(di Marisa Marzelli) Il nuovo film diretto e co-prodotto da Tim Burton, anche se non sta facendo scintille al botteghino americano, ha raccolto tre candidature ai Golden Globes (migliore attrice, Amy Adams; migliore attore, Christoph Waltz; migliore canzone originale, di Lana Del Rey) e una agli Independent Spirit Awards (che promuovono il cinema indipendente) per la migliore sceneggiatura.
Big Eyes è un’opera anomala nella filmografia del regista californiano, noto per fiabe dark e animazione in stop-motion. Intanto perché si rifà ad una storia vera, finita in tribunale; quella della pittrice Margaret Keane e del marito Walter, diventati famosi negli anni ’60-’70 del secolo scorso. In secondo luogo perché, più della vicenda in sé è intrigante il modo in cui Burton, tra le righe, riflette sul mondo (e soprattutto sulla mercificazione) dell’arte moderna, poco prima che esplodesse il fenomeno della grande commercializzazione profetizzata ed attuata da Andy Warhol.
La vicenda reale è bizzarra e tratta di Margaret (Amy Adams), ingenua casalinga di provincia abile nel dipingere ritratti di bambini dagli enormi occhi tristi, ispirati forse dal viso della figlia. Lasciato il primo marito, madre e figlia arrivano a San Francisco, dove Margaret fa ritratti ai passanti nei mercatini. Qui incontra Walter Keane (Christoph Waltz), uomo tanto affascinante quanto misterioso e manipolatore, che si spaccia per pittore. Dopo il matrimonio, lui cerca di piazzare i quadri della moglie ma le gallerie li rifiutano. Li espone quindi in un bar, dove una sera avviene una rissa, di cui scrive un cronista di gossip (Danny Huston). Un fatterello marginale, ma Walter Keane è abilissimo nello sfruttare l’insperata pubblicità e riesce a creare attorno ai quadretti un enorme interesse mediatico. Quello che oggi, con i media elettronici, definiremmo un effetto virale. I vip comprano i quadri a caro prezzo, tra la gente comune vanno a ruba poster e cartoline, in vendita anche nei supermercati. I Keane diventano rapidamente ricchi e si stabiliscono in una villa con piscina. Ma, siccome i dipinti sono firmati solo con il cognome, l’uomo millanta come sue le opere della moglie. Lei accetta l’imbroglio solo perché il marito l’ha convinta che le donne pittrici non hanno mercato, si vende meglio se la gente ritiene che l’autore sia un uomo. In tempi di femminismo non ancora esploso, la timida Margaret non fa obiezioni e, chiusa in casa, continua a sfornare soggetti più o meno simili, che parte della critica d’arte rifiuta come prodotti kitsch ma che il pubblico, e persino un museo, si contendono. I quadri e Keane sono diventati di moda. Tutto a gonfie vele, finché Margaret, stanca di restare nell’ombra, abbandona il marito e qualche anno dopo lo trascina in tribunale facendogli causa. Il giudice ordina a entrambi di fare in un’ora un nuovo disegno. Walter accampa la scusa di un dolore alla spalla e resta col foglio bianco. Margaret svolge il compito in 53 minuti e vince la causa. Il vero Walter Keane è morto nel 2000, Margaret oggi ha 87 anni e compare nel film in un cameo.
Ben ambientato negli anni in cui il sogno americano era ancora abitato da mogliettine bionde e sottomesse ma stava mettendo le basi la cultura di massa, è proprio su quest’ultimo punto che Big Eyes si fa interessante. Il film, aperto proprio da una dichiarazione di Andy Warhol, secondo il quale i dipinti Keane non potevano essere brutti se piacevano a tanta gente, parla di caccia al successo, degli albori del marketing che si sostituisce al valore dell’opera d’arte e di quella società dell’immagine in cui oggi siamo più che mai immersi. E che fu proprio Andy Warhol a imporre con il trionfo della Pop Art. C’è una scena paradigmatica dove Margaret, al supermercato, vede i poster dei suoi quadri in mostra accanto ai barattoli delle famose zuppe Campbell, che Warhol avrebbe poi reso immortali con le sue riproduzioni in serie.
Ma per il pubblico dei burtoniani doc e degli spettatori distratti, queste finezze dicono poco perché, preso alla lettera, Big Eyes è un film molto tradizionale, appesantito da una voce fuori campo superflua (anche se tipica dell’epoca) e da un’interpretazione di Christoph Waltz sopra le righe. Inoltre, alcuni snodi del racconto non sono chiariti e perché Margaret Keane fosse ossessionata dagli enormi occhi dei suoi bambini dipinti resta un mistero.
Bizzarra e vera storia dell’ingenua pittrice di bimbi dagli occhi immensi (che il marito millantava come opere sue)
5 Gennaio 2015 by