PESARO, domenica 13 agosto ► (di Carla Maria Casanova)
Aureliano in Palmira è il secondo titolo andato in scena ieri sera al Rof.
È una ripresa del 2014, regìa di Mario Martone, con cast vocale interamente rinnovato. Se il cast di allora fu, a mio ricordo, eccellente, con una straordinaria Jessica Pratt, quest’anno siamo nell’ordine del sublime. Una simile compagnia di canto non so dove la si potrebbe trovare altrove. Cito solo i quattro interpreti principali:
Sara Blanch, soprano (Zenobia), Raffaella Lupinacci, mezzosoprano (Arsace), Alexey Tatarintsev, tenore (Aureliano), Marta Pluda, mezzosoprano (Publia).
Le due signore (Zenobia e Arsace), nell’opera coppia innamoratissima (Arsace è en travesti) cantano per tutta l’opera ed è tanto cantare giacché sono due atti per un totale di oltre 3 ore e mezza. Magari un niente di recitativi del primo atto (105 minuti) poteva essere eliminato ma l’edizione critica – a cura di Daniele Canini e Will Crutchfield – ha fatto aprire tutto l’apribile, e d’altronde Rossini era molto sicuro del fatto suo se nei due mesi di preparazione (tempo per lui insolitamente lungo che non gli capiterà più di avere per dieci anni) scriveva a sua madre “scrivo musica divina”.
Eppure fu un fiasco solenne, il 26 dicembre 1813, inaugurazione della stagione di carnevale della Scala. Rossini aveva 21 anni, è vero, ma a suo attivo già molte opere di successo di cui le trionfali “Tancredi” e “Italiana in Algeri” di quello stesso anno. E allora come mai? Anche questo Aureliano fu tacciato di centone, per via di alcune arie prese da opere precedenti. Ed anche noi, saputelli, appena sentiamo le prime note della sinfonia esclamiamo con sussiego “Barbiere di Siviglia!” e ancora dopo, con altre parole – il libretto segna la prima collaborazione di Rossini con Felice Romani – riconosciamo le note pari pari di “una voce poco fa”. Solo che, particolare non trascurabile, il Barbiere verrà tre anni dopo (1816) ed anche se per lui ci fu alla prima un fiasco iniziale, il successo clamoroso delle repliche e la popolarità mondiale dell’opera oscurarono qualsiasi precedente, ivi compreso l’Aureliano.
E ad Aureliano torniamo adesso, lasciando dire al suo Autore che si trattava di “musica divina”. Tre i grandi ruoli, di cui quello di Arsace composto per il celebre castrato Velluti, qui sostenuto da contralto, mentre soprano e tenore hanno parti di “agilità di forza”. Merita citazione anche l’ultima bella aria di Publia (Non mi lagno che il mio bene) cantata con grande proprietà da Marta Pluda.
Ma che dire dei primi tre, dotati dell’impareggiabile dono di timbri morbidi, mai stridenti nemmeno nel registro superacuto e aiutati da uno stile belcantista che li porta a cantare apparentemente sempre privi di sforzo. Il personaggio del duce romano tutto patria e onore, per il quale la pax romana prevale anche sull’amore assoluto sarebbe un po’ melenso senza il canto avvincente del russo Alexey Tatarintsev. Zenobia, regina di Palmira, fiera e indomita ma perdutamente succuba dell’amore, al secolo la spagnola Sara Blanch, possiede acuti e sopracuti vertiginosi ed anche pause liriche ammalianti; Raffaella Lupinacci, che nel 2014 vestiva i panni di Publia, è passata al grande ruolo di Arsace, difficilissimo, più ancora che per la tessitura, per il duplice versante del personaggio, di guerriero, principe di Persia e di amante di Zenobia. Sarà questa dicotomia a prevalere anche nella storia, che a tutto antepone l’amore. Persino il dux Aureliano ne rimane soggiogato: i due, pur nemici e vinti, egli perdona e offre loro la libertà.
Nello spettacolo del Rof c’è alla fine un certo sbigottimento perché i due amanti perdonati (Zenobia e Arsace) si abbandonano a un interminabile amplesso così intenso da far pensare che tra i due ci sia qualcosa per davvero. O è tutto potere della regìa di Martone?
La regìa, valendosi delle scene di Sergio Tramonti e dei costumi di Ursula Patzak – trio presente al Rof dal 2004 – sortisce anche all’Arena Vitrifrigo uno spettacolo inebriante, rivisitando l’edizione del 2014 allora allestita al teatro Rossini. Siparietti trasparenti dividono lo spazio che viene occupato dal coro in pittoreschi costumi orientali con immagini alla Delacroix. Nel secondo atto, dove il libretto segnala una “amena collina alle sponde dell’Eufrate” Martone imbandisce una scena bucolica, con pastori e villanelle e persino tre capre (vere) che brucano sale e non mancano di lasciare le immancabili palline di sterco, spazzate con solerzia. Martone dice che questi “magici animali” lo accompagnano spesso nei suoi lavori. Animali in scena attori difficili da gestire ma sempre meno ingombranti degli elefanti di Aida.
Aureliano in Palmira è diretta dal maestro greco George Petrou, all’occorrenza anche regista di opera, operetta e musical. Qui autorevole gestore dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del coro del Teatro della Fortuna di Fano.
Il successo delirante che ha coperto di applausi tutti i fautori di questo Aureliano dimostrano che le lunghezze a teatro non contano, quando l’esecuzione è perfetta.
Repliche 15, 18, 21 agosto, ore 20.