Dal dialetto arcaico di pezzenti, miserabili ed emarginati al realismo poetico di Franco Scaldati. Catastrofe e salvezza

(di Andrea Bisicchia) Il nome di Franco Scaldati è stato accostato a Pirandello, Testori, Pasolini, con i quali vengono riscontrate convergenze di tipo linguistico, oltre che di tipo sociale, visto che molti dei protagonisti vivevano ai margini delle città, nelle periferie milanesi, quelle del Fabbricone, nelle periferie romane e in quelle palermitane della Zisa. Ma sono stati fatti anche i nomi di Beckett, Copì, Muller, Handke.
C’è da dire che un vero drammaturgo lo si riconosce subito dalla scrittura, ovvero dalla capacità di inventare un lessico che si caratterizza per la novità linguistica, per le sue basi fantasmatiche, per la sonorità e per la capacità di sublimare la realtà, per poterla trasferire in un mondo metaforico, fatto di sogni, di attese e di immaginazione.
Nella scrittura è riconoscibile l’identità non solo di un autore di teatro, ma anche dei registi che lo mettono in scena, erano, infatti, riconoscibili gli spettacoli di Strehler, Ronconi, Nekrosius, Brook, solo per citare alcuni noti registi. Non per nulla continuiamo a sostenere che ogni rivoluzione artistica è sempre una rivoluzione linguistica. Non c’è dubbio che gli autori più importanti del secondo Novecento siano quelli che hanno diretto le loro scelte verso forme linguistiche inusitate, dal grammelot di Dario Fo al plurilinguismo di Testori, alla inconfondibile koiné di Pasolini, al napoletano di Moscato, al dialetto arcaico di Scaldati.
Dobbiamo a Valentina Valentini che ha già curato, per l’Editore Marsilio, una serie di testi dell’autore palermitano, il volume edito da Titivillus: “Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati”, che raccoglie una serie di saggi fondamentali, non solo di docenti, di ricercatori, ma anche di attori, collaboratori degli spettacoli di Scaldati, come: Marion d’Amburgo, Melino Imparato o come la costumista Antonella Di Salvo.
A dire il vero, la prima scoperta di Scaldati la si deve all’interesse del regista e direttore del Teatro Biondo di Palermo, Pietro Carriglio, che lo scelse più volte come attore, oltre che come autore e, ancora, all’interesse di registi palermitani come Umberto Cantone e Matteo Bavera. Fu però determinante l’interesse di Franco Quadri che, nel 1990, pubblicò, con traduzione a fronte, alcuni capolavori, come “Il pozzo dei pazzi”, “Assassina”, “La Guardia dell’acqua”, “Occhi”, con prefazione di Vincenzo Consolo.
Il pubblico milanese potè assistere in quegli anni alla messinscena di “Il pozzo dei pazzi”, con la regia di Elio De Capitani, e di “Lucio”, con la regia di Cherif, entrambi al Teatro dell’Elfo. Si trattò di due eventi che non ebbero quella circuitazione necessaria per far conoscere un autore scomodo, come Scaldati, circuitazione che si è avverata, recentemente, con “Totò e Vicé”, portato in scena, con un grandissimo successo, dalla coppia Vetrano-Randisi, mentre il testo lo si può leggere nell’edizione Cue Press.
Anche se Scaldati ha dichiarato di essersi accostato a Testori, la differenza tra i due è alquanto controversa, perché gli Scarrozzanti sono i vagabondi del teatro povero, sono degli emarginati che fanno uso di un plurilinguismo tutto inventato, che è ben diverso dal dialetto di Scaldati, parlato dai suoi protagonisti, tutti appartenenti a quei miserabili che vivono nei quartieri più poveri di Palermo.
Al rapporto Scaldati-Testori è dedicato il saggio di Carlo Serafini che riscontra in entrambi il culto sacro per la parola che si fa carne e sangue.
Anche il rapporto tra Scaldati e Pasolini è un po’ controverso, come ha dimostrato Stefano Casi nel suo intervento, sostenendo che i quartieri e i vicoli palermitani contengono una realtà ben diversa dalle borgate romane, anche perché, mentre Pasolini amava il suo sottoproletariato, Scaldati non amava i suoi pezzenti che però immetteva in un realismo poetico.
Fondamentali sono i saggi di Viviana Raciti e di Valentina Valentini per conoscere l’intera produzione teatrale di Scaldati, alla Raciti dobbiamo la preistoria, avvenuta nelle “cantine” palermitane, degli esordi di Scaldati e l’ordinazione dei testi teatrali che ha raccolto, sistemandoli, per decenni, alla Valentini dobbiamo l’attraversamento delle Opere, tra pagina scritta e pagina scenica, tra l’atto di scrivere e l’atto di recitare, tra lingua plastica e lingua orale, tra catastrofe e salvezza.
Per quanto riguarda il rapporto con Pirandello, questo non va ricercato nell’uso del dialetto, essendo quello agrigentino alquanto “dolce” rispetto a quello palermitano, è più esatto cercare la convergenza con “I Giganti della montagna”, come ha fatto Valeria Merola che ha visto in Scaldati una specie di Mago Cotrone, anche perché gli fu commissionato da Federico Tiezzi per la sua messinscena dei “Giganti” il finale mancante, che Scaldati intitolò “Ilse uccisa dai Giganti”.
Per motivi di spazio, dobbiamo citare sommariamente gli interventi di Marco Palladini, sulla qualità musicale di “Il pozzo dei pazzi” e “Occhi”, di Andrea Vecchia, “La notte di Agostino il topo”, di Stefania Rinaldi, sull’importanza del mondo animale nella drammaturgia di Scaldati, di Stefania Rimini sulle figure femminili, di Matteo Martelli su “Totò e Vicé”, e di Cosimo Scordato su “Di in-canto e di misericordia”.
Se vogliamo proprio fare un ulteriore accostamento, come non pensare a “‘Nzularchia“ e a “La cupa” di Mimmo Borelli, per l’uso della lingua adoperata nella sua purezza espressiva.
Intanto, il Teatro Biondo ha annunziato la messinscena di “Assassina”, con la regia di Franco Maresco, il 13 marzo 2024.

