Le magie dei film muti (ma con voci dal vivo) tra i fantastici incantamenti dei giochi onirici del “Flauto magico” di Mozart

TORINO. Domenica 2 aprile ► (di Carla Maria Casanova) – Se c’è un’opera dove chi cura l’allestimento può sbizzarrirsi in ogni direzione senza preoccuparsi minimante della logica, questa è il mozartiano Flauto magico. Per anni (secoli) studiosi, musicologi, psicologi e registi si sono scervellati invano alla ricerca di una parvenza di raziocinio. Alla fine è stato mutualmente deciso di decretarla “opera massonica”, senza peraltro raggiungere nessuna coerenza. Nel ‘700 l’Europa viveva una grande passione per l’Egitto ma, i ritrovamenti archeologici essendo ancora lontani, si è scelto di appropriarsi di simboli e geroglifici di fantasia: figure umane con testa zoomorfa, sciacalli, civette, coccodrilli… come certe divinità egizie. Il riferimento con la massoneria poteva funzionare.
Con l’andare del tempo, registi ardimentosi si sono avventurati per altre strade. Nel XX secolo sono rimaste famose le produzioni di Oskar Kokoschka, Marc Chagall, David Hockney, Renato de Simone, tutti registi di forte temperamento fantasioso. In questo novero troveranno oggi posto Suzanne Andrade e Barrie Kosky, creatori del gruppo “1927”, coadiuvati da Paul Barrit (animazioni) e Esther Bialas (scene e costumi). Sono gli autori dello spettacolo della Konische Oper Berlin ripreso dal Regio di Torino che, per la prima volta, ha messo in cartellone “Il flauto magico”.
Un’opera curiosa, una fiaba che fiaba non è, una storia d’amore raccontata come una fiaba senza né testa né coda, l’eterna lotta tra il bene e il male dove non si capisce dove uno finisce e l’altro incomincia e i personaggi non si sa se siano buoni o cattivi, fuorché la coppia protagonista degli innamorati (Tamino e Pamina) anonimi e piuttosto banali, molto seriosi ma cattivi certo no, e un personaggio (Papageno) che è buffo e tale rimane dall’inizio alla fine.
Mozart scrisse Il Flauto nel 1791, pochi mesi prima di morire, per il Theater auf der  Wieden, teatrino minore nei sobborghi di Vienna dove si allestivano soprattutto Singspiel (o Zauberoper), lavori di soggetto magico-fantastico un po’ cantati un po’ parlati, solitamente in dialetto, con cantanti spesso raccogliticci quando non improvvisati. Così avvenne anche per la prima compagnia del Flauto, dove il librettista Emanuel Schikaneder (anche direttore del teatro), interpretava Papageno, mentre altri ruoli erano affidati a parenti di Mozart.
Pur così sistemato Il flauto magico ottenne subito consensi incondizionati: oltre cento repliche solo nel primo anno di programmazione. In questo caso, però, c’era un salto di qualità a depistare e sovvertire ogni giudizio e gradimento: il compositore. Mozart aveva trasformato questo “gioco” in un capolavoro assoluto, una delle vette dell’arte musicale. Una partitura che raccoglie in sé tutti i più importanti elementi stilistici e razionali della musica operistica settecentesca fondendoli in una unità drammatico-musicale carica di significati simbolici, addirittura modello imprescindibile dell’opera romantica tedesca, a cominciare da Weber (Oberon) per arrivare a Wagner (e oltre). Mentre Goethe dichiarò che solo quella musica avrebbe potuto accompagnare il suo Faust.
