Labirintico percorso nella selva oscura d’un decennio di crisi. Teatro istituzioni e decreti: privi di una legge organica

(di Andrea Bisicchia) Il volume di Paolo Petroni, “La scrittura del teatro. Drammaturgia italiana al passaggio del secolo”, edito da Gambini, è destinato a essere un punto di riferimento, trattandosi di una specie di archivio, per chi volesse capire cosa sia accaduto, agli autori italiani, tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo.
Petroni è un instancabile spettatore professionista, essendo stato critico del Corriere della Sera, oltre che Capo Servizio alla Cultura e Spettacolo dell’Ansa, pertanto chi, meglio di lui, poteva assemblare e dare un senso unitario a tanti autori e testi andati in scena tra il 1990 e il 2001? Un decennio, durante il quale si è molto parlato di crisi del teatro e, in particolare, della drammaturgia italiana che, a sua volta, rifletteva la crisi delle istituzioni, crisi che culminerà con l’abolizione del Ministero dello Spettacolo, 1994, a seguito del referendum abrogativo del 1993.
Petroni si è mosso in una vera e propria “selva oscura”, come l’ha definita Guido Davico Bonino nella Prefazione, nella quale ci siamo impigliati anche noi che, con molte difficoltà, abbiamo cercato di allontanarci, grazie proprio al suo “ filo” che ci ha permesso di uscire da quel labirinto dove abbiamo trovato persino un eccesso di autori italiani che, però, hanno raggiunto poca notorietà, abbandonati a loro stessi e privi di quella “Comunità del teatro” che avrebbe  potuto sussistere grazie a una Legge organica che non c’è mai stata, perché sostituita da Decreti, ad uso della politica e di certi Direttori del Ministero competente, che li utilizzava per creare un fatuo clientelismo.
Analizzando questo decennio, Paolo Petroni ha più volte sottolineato il deterioramento della qualità del teatro italiano per l’assenza di progettazione e per il declino della drammaturgia nazionale , senza la quale, però, non potrà esserci futuro.
A ben guardare, nel decennio descritto, è accaduto di tutto: il proliferare di piccole sale, destinate alla chiusura, la poca credibilità da parte dei produttori nel teatro di parola, l’impoverimento di proposte, benché ci si trovasse dinanzi a una pletora di spettacoli, tanto da superare le cinquecento unità, a differenza delle trenta novità italiane, a cui fa riferimento Ennio Flaiano, durante gli anni Cinquanta. Si è trattato, ricorda Petroni, di spettacoli privi delle repliche dovute, un po’ improvvisati per assenza di circuitazione. Eppure, sempre nel decennio citato, a parte certi noti autori, come Fo, Ginzburg, Squarzina, Luzi, Testori, Magris, Patroni Griffi, Siciliano, Lunari, Franceschi, Tarantino, Lievi, hanno cercato di dare il loro contributo, autori come Maraini, Boggio, Nicolay, Longoni, Cavosi, Marino, Manfridi, De Bei, Bassetti, Bernard, Battaglin, Camerini, Taddei, Manfredini, Celati, Ippaso, Puppa, ai quali vanno aggiunti autori che hanno utilizzato il dialetto con maggiore fantasia, come Ruccello, Moscato, Santanelli, Spagnol, Salemme, Scaldati, Perriera e tanti altri, presenti nel volume, ai quali Petroni dà parecchio spazio anche con brevi, ma illuminanti, recensioni, lamentandosi, a volte, per la scarsa qualità della scrittura.
Non dimentica gli autori del Teatro dell’Oralità, coma Paolini, Baliani, Curino e, alla fine, non può evitare il suo grido di dolore per come la drammaturgia italiana vada avanti con una sorta di inerzia, col rischio di rispecchiarsi nello specifico televisivo, mentre si alimenta con bassi costi per sopravvivere.
Non manca la polemica nei confronti di cattedratici, come Alonge e lo stesso Bonino, che avendo curato per Einaudi un’opera esemplare sul “Teatro moderno e contemporaneo”, hanno volutamente trascurato moltissimi degli autori citati, contribuendo alla loro dimenticanza, anche se Petroni li invita a non disperare.
Diciamo allora che, per fortuna, c’è il suo libro, utilissimo per non dimenticarli.
Il volume contiene alcuni interventi di Ubaldo Soddu sui “bassifondi” d’autore, di Nicola Fano sul Teatro di Narrazione, durante gli anni Novanta, di Renato Palazzi, su un approccio diverso alla Scrittura scenica, di Oliviero Ponte di Pino e Giulia Alonzo sulla possibilità che la scrittura possa risorgere online.

Paolo Petroni, “LA SCRITTURA DEL TEATRO. DRAMMATURGIA ITALIANA AL PASSAGGIO DEL SECOLO”, Gambini Editore 2023, pp. 360, € 24.