Valentina Valentini (a cura di), “Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati”, Titivillus Editore 2019, pp. 208, € 16.

Venezia 80. “Povere creature!” conquista pubblico e critica, e vince il Leone d’Oro. Miglior regia, Garrone (“Io capitano”)

VENEZIA, sabato 9 settembre – Va a “Povere creature!” (“Poor Things”), del regista geco Yorgos Lanthimos, il Leone d’Oro come miglior film all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia. La sua Bella, sorta di Frankenstein al femminile, giovane donna riportata in vita da uno scienziato e desiderosa di uguaglianza e di libertà, ha convinto tutti, pubblico e critica.
Leone d’Argento per la migliore regia a Matteo Garrone per “Io capitano”, storia di immigrati (v. foto), uno dei quali interpreti, Seydou Sarr, è stato anche insignito del Premio Mastroianni.
Coppa Volpi per il miglior attore a Peter Sarsgaard (“Memory”), e per la migliore attrice a Cailee Spaeny per “Priscilla”

ECCO TUTTI I VINCITORI

Leone d’oro per il miglior film. Povere creature! (Poor Things) di Yorgos Lanthimos.

Gran premio della giuria: Evil Does Not Exist di Ryūsuke Hamaguchi

Leone d’argento per la miglior regia: Matteo Garrone per “Io capitano”

Premio speciale della giuria: Green Border di Agnieszka Holland

Miglior sceneggiatura: Guillermo Calderón e Pablo Larraín per El Conde

Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile: Cailee Spaeny per Priscilla

Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Peter Sarsgaard per Memory di Michel Franco

Premio Marcello Mastroianni (attore emergente): Seydou Sarr per Io capitano

Miglior film della sezione Orizzonti: Explanation for Everything di Gábor Reisz

Miglior regia Orizzonti: Mika Gustafson per Paradiset brinner

Premio speciale della giuria Orizzonti: Una sterminata domenica di Alain Parroni

Miglior sceneggiatura della sezione Orizzonti: Enrico Maria Artale per El Paraiso

Miglior cortometraggio Orizzonti: A Short Trip di Erenik Beqiri

Premio Leone del futuro per la miglior opera prima Luigi De Laurentis: Love Is a Gun di Lee Hong-Chi

Miglior film Orizzonti Extra: Felicità di Micaela Ramazzotti

Imperdibile progetto culturale: un artista di murales, 120 incisioni giapponesi, 4 secoli di guide turistiche, e altri eventi

(di Andrea Bisicchia)
Bagnacavallo è un Borgo Medioevale sito a 12 KM da Ravenna, si caratterizza per una attività teatrale abbastanza intensa di cui abbiamo parlato sulle pagine di questo giornale, ma anche per una altrettanto intensa attività culturale, con un cinema d’essai, aperto sia nella stagione invernale che in quella estiva, e con delle mostre che richiamano visitatori provenienti da tutta Italia.
Quest’anno, in occasione della Festa di San Michele, tre sono le mostre che si caratterizzano per una loro originalità.

