Bella la nuova sistemazione della Pietà Rondanini. Ma quanta nostalgia per quel mistico angolo dov’era prima

pietà internoMILANO, venerdì 17 aprile 
(di Paolo A. Paganini) Alcuni si mettono in cammino per un penitenziale pellegrinaggio verso Santiago di Compostela; altri vanno in preghiera alla Madonna di Medjugorie; altri ancora vanno a prostrarsi in mistica venerazione davanti alla Madonna Nera della Santa Casa di Loreto. Da parte mia, tutti gli anni, non faccio a meno di andare a inchinarmi davanti alla Pietà Rondanini, al Castello Sforzesco.
È opera tarda d’un vecchio artista, il quasi novantenne Michelangelo. Che la lasciò incompiuta, alla morte, nel 1564, dopo averci lavorato per un decennio.
Non ho mai pensato che fosse “incompiuta”, semmai “abbandonata”, “rinunciata”, “fallita”, ma non “incompiuta”. Da quel grosso blocco di marmo apuano, alto quasi due metri, lavorato, scavato, scalpellato fino a poco prima di morire, Michelangelo doveva estrarre un Cristo deposto, avvinghiato con un’altra figura in un unico abbraccio. Ne rimane un tragico abbozzo, perfino sbagliato nei volumi per eccesso di sottrazioni. Fosse vissuto altri dieci anni, non sarebbe mai riuscito a raggiungere la perfezione di un David, di una Pietà vaticana o dell’altra Pietà (quanto simile) del Museo dell’Opera del Duomo. In quel marmo non c’era più materia prima per continuare l’opera. Eppure, per me, è la più alta, sublime, inarrivabile, tragica e commovente opera di Michelangelo.
È limitativo ritenerla soltanto incompiuta. Questa “Pietà” è la metafora della vita, è il simbolo della vita stessa, di ogni vita incompiuta. C’è la “pietà per la vita”. In ogni colpo di martello, in ogni scheggia di marmo schizzata via, c’è la scansione della vita di ogni uomo, lacerato, sbrindellato, sottratto alle sue effimere illusioni, ai suoi inutili spasimi d’amore e d’eroismo, colpo dopo colpo, scheggia dopo scheggia. C’è la tragica incompiutezza di ogni uomo, quando alla fine deve fare i conti delle entrate e delle uscite: da una parte sogni, speranze e aspettative; dall’altra, errori, fallimenti, disinganni. C’è l’abbozzo infinito dell’umanità, e della divinità, nella Pietà Rondanini. C’è l’aspirazione d’ogni uomo alla compiutezza, alla perfezione, alla gloria, e c’è la tragica costatazione di uno sgorbio, d’un fallimento, quando un’esistenza, alla fine, non ha più tempo per un altro colpo di martello…
Quando ogni anno faccio visita alla Pietà Rondanini, confesso, come in un confessionale, tutte le mie manchevolezze, tutte le mie azioni incompiute, diventa quasi una mistica purificazione, una comunione officiata da Michelangelo, lui che s’intendeva di opere incompiute.
Ora, in quell’angusto tempio votivo ch’era quella specie di  “cripta” tra le vecchie mura del Castello, dove mi soffermavo in spirituale raccoglimento, non potrò più andarci. La Pietà Rondanini ha cambiato casa, sempre al Castello, ma in un ambiente tutto suo, arioso, luminoso, tra fantasmici affreschi che hanno la trasparenza del tempo, nell’antico salone cinquecentesco dell’Ospedale Spagnolo, che sarà aperto al pubblico sabato 2 maggio. Sarà una grande festa. Con una piccola nostalgia. Come per tutte le cose che finiscono, o che non si ritrovano più. Come la mistica complicità in quel piccolo spazio tra vallo e vecchie mura…