A questo punto non importano più le incongruenze dei personaggi e della storia. Il libretto, tanto per ricordare, racconta così: in una terra fatata, il principe Tamino sviene alla vista di un terribile drago che verrà ucciso da tre Dame al servizio Astrifiammante, Regina della Notte. Quando Tamino riprende i sensi gli viene imposto di salvare Pamina della quale si è follemente innamorato dopo averne visto un ritratto. È la figlia della Regina della Notte, rapita da Sarastro (che però non è cattivo, mentre è cattiva Astrifiammante, che ingiunge a Pamina di uccidere Sarastro…). Per avere Pamina, Tamino dovrà sottoporsi a dure prove (vedi iniziazione massonica). Per superarle riceve un flauto (magico, appunto). Intanto è comparso un buffo personaggio coperto di piume: Papageno l’uccellatore. Accompagnerà Tamino nel suo percorso iniziatico nel tempio di Iside. Dopo varie peripezie, tra le quali la ricerca di Papageno di una compagna da sposare, Tamino esce vittorioso dalle prove di fuoco, acqua, aria e terra. Allora, con uno spaventoso boato, la terra trema e inghiotte Astrifiammante e i suoi fidi, mentre Sarastro seduto sul trono del tempio benedice la coppia Tamino-Pamina celebrando la vittoria del Sole sulle tenebre.
L’ho fatta breve, saltando vari passaggi. Non che si capisca qualcosa di più.
Per portare in scena questo singolare spettacolo, il team “1927” (anno del primo film sonoro) è tornato al cinema muto, tutto proiettato su grande schermo. Ha operato anche un mutamento nel tessuto musicale: i dialoghi parlati (sempre piuttosto noiosetti), sono in gran parte aboliti, lasciando il posto a grandi didascalie, secondo lo stile tipico del genere. Per sottofondo è stato inserito un accompagnamento alla tastiera con Fantasie per pianoforte di Mozart (proprio come nei tabarin primo Novecento). Ne deriva una grande animazione con personaggi reali sincronizzati a disegnini e frasi in movimento sullo schermo, spesso assai spiritosi, che aiutano il pubblico a capire cosa succede.
Siccome le scene del Flauto volevano essere grandiosamente barocche, con abbondanza di macro-effetti, qui non si è lesinato a immagini, colori, e simulati marchingegni riprodotti con cifra attuale. I riferimenti al cinema muto sono evidenti in Papageno, che richiama Buster Keaton, o Pamina, che ha il look di Louise Brooks. Una combinazione di spettacolo dal vivo e animazione, per una forma d’arte del tutto nuova. “La nostra ispirazione visiva – dice il regista – è tratta da molte epoche, dalle incisioni su rame del XVIII secolo fino ai fumetti di oggi.” Il tutto funziona, forse con qualche immagine in eccedenza. È comunque nuova e, come sappiamo, a contare sono sempre le idee.
L’esecuzione musicale. Sesto Quatrini ha diretto con precisione l’orchestra del Teatro Regio composta da un organico non molto differente da quello consueto della musica sinfonica di fine Settecento. La presenza del pianoforte in orchestra non provoca alcun turbamento. Al contrario, può avvicinare la sonorità dell’orchestra a quella originale, se si ricorda che il clavicembalo veniva usato come basso continuo. Dei due cast di cantanti che si alternano a ritmo serrato, io ho ascoltato il secondo, nel quale mi sono parsi eccellenti Gurgen Baveyan (Papageno), Giovanni Sala (Tamino), Gabriela Legun (Pamina), In-Sung Sim (Sarastro). Vagamente in difficoltà Beate Ritter (Regina della Notte) fatta segno comunque di calorosi applausi dopo la sua pirotecnica aria. Il Coro del Teatro Regio ha dato una esecuzione ottimale dei bellissimi brani all’interno dei due Finali, definiti da Hermann Abert, per loro originalità, “l’atto di nascita del recitativo drammatico ottocentesco”.