“Les Contes d’Hoffmann” alla Scala in formato musical. O avanspettacolo. Ma è proprio questo che voleva Offenbach?

MILANO, giovedì 16 marzo (di Carla Maria Casanova)Tre belle oracce e 45 minuti di spettacolo che hanno fatto provvidenzialmente anticipare l’inizio alle 19.30.
Les contes d’Hoffmann sono la sola opera seria (opéra fantastique)  di Jacques Offenbach, celebre  per le sue numerose brillanti operette.
Il musicista morì quattro mesi prima di averla ultimata (1881). Il compito fu assunto dall’amico Ernest Guiraud. La gestazione dell’opera fu assai travagliata ed anche in seguito di questo lavoro ci si permise di tutto: rimozioni, tagli, spostamenti. Spesso, fino a non molto tempo fa, l’opera terminava con l’atto di Antonia. L’edizione scaligera andata in scena ieri sera termina con l’atto di Giulietta, quello della barcarola,  l’unico motivo popolare e di cantabilità assai romantica (come vuole lo stesso termine musicale).
Anche la gestazione di questo spettacolo milanese pare abbia subito inenarrabili travagli e che molto sia stato tolto alla struttura scenica (chissà cos’era prima!).
E adesso sorge un problema. Stanotte, tornata dalla Scala dopo le 3 ore ecc. se mi fosse stato chiesto che cosa avevo visto/sentito, non avrei saputo cosa rispondere. Di questi Racconti non mi è rimasto addosso niente. A parte il ritmo della barcarola che si diceva.
Per la messa in scena si è scelta la chiave del musical, avanspettacolo, operetta se preferite. E trattandosi di Offenbach si può capire. Ma questa è un opéra fantastique ed è piuttosto seria, anche se il fantastico si armonizza con il sentimentale, il surreale con il satirico e il grottesco.
Ideatore è Davide Livermore, che in tale guazzabuglio (sfido chiunque a capire l’intreccio) si trova a suo perfetto agio. Dice il regista: “Tanti si lamentano perché i budget a teatro sono limitati, ma fare il teatro non è un problema di budget bensì di idee”. Giustissimo. E lui di idee ne ha un’infinità. Peccato che non riesca a selezionarle: le mette in scena tutte. Con l’aggiunta di altre, ottenendo un assoluto horror vacui. Di questo spettacolo, l’idea che mi rimane in mente è quella, all’inizio del terzo atto, di far stendere sopra gli spettatori della platea un enorme velo fluttuante, come a metterli nel mare (anche in scena c’è il mare). Dura poco perché gli spettatori non sono contenti di stare sotto al velo. Ricordo inoltre l’immissione, tra gli interpreti, di un personaggio diversamente alto (se qualcuno non si è ancora aggiornato, il dizionario dice nano), in smoking luccicante e tuba. Ovviamente non canta, lo si nota perché è diverso e fa scena e Livermore appena può (vedi corte di Mantova in Rigoletto) lo introduce nel cast. Fine.
Non vedo altro degno di nota, tra le immancabili proiezioni, lo sterminio di mimi danzanti in calzamaglia nera, i singolari stupri di gruppo (magari anche solo tra due di cui la donna non è ovviamente d’accordo), i faretti accecanti dritti sulla platea e gli spari: inizia con l’immagine di una rivoltella puntata e poi uno sparo furibondo con cui allo stesso modo si conclude l’ossessionata vicenda quando il protagonista viene messo in un baule (mi si dice una bara) e non se ne parla più. Significa che lui che ha cambiato vita.
La storia è quella narrata nel libretto di Jules Barbier a proposito di Hoffmann, giovanotto che rivive le vicende di tre suoi amori i quali, per un motivo o per un altro, sono solo sue fantasticherie. E l’amata sarebbe in realtà sempre la stessa, sotto tre diverse spoglie. Quindi è meglio che questo giovane metta la testa a posto e i piedi in terra.
Les Contes non sono opera di repertorio. Nella mia lunga vita ne avrò visti sì e no una dozzina. Però me li ricordo, accidenti se me li ricordo, o per l’allestimento (Carsen, De Ana…) o per qualche interprete (Domingo e la Sutherland, Kraus e June Anderson, e anche le più recenti Dessay e Rancatore splendide Olympia). Qui proprio niente.
Passo a volo d’uccello: il direttore Frédéric Chaslin, francese doc ed esperto del genere, è stato fischiato. Direi immeritatamente. Lui alcuni giorni fa si era lasciato scappare che nella precedente edizione scaligera dei Racconti (2012?) il francese (lingua) non era perfetto. Sarà. Qui la dizione è perfetta solo in Grigolo. È già qualcosa. Ma non credo che i fischi dipendano da un eccessivo campanilismo linguistico. Forse ci si è ricordati che il buon Offenbach, innamorato di Mozart al punto di farne aggiungere il nome ai suoi (Ernst, Theodor, Amadeus 1776-1822), di Mozart qua e là aveva anche la leggerezza. E in questi Contes di leggerezza non si parla proprio.  Fischi ovvi, ma moderati, per il regista Livermore coadiuvato da Giò Forma per le scene (ma ci sono delle scene, oltre alle proiezioni??) e Gianluca Falaschi per i costumi da avanspettacolo. Applausi ai cantanti, con ovazione per il protagonista Vittorio Grigolo: Hoffmann è personaggio che sembra composto per lui. Qualche anno fa gli stava ancora meglio.
Le donne. Olympia, la bambola, ha i famosi spericolati trilli che usano scatenare entusiasmi deliranti. Non qui. In effetti la voce di Federica Guida è un po’ troppo corposa per la svettante coloratura della parte. Antonia è Eleonora Buratto. Pur avendo fatto annunciare una indisposizione, si è comportata come al solito benissimo; Giulietta è la giovane promessa Francesca Di Sauro non ancora trentenne. A Nicklausse, ruolo en travesti, ha dato voce il mezzosoprano Marina Viotti, laureata in filosofia e diplomata in flauto, pregevole vocalmente e per presenza scenica.
La compagine maschile, tutti cattivi, addirittura diabolici (Lindorf/Coppelius/Dapertutto/Dottor Miracle) è stata affidata al basso Luca Pisaroni, e ci sono ancora, alternati in vari ruoli, François Piolino, Yann Beuron, Hugo Laporte, Alfonso Antoniozzi.
Grande impegno per il Coro della Scala, guidato da Alberto Malazzi, osannato come di dovere. Improbo lavoro hanno dovuto accollarsi il maestro delle luci (Antonio Castro) e la Compagnia Controluce (Teatro d’Ombre), settori inseriti da poco nei cast e che ci si dimentica sempre di citare.

