(di Andrea Bisicchia) C’era una volta il capitalismo dell’Italia industriale, quello del triangolo Milano, Genova, Torino, dei capitani d’industria, del manifatturiero, seguì la stagione del boom degli anni Cinquanta-Sessanta, alquanto eccezionale, che fu una vera boccata d’aria per la nostra economia. Alla fine degli anni Settanta, si cominciarono a vivere le prime avvisaglie di una crisi che si sarebbe manifestata, in tutta la sua drammaticità, nel 2008. Su questa crisi e sulla conseguente disuguaglianza, si sono espressi autorevoli sociologi, filosofi ed economisti che hanno analizzato la malattia, senza trovare i rimedi, forse perché il loro sguardo era troppo cosmopolita, troppo attento all’economia mondiale.
Giuseppe Berta, docente alla Bocconi, ha deciso di guardare in casa nostra, per cercarne delle soluzioni. Pur tenendo presenti alcuni modelli di studiosi, da Luigi Einaudi a Braudel, a Fuà, oltre che modelli empirici, come quello di Olivetti, per individuare un modello italiano con la sua specificità, ha indirizzato la sua ricerca verso il Made in Italy, verso cioè un capitalismo leggero che avesse la sua origine nella nostra nazione, nota per l’economia agricola e artigianale e per la sua eccellenza, tanto da esserne riconosciuta l’autenticità del marchio.
A suo avviso, è inutile inseguire un capitalismo che si muove con rapidità estrema e con una vertiginosa mobilità della ricchezza, così come è inutile inseguire la finanza, quella che Luciano Gallina voleva riportare al servizio dell’economia reale, così come è controproducente cercare di amministrare soltanto il declino. Per Berta, è più conveniente puntare sulle periferie economiche e, quindi, su un capitalismo leggero, con le sue piccole virtù solidali, senza quell’ansia da primato che produce soltanto disorientamento. È necessario, infine, credere nelle proprie individualità, nella capacità di ritrovare se stessi, non attraverso una banale autoconservazione, ma proiettandosi verso il futuro senza farsi racchiudere nelle reti del capitalismo internazionale che lascia poco spazio alla creatività.
Il capitalismo leggero potrebbe, quindi, essere un antidoto alla decadenza economica, oltre che alla disuguaglianza, una maniera di imporsi come una novità imprenditoriale. Per raggiungere dei risultati positivi, secondo l’autore, occorrerebbe che le rappresentanze delle imprese focalizzassero la loro funzione attorno alle espressioni più vivaci della nostra imprenditorialità e che i sindacati abbandonassero gli schemi vigenti delle relazioni industriali e valorizzassero meglio le responsabilità crescenti del mondo del lavoro.
I riferimenti di Berta vanno verso il Nord Est e il Nord Ovest, ma anche verso certe realtà del Centro Sud, i cui profili d’impresa sono indistinguibili dalle persone che le hanno create o ereditate, essendo veri e propri soggetti economici intrisi di alto artigianato che hanno permesso la nascita di un capitalismo soft, riconosciuto nel mondo.
Un vero e proprio baluardo alla crisi. Diceva Albert Einstein : “Senza crisi non ci sono sfide. La vera crisi è l’incompetenza”.
Giuseppe Berta, “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?”, Il Mulino 2016, pp 158, € 14.