Quella dedicata a ERON (nato nel 1973), il 16 settembre nel quattrocentesco ex Convento di San Francesco, artista italiano tra i più innovatori della pittura contemporanea, esponente del graffitismo, con le sue implicazioni estetiche, sociali, ma anche politiche, i cui dipinti sono presenti in Germania, Danimarca, Norvegia, Portogallo, New York, Regno Unito. In italia è stato presente alla Biennale di Venezia, mentre, a Milano si è potuta ammirare la grande opera intitolata W.A.L.L. (Walls Are Love’s Limits) realizzata, nel 2018, presso il quartiere City Life, un dipinto monumentale di 1000 metri quadri. L’artista sarà presente, non solo con dipinti murali, ma anche con l’esposizione di opere pittoriche.

Altro appuntamento, da non perdere, avrà inizio il 23 settembre, presso il Museo delle Cappuccine e sarà dedicato alla mostra “Strade e Storie: Paesaggi da Hokusai a Hiroshige (foto sopra), con opere incisorie che raccontano la tecnica della xilografia, nota anche ai pittori impressionisti che spesso si ispiravano alla loro idea di paesaggio. Al Museo delle Cappuccine negli anni recenti si sono viste mostre dedicate all’attività incisoria di Francisco Goya, Max Klinger, Albert Durer, viste da oltre trenta mila visitatori. Hokusai, pittore e incisore, (1760 -1849), è famoso per “La grande onda”, il cui significato simbolico vede contrapposte la forza della natura, alla fragilità umana. Inoltre, è noto per lo stile UKIYO, termine che letteralmente significa “Immagini del mondo fluttuante”, un genere artistico fiorito tra il XVII e il XIX secolo. Hiroshige (1797-1858) è considerato uno dei più grandi paesaggisti giapponese che eguagliò, in abilità e fama, lo stesso Hokusai. La mostra si conclude con una sala dedicata a Hiroshige II, erde del Maestro e suo successore nella scuola Utagawa. Il visitatore potrà ammirare ben 120 opere che saranno affiancate da oggetti antichi e da un Kimono decorato.

La terza mostra è alquanto curiosa, perché nell’atrio della Biblioteca “Taroni” si potranno ammirare le prime Guide turistiche, dal XVI al XIX secolo, insieme ai volumi del Fondo manoscritti della stessa Biblioteca. Le antiche guide avevano lo scopo di condurre i forestieri e gli aristocratici del “GRAND TOUR” alla scoperta delle meraviglie architettoniche e artistiche di città come Roma, Firenze, Venezia. In fondo, si tratta di una produzione che contiene tante pagine, ricche di incisioni, da ritenersi come Capostipite di quel genere.

Durante la festa saranno protagonisti anche la musica, il teatro, con “I MUSICANTI DI BREMA”, prodotto da Accademia Perduta Romagna/Teatri, una fiaba pubblicata dai fratelli Grimm, famosa per l’allegra combriccola (un asino, un cane, un gatto, un gallo) che vogliono andare fino a Brema per scappare al loro triste destino di animali, senza più sottostare agli occhi dei loro padroni. Sempre al teatro, Renata Molinari, nota collaboratrice di Franco Quadri e di UBU LIBRI, realizzerà alcuni incontri con Lino Musella e Tonino Taiuti, che ricorderanno anche l’attore Antonio Neiwiller, recentemente scomparso.
Seguiranno: nel “CUORE DEL TEATRO”, per sottolineare l’impegno civile nel percorso d’arte di Franca Graziano e “TRACCE E SEMI”, ovvero azioni e mappe teatrali, tra passato e presente.
Non mancheranno presentazioni di libri, visite guidate, eventi, concerti, nei luoghi storici della città.

Ogni epoca ha avuto, per il teatro, caratteri e definizioni pertinenti. E il nostro tempo? Sarà destinato all’OBLIO?