Oscar 2023 fra universi paralleli, lavanderie cinesi e trincee della Grande Guerra. Il miglior attore è Brendan Fraser

LOS ANGELES, lunedì 13 marzo – Tutto come da copione. O quasi. “Everything Everyhere All at Once” fa man bassa di Oscar al Dolby Theatre di Los Angeles, aggiudicandosi sette statuette (su 11 nomination), fra le quali quella come miglior film. Vincono dunque, secondo le migliori previsioni, gli universi paralleli e la piccola, grande storia, tra commedia nera e fantasy, della povera immigrata cinese proprietaria di una lavanderia in America. Ma, piuttosto a sorpresa, il secondo posto se lo aggiudica il tedesco “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, che agguanta quattro Oscar, incluso quello come miglior film internazionale. Agli altri, briciole o niente del tutto (come all’atteso “Gli spiriti dell’Isola”, che resta a bocca asciutta). Quasi in lacrime l’ottimo ed emozionantissimo Brendan Fraser, premiato come miglior attore protagonista per “Tre Whale”. (pat)

 

ECCO I 23 VINCITORI DEGLI OSCAR 2023

Miglior film
Everything Everywhere All at Once

Miglior regia
Everything Everywhere All at Once – Daniel Kwan e Daniel Scheinert

Migliore attrice protagonista
Michelle Yeoh – Everything Everywhere All at Once

Migliore attore protagonista
Brendan Fraser – The Whale

Migliore attore non protagonista
Ke Huy Quan – Everything Everywhere All at Once

Migliore attrice non protagonista
Jamie Lee Curtis – EveryThing Everywhere All At Once

Migliore sceneggiatura originale
Everything Everywhere All at Once

Migliore sceneggiatura non originale
Women Talking

Migliore film internazionale
Niente di nuovo sul fronte occidentale – Germania

Migliore film d’animazione
Pinocchio di Guillermo del Toro

Migliore montaggio
Everything Everywhere All at Once

Migliore scenografia
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Migliore fotografia
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Migliori costumi
Black Panther Wakanda Forever

Miglior trucco e acconciature
The Whale

Migliori effetti visivi
Avatar: La via dell’acqua

Miglior sonoro
Top Gun: Maverick

Migliore colonna sonora originale
Niente di nuovo sul fronte occidentale

Migliore canzone originale
Naatu Naatu – RRR

Miglior documentario
Navalny

Miglior cortometraggio documentario
The Elephant Whisperers

Miglior cortometraggio
An Irish Goodbye

Miglior cortometraggio d’animazione
The Boy, the Mole, the Fox and the Horse

Pasolini. L’umorismo come riflessione contro la classe borghese. Diverso da Pirandello, ma così vicino a Testori