L’opera, data in tedesco, dura 2 ore e 50 minuti. Repliche, con interpreti alternati, nei giorni 2, 4, 5, 7, 8, 11, 13, 14.

Bagnacavallo: straordinario borgo medievale da scoprire. Piazze teatri palazzi, e ghiotte offerte di mostre e spettacoli

(di Andrea Bisicchia) – BAGNACAVALLO è uno dei borghi medievali più belli d’Italia, i cui reperti risalgono alle dominazioni romane, etrusche e galliche. Si trova a 10 chilometri da Ravenna, solo che possiede una storia monumentale ed artistica completamente diversa, sia per quanto riguarda l’architettura religiosa, dove svetta il complesso monumentale di San Francesco, col suo bellissimo Chiostro e le varie sale espositive, sia per quella civile con il suo Castello, noto come il Palazzaccio, di origine quattrocentesca.
Il Sindaco, però, ha scelto il Teatro Goldoni per fare partire il suo progetto culturale che ha presentato insieme all’Assessore alla Cultura e a quello regionale.
Il teatro Goldoni si è caratterizzato, soprattutto, negli ultimi anni, non solo per le illuminate programmazioni fatte da Accademia Perduta / Romagna Teatri, ma perché volutamente viene scelto da alcune Compagnie per dei debutti nazionali, è accaduto quest’anno con “Cosi è, se vi pare”, con Milena Vukotic, regia Geppy Gleijeses, e con “La madre”, protagonista Lunetta Savino, regia di Marcello Cotugno. Il teatro, edificato nel decennio 1835-45, fu intestato a Carlo Goldoni essendo stato suo padre medico condotto a Bagnacavallo per due anni, dove il futuro commediografo ha anche vissuto da fanciullo. Ha una platea a ferro di cavallo, tre ordini di palchi, col loggione e con parapetti continui, e fu interamente affrescato da Francesco Migliari, mentre i pregevoli stucchi e decorazioni si debbono al bolognese Antonio Tognetti, inoltre vanta un bellissimo sipario, recentemente restaurato, opera di Antonio Muzzi di Bologna.
Proprio da questa sede inizierà il 30 marzo una visita guidata, tutti i giorni alle ore 10,30, per scoprire la storia e i segreti del Teatro Goldoni, considerato la Scala della Bassa Romagna. L’invito è valido per tutti e in particolare per i turisti che frequentano, sempre più numerosi, il ridente borgo.
Ma non è tutto, perché un altro luogo meraviglioso da visitare è Piazza Nuova, costruita ad Anfiteatro nel Settecento, in forma ellittica, con i portici che si sviluppano a loggia, con un susseguirsi di 30 archi a tutto sesto, poggiati su pilastri squadrati, dove, negli anni passati, ci siamo recati, da Milano, per vedere alcuni debutti nazionali di Dario Fo, di cui ricordiamo il suo “Ruzante” e “Lu santu iullare Francesco”.
A questi luoghi, vanno aggiunte le architetture seicentesche del Palazzo Folicaldi, dove si fermò Pio IX, durante la sua visita in Romagna nel 1857, e del Palazzo Capra, noto per avervi ospitato la Regina Cristina di Svezia nel 1662 durante un suo viaggio a Roma.
Nel centro storico, si può ammirare la Torraccia, risalente al XIII secolo, uno degli edifici più antichi del borgo, insieme alla Pieve di San Pietro in Solvis che risale, addirittura al VII secolo, con notevoli affreschi trecenteschi.
“Benvenuti a Bagnacavallo” è lo slogan utilizzato per invitare chi abbia voglia di fare un giro nel ravennate e ammirare gli spazi architettonici indicati, in un territorio dove c’è dell’altro, come il Museo Civico delle Cappuccine, un ex convento settecentesco, dove si può ammirare il Gabinetto delle stampe antiche, oltre che un’ampia sezione dedicata all’arte contemporanea, il Museo delle Erbe Palustri, e l’affascinante Podere Pantaleone, un’oasi naturalistica di circa nove ettari, ricca di flora e fauna, tipiche della zona.
In ogni spazio verranno allestiti incontri culturali e spettacoli.

