Caduta del teatro di prosa e ascesa del teatro d’opera. Grazie anche alle più raffinate tecnologie di mixer sofisticati

L’applauso di Mattarella alla prima del “Macbeth” alla Scala il 7 dicembre.

(di Andrea Bisicchia) – Non c’è dubbio che, nell’ultimo ventennio, si sia assistito a un continuo logorarsi del linguaggio scenico per quanto riguarda la prosa e a un continuo affermarsi del linguaggio scenico per quanto riguarda il teatro d’Opera. Una volta si andavano a vedere “I giganti della montagna” o “Il giardino dei ciliegi” di Strehler, “La casa Nova” di Squarzina, oppure “La vita che ti diedi” di Castri, “Verso Damasco” di Missiroli etc, nel senso che si ometteva persino il nome dell’autore, anche se illustre, perché la riscrittura scenica del regista aveva una qualità tale da essere citata per prima.
Ciò non accade più nel teatro di prosa, sia per l’esaurirsi delle capacità interpretative, sia per una omologazione, in basso, del linguaggio scenico che appare sempre più povero e sempre più consumato, con le dovute eccezioni.
Nel frattempo, nel teatro d’Opera, si sta verificando qualcosa di simile al teatro di prosa dell’età aurea, ovvero si va a vedere il “Rigoletto”, “L’elisir d’amore”, “Salomé” di Michieletto, “Cavalleria Rusticana” di Martone, “Macbeth” di Livermore che, per la “colossalità”, è andato oltre quello di Graham Vick, col suo enorme cubo colorato o quello distopico di Corsetti o quello più antropologico di Emma Dante, con le scene di Carmine Maringola, come dire che la regia d’Opera ha preso il sopravvento sulla esecuzione musicale, tanto che, gran parte dei direttori d’orchestra, hanno accettato questa supremazia, benché qualcuno, come Riccardo Muti, resista, avvertendo che il vero compito del direttore sia sempre quello del gran concertatore che non deve accettare tutto quello che dice il regista, a meno che non la condivida completamente, così come accadeva a lui quando collaborava con Strehler o Ronconi. A suo avviso, nell’Opera lirica, contano le note e non le parole, perché ogni nota esprime dei sentimenti.
Nel frattempo, le recenti messinscene delle Opere liriche hanno trovato largo consenso sui quotidiani e, soprattutto, nei canali televisivi dove, frequentemente, vengono ospitate per un pubblico sempre più numeroso. Cosa che non accade più per il teatro di prosa, non essendoci messinscene degne di simili consensi.
A cosa è dovuto questo successo? Forse al fatto che il decorativismo artificioso delle scene dipinte è stato sostituito da un decorativismo più tecnologico, i cui risultati sono evidenti e molto interessanti per i Media, il che conferma l’ascesa dell’Opera lirica e la caduta del Teatro di prosa.
In verità, l’uso degli apparati tecnologici, con l’ausilio di mixer sofisticati, di luci a LED, del virtual set, hanno reso l’Opera più accessibile a tutti, come è accaduto per il ”Rigoletto”, al Circo Massimo, di Michieletto o “I pagliacci” di Cristiano Taraborelli, al Carlo Felice, anche per il sapiente uso del virtual set, ovvero della sincronizzazione tra ciò che accade in scena e ciò che viene proiettato sullo schermo, operazione non dissimile per “Gianni Schicchi “ di Michieletto, trasformato in un vero e proprio film, anche se esiste una differenza tra la ripresa cinematografica e il virtual set, benché entrambi siano funzionali all’Opera, perché evidenziano le passioni e le angosce dei protagonisti.
L’uso recente della tecnologia sottolinea un tipo di erudizione che è ben diversa da quella filologica dei Maestri del passato, ma ancora più diversa da quella posticcia di tanti registi di prosa che, in fondo, rivela le loro incapacità a sollevarla dal lento declino.