(di Andrea Bisicchia) Stefano Casi, autore di “Le tragedie umoristiche di Pasolini e altre eresie”, edito da ETS, nella Collana Percorsi critici, diretta da Anna Barsotti, è considerato uno dei più accreditati conoscitori di Pasolini e, in particolare, del suo teatro, del quale ha ricostruito gli approcci giovanili, mettendoli a confronto con le famose tragedie scritte in un solo anno per dare vita a un “nuovo” teatro. Il volume esce in un momento particolare che non riguarda soltanto il centenario della nascita (1922), ma, soprattutto, la possibilità di vedere in concomitanza rappresentate le sue sei tragedie, al Teatro Arena del Sole di Bologna, durante questa Stagione, in un progetto ideato da Walter Malosti. Due sono già andate in scena: “Calderon”, con la regia di Fabio Contemi, e “Pilade” con la regia di Giorgina Pi che lo ha rielaborato insieme a Massimo Fusillo. Seguiranno: “Porcile”, regia Garella – Lucenti, “Orgia”, regia Portoghesi – Rosellini, “Affabulazione”, regia Marco Lorenzi, “Bestia da stile”, regia Stanislas Nordey.
A dire il vero, col teatro di Pasolini si erano cimentati attori importanti, come Vittorio Gassman, che abbiamo visto in una messinscena tormentata di “Affabulazione”, e registi come Luca Ronconi che, dopo aver realizzato “Calderon”, portò in scena, protagonista Umberto Orsini, una sua versione di “Affabulazione”.
Eppure, queste realizzazioni non erano state sufficienti per accettare definitivamente il Teatro di Pasolini, che risultava ancora alquanto ostico da digerire, perché ritenuto, secondo alcuni, molto difficile, essendo fin troppo carico di idee, di pensieri e pertanto inadatto alla materialità del palcoscenico.
Questa tesi viene smontata dalle due messinscene sopraccitate e dal libro di Stefano Casi che hanno dimostrato proprio il contrario. Stefano Casi aveva già pubblicato nel 2005 con UBU LIBRI (ristampato, nel 2019, presso CUE PRESS) uno studio importante, “I teatri di Pasolini”, con Introduzione di Luca Ronconi, dove iniziava a fare luce sulle novità apportate da Pasolini alla drammaturgia italiana.
Con questo nuovo studio chiarisce perché quel teatro possa essere meglio capito oggi, essendo, la sua struttura e il suo linguaggio, più facili da decifrare ed assimilare grazie all’uso che Pasolini seppe fare dell’Umorismo e grazie, anche, ai possibili accostamenti con autori italiani come Testori, Sanguineti, Scabia, Carmelo Bene, e stranieri, come Ionesco e Beckett, dopo le infatuazioni giovanili per il teatro dei Gobbi e per quello di Alberto Arbasino, in particolare, di “Amate sponde”, ai quali faceva riferimento in alcuni testi scritti negli anni Cinquanta: “Italie magique” e “Nel 46”.
La vicinanza a Testori è dovuta anche ai due Manifesti che pubblicano nello stesso anno “Per un nuovo teatro” e “Il ventre del teatro”, essendo entrambi convinti che la “rivoluzione” dovesse essere cercata all’interno del linguaggio e, in particolare, dentro il linguaggio del corpo che per Pasolini era da intendere come supporto fisico della parola che non va recitata, ma incarnata. Insomma il corpo da intendere come cassa di risonanza della parola, non proprio dialogica, bensì monologante, in fondo la centralità del monologo era tipica anche del teatro di Carmelo Bene, di Sanguineti e di Scabia. Questa scelta nacque dalla consapevolezza della incomunicabilità del dialogo e del potere che ebbe ad assumere il personaggio monologante, a sua volta ereditato dalla rarefazione del dialogo stesso, compiuta da Ionesco e Beckett.
A questo proposito, Stefano Casi scrive: “I corpi nel teatro di Pasolini si misurano con l’enunciazione verbale e il suo significato attraverso la voce, la presenza, la plasticità, la stessa antropologia”.
C’è, infine, da capire cosa intenda Casi, a proposito dell’Umorismo e in che maniera si discosti da quello pirandelliano. Diciamo che, per entrambi, l’Umorismo era una forma di difesa, ma se in Pirandello la difesa consisteva nel sentimento del contrario, per Pasolini si trasformava in una riflessione sulla classe borghese ed era utilizzato, secondo Stefano Casi, come una forma di distacco, di dissociazione dalla realtà, oltre che come senso di colpa e di dissacrazione.
In tal senso, Casi ritiene l’Umorismo una forma di eresia.

“LE TRAGEDIE UMORISTICHE DI PASOLINI E ALTRE ERESIE”, di Stefano Casi, Edizioni ETS 2022, pp. 150, € 16