Straordinarie immagini d’un mito: Valentina Cortese. Teatro cinema tv. Vita privata, lavoro, sacrifici. E infiniti successi

(di Andrea Bisicchia) – In tanti l’abbiamo ammirata, in tanti ricordano almeno le sue memorabili interpretazioni, con le regie di Strehler, di “I giganti della montagna”, “El nost Milan”, “Santa Giovanna dei macelli”, “Il giardino dei ciliegi”, basterebbero questi spettacoli per fare di Valentina Cortese (1923-2019) un mito, solo che, il mito, lei lo aveva costruito con tanto lavoro, con tanta passione, con tanta lungimiranza, lottando contro la sua vita difficile, essendo stata adottata in tenera età, dopo che il conte Napoleone Rossi di Coenzo, ricco proprietario terriero di Bruscello, vicino Reggio Emilia, già sposato e padre di due figli, non l’aveva riconosciuta, dopo un fugace rapporto con Olga Cortese, diplomata al Conservatorio di Torino, sempre in viaggio, per esibirsi in tutto il mondo.
Valentina avrebbe potuto vivere agiatamente, cosa impossibile con la famiglia adottiva che non la si poteva considerare, certo, benestante, visto che papà Giuseppe era un ottimo falegname che, guadagnando poco, decise di fare lo spazzino municipale.
Valentina è cresciuta tra tante difficoltà, un po’ alleviate quando a 14 anni andò a vivere con la nonna materna a Milano, dove poté iscriversi al Liceo artistico, diventando appassionata di cinema. La sua grande passione si manifestò subito, voleva recitare a tutti i costi, tanto che cominciò a fare dei servizi fotografici da mandare alle varie agenzie. Nel frattempo ottenne dal sindaco di Stresa, dove si trovava con la nonna, di interpretare “La maestrina” e “Scandalo” di Nicodemi. Qualche giorno prima del debutto, propose a dei clienti del Grand Hotel de Milan l’acquisto dei biglietti per i suoi spettacoli teatrali. Qui incontrò Victor De Sabata, noto direttore d’orchestra e fu amore a prima vista, benché ci fossero trent’anni di differenza, avendo lei 18 anni e lui 48. Col Maestro si trasferì a Roma dove potrà frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica e dove frequentò Cinecittà, iniziando a lavorare, firmando alcuni contratti con le case di produzioni cinematografiche più importanti. Nel 1942, si può ammirare in “La cena delle beffe”, con la regia di Blasetti, da quell’anno però, fino al ’45, Cinecittà rimarrà chiusa a causa della guerra. Valentina, ne approfitta per dedicarsi al teatro, viene scritturata da Orazio Costa per “Amarsi male” di François Mauriac, recitando a fianco di Rossano Brazzi.
Per chi volesse seguire la biografia artistica, accompagnata da una ricca iconografia, con materiale inedito, può leggere il volume, curato da Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, “Valentina Cortese. Album di Famiglia”, edito da Pazzini per la Regione Lombardia, che ha curato una mostra in occasione del centenario della nascita, nello Spazio Espositivo IsolaSet, utilizzando le foto dell’Archivio Zanoletti/Cortese, col contributo di altro materiale, fornito dal Piccolo Teatro. Molte sono le immagini che si caratterizzano per la loro alta qualità.
Il lettore si trova dinanzi a un genere particolare, quello della biografia per immagini che, pur trattando della attività professionale della grande attrice, viene introdotto in un percorso intimo e familiare. Il lavoro di ricerca, a dire il vero, non è stato semplice per i due curatori, avendo dovuto esplorare archivi e fonti internazionali, data l’internazionalità dell’attrice, protagonista di un centinaio di film e di circa ottanta opere teatrali, per non parlare delle sue numerose presenze televisive.
Come si è potuto capire, ci si trova dinanzi a un “racconto”, più che un saggio, un racconto che esplora la biografia privata di una donna, diventata attrice, fino a trasformarsi in mito, grazie a una vita ricca di avvenimenti, di rapporti personali e di tanto lavoro, oltre che di molte amicizie e di infiniti successi.
Su di lei è stato scritto di tutto, sia in Italia che all’estero, come non ricordare il breve saggio di Bernard Dort: “Valentina Cortese, ovvero la contraddizione”, di cui però l’attrice si faceva beffe, e come dimenticare le parole di Paolo Grassi: Quanta autentica capacità, quanta grande originalità, quale mondo “suo” particolare Valentina porta sul palcoscenico, ogniqualvolta vi appaia.
Va ricordata anche la monografia di Alfredo Baldi, “Le nove vite di Valentina Cortese”, in cui l’autore scrive di essersi trovato dinanzi “all’ultima diva della scena italiana”.

