Avere sedici anni al rione Traiano di Napoli. Storie (neorealistiche) di vita e di amicizia raccontate al videoselfie

(di Patrizia Pedrazzini) Napoli, rione Traiano. Case popolari, panni stesi ai balconi, muri scrostati. Lentezza. Strade che si incrociano deserte, percorse ogni tanto da motorini con sopra ragazzini – neanche da dire – senza casco. Giardinetti rinsecchiti, marciapiedi sollevati. Qui, nell’estate del 2014, morì, ucciso da un carabiniere che lo aveva scambiato per un latitante, Davide Bifolco. Aveva 16 anni. Anche Alessandro e Pietro hanno 16 anni, anche loro vivono al rione Traiano, ed è ancora una volta estate quando un regista, Agostino Ferrente (già autore, fra l’altro, di “Intervista a mia madre” e “L’orchestra di piazza Vittorio”), li avvicina e mette loro in mano uno smartphone, invitandoli a filmarsi, a raccontarsi, a riprendere chi e quello che preferiscono. A trasformarsi, insomma, in registi di se stessi. In assoluta libertà. Con una sola raccomandazione: che compaiano sempre nell’inquadratura.
Nasce così “Selfie”, film-documentario che narra in presa diretta che cosa significhi vivere da adolescenti in un quartiere difficile della già non facile città partenopea. I ragazzi si entusiasmano, prendono l’incarico sul serio, lo “allargano” ad altri coetanei. Il quadro d’insieme che ne esce parla di solitudine e di senso di responsabilità, di amicizia e di sofferenza, di speranze deluse e di voglia di andare via. Di una scuola abbandonata troppo presto e del desiderio di trovare un proprio posto nella vita. Perché “Selfie” non è “Gomorra”, o meglio in parte lo è, ma in maniera solo accennata: per esempio nella dimestichezza che questi sedicenni si ritrovano ad avere con le armi; o nei ragionamenti della ragazzina dalle lunghe unghie laccatissime, già mentalmente proiettata verso un futuro di visite in carcere (e di rispetto) al potenziale marito, ma purché lui la ami.
Di fatto Alessandro e Pietro sono due bravi ragazzi, legati da una forte e sincera amicizia. Molto diversi fra loro, quindi complementari. Più determinato Alessandro, che fa il garzone in un bar. Più fragile Pietro, che vorrebbe fare il parrucchiere, ma non trova lavoro, per cui si esercita sulla testa dell’amico, il quale a sua volta si fa in quattro per metterlo a dieta perché, segnato dalle disgrazie familiari, il ragazzo non fa che mangiare, ha superato i 130 chili e ha pure il diabete (“ma tranquillo, con le ragazze conta la personalità”).
Storie che emergono pian piano, di videoselfie in videoselfie. Gli incontri ai giardinetti, o al cimitero, a parlare di Davide, “che voleva fare il calciatore”; le partite a biliardo; la visita alla nonna malata; le canzoni napoletane suonate la sera per strada, fra i palazzoni pieni di afa e la gente che scende a prendere un po’ di fresco. Il padre di Pietro che fa il pizzaiolo e lavora fuori città, per cui torna a casa una volta alla settimana. E Alessandro che non ha più voluto studiare perché “L’Infinito” di Leopardi proprio non ci stava, a impararlo a memoria. E allora ha litigato con l’insegnante, e ha mandato tutto al diavolo.
Peccato che ora quello stesso “Infinito” si trasformi (e lui se ne renda conto) nel simbolo della vita del giovane, e dei tanti adolescenti come lui che abitano al rione Traiano, costretti a vivere in un quartiere che è come circondato da un muro, oltre il quale esiste una realtà della quale i ragazzi non hanno conoscenza. Ma che, si augura Alessandro, forse i suoi figli avranno la fortuna di conoscere.
Un film sulla carta difficile che tuttavia, grazie alla spontanea sensibilità dei giovani non-attori Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, si trasforma nel semplice, pulito, realistico (o meglio neorealistico) racconto di vita di due ragazzi come tanti. Ma, di tanti, anche molto meno fortunati. Senza forzature né enfasi, né pregiudizi. E, soprattutto, senza processi.