturale delle candidate che ha esaminato, non soltanto interpreti prive di talento ma addirittura carenti come essere umani, come giovani moderne, lanciate sul fronte dell’esistenza, prone a venerare l’effimero, improbabili nel ruolo della gran dama ottocentesca del copione, domatrice di uomini e degli accadimenti cruciali della vita. Thomas sta per uscire dalla sala-prove quando in platea irrompe Vanda, attrice eternamente in ritardo, che riesce a respingere tutti i tentativi del regista di non concederle l’audizione. Vanda è inarrestabile, sfrontata, pitonesca: s’insinua nei piccoli spazi lasciati liberi al suo assalto dall’intransigenza marmorea di Thomas (uno squillo del telefono, uno sguardo alla lista degli appuntamenti) e si avvinghia, soave ed energica, al povero regista, lo ammalia con la sua arte seduttiva, perversa e irresistibile, lo incanta con l’arguzia e lo splendore delle sue qualità d’attrice, fino a stordirlo e a privarlo di ogni possibile difesa. All’inizio, Thomas tratta Vanda con sufficienza, la liquida senza tanti complimenti poiché la giovane rappresenta ciò che egli detesta: è stupida, è volgare. Ma ogni tentativo di respingere Vanda, che peraltro ha lo stesso nome della protagonista della pièce, s’infrange contro il muro incrollabile della volontà della donna di ottenere l’audizione e, persino, la parte. Thomas senza volerlo si trova di fronte al suo personaggio. Con stupore si accorge che l’attrice conosce perfettamente la protagonista della commedia, sa a memoria le battute, ha con sé abiti e oggetti di scena del tutto appropriati, sa dosare luci e ombre sul palco, sa persino dirigere il suo interlocutore cui Thomas si adatta a prestare voce e figura, e non solo.
Polanski, che per gran parte della sua cinematografia ha indagato da “maestro” sul lato oscuro della condizione umana (“Rosemary’s Baby”, “L’inquilino del terzo piano”), stavolta, come già in “Luna di fiele”, si diverte a rappresentare la crudeltà del gioco seduttivo, l’annientamento delle sue finalità , il vuoto in cui rimbalza, disperato e inconsolabile, il sesso inappagato e frustrato dall’impossibilità di possedere e, quindi, di amare. E alla più crudele delle seduzioni evocate da Polanski, dà ancora una volta carne e sangue, oltre a una buona dose di contagiosa ironia, la magnifica Emmanuelle Seigner che si presenta come facile e sprovveduta preda e si rivela spietato e meraviglioso carnefice. Thomas finisce nella trappola di Vanda, viene spezzato e umiliato dalla morsa seduttiva del suo personaggio che, balzato dal copione sulle tavole del palcoscenico, trasformato da Wanda in Vanda, lo cattura, lo distrugge e, infine, lo abbandona alle sue macerie.
Terrificantemente illuminante del senso di “Venere in pelliccia”, e della visione dolorosa di Polanski in tema di amore e passione, è una delle ultime scene del film, quando Vanda-Wanda, distesa su un divano, prova e stravolge il potere del fascino della protagonista: “Vieni qui. Abbracciami”, incita lei. Lui si distende tra le braccia di lei e obbedisce. “Vedi? Per un’ora posso farti immaginare di essere di nuovo libero. Di essere il mio amato, sciocco che non sei altro. A un certo punto ti renderai conto che non sei niente. Che in realtà sei qualunque cosa io voglio che tu sia. Una persona. Un animale. Una pistola scarica. Uno spazio da riempire. Un vuoto”.

“Venere in pelliccia”, regia di Roman Polanski, con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric. 2013

I “Giorni” di Beckett, così “felici”, così disperati, con Nicoletta Braschi al Franco Parenti

Milano. Nicoletta Braschi, protagonista di “Giorni felici” di Beckett al Salone Franco Parenti (Gianni Fiorito)

Milano. Nicoletta Braschi, protagonista di “Giorni felici” di Beckett al Salone Franco Parenti (Gianni Fiorito)

(di Paolo A. Paganini) Nel 1759 Voltaire scrisse “Candido”, romanzo tra l’ironico, il satirico e il blasfemo, nel quale vengono descritte le incredibili disgrazie, le più tragiche peripezie che Candido, di nome e di fatto, viene ingiustamente a subire. E ciò nonostante continua, imperterrito e felice, a dichiarare che questo universo di miserie e di violenze è “il migliore dei mondi possibile”. In realtà, il pamphlet di Voltaire era una satirica presa di posizione contro la dottrina leibiniziana, ma poco importa. L’assunto filosofico venne ben presto trasfigurato in una universale canzonatura come apologo della noia e della stupidità della vita, con ciò condannando per sempre il facile ottimismo intellettualistico. Una risata vi seppellirà.
Così la pensò, duecento anni dopo, anche Samuel Beckett, il quale con “Giorni felici” descrisse la tragedia del vivere umano nella potenziale condizione di desolata ottusità di una umanità, tuttavia felice di stare quaggiù. Come ora sostiene questa Winnie di Nicoletta Braschi, che, stolidamente convinta e ottimisticamente riconoscente, continua a dichiarare quanto siano felici i suoi giorni. Eppure, nei due tempi di “Giorni felici” (un’ora il primo, mezz’ora il secondo) al Teatro Franco Parenti, Winnie è lì con mezzo corpo sepolto in una fossa, allegoria di una umanità imprigionata nella fatale schiavitù della vita prima che la fossa si chiuda inesorabilmente sull’ultimo anelito. Ciononostante, Winnie, in un assurdo attaccamento, continua, senza ribrezzo di sé, a vivere felicemente delle sue piccole cose, lo spazzolino da denti, il rossetto, una lima per le unghie, mentre il marito Willie, fuori dalla buca, paralizzato, si trascina miseramente in grugniti e bofonchiamenti.
Nicoletta Braschi? Un capolavoro di controllato senso della misura. Insistita nella sua logorroicità petulante e felicemente stupita in elogio della “bellezza” del mondo, eppure intervallata da sapienti, tragici silenzi, specie nella seconda parte, quand’ormai emerge solo con la testa. La mimica facciale, l’angoscia degli occhi, che forse per la prima volta insinuano il dubbio, sono state di una “felice” tragicità.
Altro che Beckett comico!
Accompagnata dalla presenza inquietante di Roberto De Francesco (Willie), lo spettacolo è stato (finalmente) seguito da un laico rispettoso silenzio da parte del folto pubblico. Applausi entusiastici alla fine.

Si replica fino a domenica 24