“ALBUM DI FAMIGLIA. VALENTINA CORTESE”, a cura di Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, Pazzini Editore, pp. 184, s.p.

Lino Guanciale a mitraglia. Un testo caleidoscopico in un ottovolante di emozioni. Un’ora e mezzo di puro godimento

MILANO, mercoledì 22 marzo (di Emanuela Dini) Una montagna di magliette che potrebbe trovarsi in un magazzino, una discarica, un outlet; un leggio e una maschera anti gas, una bambola bionda in balconata e un’altra, una Barbie, che cala dall’alto; un fisarmonicista slavo che tenta di rubare la scena (e un po’ ci riesce); un testo caleidoscopio e martellante; un attore-voce narrante che inventa voci, personaggi, gesti, si trasforma indossando magliette diverse una sull’altra, recita e declama e ti fa salire su un ottovolante di emozioni che ti verrebbe voglia di urlargli: “Aspetta, fermati, cos’hai detto? Ma davvero è andata così? Ripeti, per favore, che sei andato troppo in fretta”.
È “Europeana-Breve storia del XX secolo” in scena al Piccolo Teatro di Via Rovello, con Lino Guanciale protagonista e regista, tratto dal libro di Patrik Ourednik, autore contemporaneo (è nato nel 1957) ceco naturalizzato francese.
Un libro – e uno spettacolo- che è un insieme frenetico di notizie sulla storia del XX secolo, raccontata senza ordine, alla rinfusa, un susseguirsi di scampoli, brandelli, flash della storia europea, entusiasmi, tragedie, slanci, efferatezze, passioni e guerre raccontati tutti insieme, un po’ come viene, con caustico sarcasmo, passando con disinvolta soavità dalla farsa alla tragedia e viceversa. E così stanno tutti insieme, i morti della Prima Guerra mondiale “15.508 chilometri di cadaveri, messi uno dietro l’altro” e l’invenzione del reggiseno (1914), le camere a gas dei nazisti e i rotoli di carta igienica (made in Svizzera, 1901); le dittature e le efferatezze dei regimi tutti uguali nelle loro atrocità e l’arrivo della Barbie (1959) “la prima bambola che si comporta da donna adulta”. E i vari sapientoni, storici, filosofi, linguisti, analisti, sociologi che tentano di dare definizioni e mettere le loro etichette, ma non riescono a capire né spiegare perché l’uomo non è ancora diventato migliore.
Il tutto – 156 pagine fitte fitte per un’ora e 20 di spettacolo senza intervallo – letto e recitato da un Lino Guanciale in splendida forma, che incalza al ritmo di un frullatore (“Vorrei proprio che il pubblico avesse la sensazione di essere finito dentro il vortice di un frullatore”), modula tempi e toni, dà vita a un pupazzo che sembra l’umarèl dal caro, vecchio buon senso, indossa a ogni storia diversa una maglietta diversa con i vari simboli e loghi – falce e martello, il ciuffo di Hitler, la stella ebraica, la Coca Cola, la mela della Apple e la spirale del DNA – e mette in scena un vero corpo a corpo tra attore e testo – lui, che in gioventù è stato nazionale di rugby e di corpo a corpo se ne intende – non si risparmia, duetta con il fisarmonicista sloveno Marko Hatlak, e non si capisce chi dei due si diverte di più. Puro godimento.
Sala piena, con tantissimi giovani, applausi anche a scena aperta, uno spettacolo da non mancare.

———————————————————-

“Europeana – Breve storia del XX secolo”, di Patrik Ourednik – Diretto e interpretato da Lino Guanciale – Musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonicista – Costumi ed elementi di scena di Gianluca Sbicca – Luci Carlo Pediani – Coproduzione Wrong Chikld Production e Mittelfest 2021 in collaborazione con Ljubljana Festival. Al Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano – Repliche fino a domenica 2 aprile. Informazioni e prenotazioni 02.21126116.

www.piccoloteatro.org