(di Patrizia Pedrazzini) Zain è un bambino. Ha più o meno dodici anni, e vive nella Beirut sterminata e fatiscente delle baracche con la famiglia: un padre, una madre, un numero imprecisato di fratelli e sorelle. Tutti insieme, tutti alle prese con la necessità di crescere in qualche modo e di portare a casa qualcosa, non importa come. Non va a scuola, e non ama particolarmente i genitori, che anzi sembrano brillare per indifferenza e totale mancanza di affetto. In compenso cerca disperatamente di proteggere la sorellina, di un anno più giovane, dallo spettro, che le si prospetta, di un matrimonio con un uomo molto più grande di lei, che per la famiglia rappresenterebbe quanto meno la possibilità di avere una bocca in meno cui pensare. Per questo, quando la bambina viene, nonostante tutto, consegnata al destino che la attende, scappa da quella che, in realtà, non è mai stata, per lui, nemmeno una casa. Si darà da fare, incontrerà un’immigrata etiope che stenta a far quadrare il lavoro con l’esistenza di un figlio, che tiene nascosto perché non le venga sottratto, si prenderà cura del bambino di lei, farà ritorno a casa, finirà in prigione. E qui ci fermiamo.
Perché “Cafarnao. Caos e miracoli” (“Capharnaüm”), terzo lungometraggio (dopo “Caramel” e “E ora dove andiamo?”) della regista libanese Nadine Labaki, è un film del quale non ha, alla fine, molto senso raccontare la trama. “Cafarnao” è un film, prima di tutto, da vedere, ma con l’anima, la mente e il cuore, sgombri. Da pregiudizi e da preconcetti, incluso quello per il quale mettere in scena la miseria e il dolore dell’infanzia negata, e violata, possa assumere i contorni di un’operazione moralmente ricattatoria. Non è il caso del film della Labaki, che anzi va molto oltre, e al di là, della realtà che i suoi “bambini invisibili” incarnano, con il loro essere senza documenti e, quindi, senza un’identità, perché la loro nascita non è stata registrata, per cui, di fatto, non esistono, nemmeno per essere accettati in un ospedale. Bambini che nascono, crescono e muoiono, senza che nessuno se ne accorga. E senza che a qualcuno importi. E, allora, “non si dovrebbero fare figli, se non si è in grado di prendersene cura”: in tribunale, il piccolo Zain punta il dito contro i genitori, e a ragione. L’accusa? Averlo messo al mondo. Ma Nadine Labaki va oltre anche il gesto in sé simbolico: in quale inferno sono a loro volta cresciuti, questi padri e queste madri, in quali abissi di ignoranza e di incapacità di vivere hanno, senza rendersene conto, costruito le proprie ingiustizie?
Così “Cafarnao” non è solo un commovente grido di denuncia sulla violazione dei diritti fondamentali dell’infanzia – la salute, l’istruzione e, prima di tutto, l’amore – ma anche il variegato affresco delle problematiche di un intero Paese (in questo caso il Libano), tuttavia facilmente assimilabili a realtà analoghe, a partire da quelle dei migranti clandestini, dei lavoratori stranieri, dei confini tra gli Stati, del razzismo, della paura del diverso, del traffico di bambini, della necessità imprescindibile di avere dei documenti di identità per essere considerati, quanto meno, esseri umani.
Il giovanissimo Zain Al Rafeea, profugo siriano a Beirut con i genitori e i tre fratelli, regala con estrema naturalezza al “proprio” Zain l’espressione assente e corrucciata, l’aria disincantata di chi ne ha viste troppe e la straziante disperazione di un bambino che la vita ha fatto grande molto prima del tempo, ma che supplica in silenzio le attenzioni, appunto, di un bambino. Come tutti gli interpreti del film, nessuno dei quali è un attore professionista, viene da esperienza di vita assai simili a quelle raccontate dalla Labaki, la quale peraltro si è ritagliata, in veste di attrice, il ruolo dell’avvocato che, in tribunale, difende Zain.
Un film crudo e spiazzante, tuttavia fragile e prezioso. Una storia carica di umanità. Per chi non vuole fingere di ignorare.
Beirut e i bambini invisibili di Nadine Labaki. Soli, maltrattati. Quando anche la speranza sembra fare di tutto per morire
9 Aprile 2019 by