(di Andrea Bisicchia) – Ogni tempo ha il suo teatro, c’è stato il tempo del Grande attore, quello degli Autori, quello della Regia critica, quello delle Cooperative, della sperimentazione, quello della scrittura scenica performativa. Ogni tempo ha avuto, magari col contributo del teatro d’Arte, un rapporto privilegiato con la propria cultura.
Nel secondo dopoguerra, la cultura dominante è stata quella marxista, professata da scrittori, pittori, filosofi, registi, tutti attenti ad evidenziare un impegno sociale, oltre che politico e a fare delle loro opere una cassa di risonanza della nuova epoca, dopo la crisi e la sconfitta dei totalitarismi.
Sempre, nel secondo novecento, è stato riscontrato un “impegno” smisurato che, in parecchi casi, è coinciso con una smisurata creatività che è rimasta viva, non solo nella memoria di chi ha vissuto quegli anni, ma anche in una immensa rete di pubblicazioni accademiche che hanno tramandato alla storia quel periodo che, più volte, abbiamo definito “aureo”.
Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale, accompagnata da un dibattito che coinvolgeva, non solo gli artisti, ma anche i professionisti della critica militante, necessaria per verificare il loro lavoro. Quel tempo non conoscerà la parola “Oblio”, perché sui grandi registi, sui grandi attori e organizzatori, sui Dibattiti, è stato scritto di tutto, che è anche facile da consultare. In quel periodo sono nate forme nuove di drammaturgia, quella del “TEATRO DOCUMENTO”, del “TERZO TEATRO”, del “TEATRO DELLE COOPERATIVE”,  che ebbe, come faro, la triade : PARENTI, TESTORI, SHAMMAH, del “TEATRO DELLE CANTINE”, della “SECONDA AVANGUARDIA”, che si è prolungata con alcuni suoi gruppi nel terzo millennio, non più con la carica eversiva di un tempo, ma con una maggiore attenzione ai ritrovati della tecnologia, del TEATRO DI NARRAZIONE, che stancamente è arrivato ai giorni nostri con un molle stampo cronachistico.
Erano gli anni durante i quali il teatro non aveva bisogno di forme astruse o paradossali per comunicare, il suo linguaggio scenico era comprensibile e non lasciava perplessi gli spettatori, ai quali non si chiedeva di essere “immersivi”, bastava che partecipassero all’evento con la loro intelligenza. Il teatro era pronto per essere interpretato storicisticamente ed essere attivo grazie a continue pubblicazioni, le stesse che hanno riempito le nostre biblioteche.
Quel linguaggio, oggi, ha perso il suo valore, come, del resto, ha perso qualità la cultura, non essendo più impegnata, perché diventata uno strumento relativo, alquanto usurato, senza una logica, senza ideologia, senza impegno sociale, senza una sua identità. Tutto appare soggetto all’improvvisazione, a un continuo scimmiottare le vecchie avanguardie, con l’ausilio di video-proiezioni, diventate limitative piuttosto che innovative, proprio perché usate da tutti indiscriminatamente.
Le nuove generazioni non vogliono sentire parlare di Maestri che hanno accusato di conservatorismo, di imborghesimento, di monotonia, senza accorgersi che monotono è proprio il loro linguaggio, supportato da un autoreferenzialismo smodato, tanto che durante lo spettacolo interrompono l’azione, per parlare di sé, in maniera abbastanza imbarazzante, cosa che non si sognavano di fare i Maestri della scena, come dire che, chi cerca l’avanguardismo parlando di sé non fa altro che operazione di retroguardia.
In verità, oggi si fa molto teatro e una “regia non la si nega a nessuno”. Cosa resterà dei tanti spettacoli che vengono anche autoprodotti? Ecco, lo spettro dell’Oblio, che si aggira proprio come lo spettro di Amleto. Ed ecco perché ci chiediamo, con insistenza, cosa rimarrà del teatro del Terzo Millennio, se non possiede una vera e propria arma di lotta per sconfiggere le malattie della civiltà, ormai imputridite? Vogliamo parlare di repertori? Vogliamo dire che, anziché vedere programmati i dubbi, le inconsistenze, le disuguaglianze del nostro vivere sociale, si portano in scena i loro surrogati, magari abbellendoli con apparati luminosi e con falsificazioni dei linguaggi.
Essendo specchio della realtà, il teatro deve portare in scena la realtà del suo tempo, non una sembianza di realtà, non una imitazione, né, tanto meno, dei brani, dei riassunti, deve saperla sbattere in faccia, magari sublimandola, evitando qualsiasi forma di travestimento e di facile eclettismo. Forse Il teatro avrebbe bisogno di stroncature, quelle che non ci sono più, perché è stato fatto di tutto per estinguere la critica. Vi ricordate i lunghi verbali della CONSULTA dei CRITICI? Vi ricordate i Documenti presentati dal PCI, PSI, DC? Vi ricordate i grandi spettacoli di Strehler, Ronconi, Squarzina, Nekrosius, Brook, solo per citare alcuni.
Oggi non c’è nulla che possa essere tramandato, ecco perché il teatro del terzo millennio è destinato all’OBLIO.
Per due mesi abbiamo letto circa trenta interventi di professionisti del teatro che, credo, nessun editore tramanderà alla Storia, con qualche pubblicazione, parecchi hanno fatto un elenco di numeri, ovvero di produzioni, di presenze del pubblico, di lavoratori dello spettacolo, nessuno ha teorizzato il presente, nessuno ha progettato un futuro. Per molti di loro bastano i teatri pieni, il resto non conta, però un teatro che non sappia definire se stesso è destinato all’Oblio, che non è cessazione della memoria, ma cessazione del pensiero, incapace di eternizzare quello che c’è e quello che non c’è.
È vero, bisognerebbe superare il passato per non essere schiacciati dal ricordo, e poi?
Quale sarà il presente del teatro, tra venti, trenta anni, se non lascia alcun “materiale” da tramandare?