(di Andrea Bisicchia) Mentre Andrée Ruth Shammah sta provando “Casa di bambola”, con Filippo Timi e Marina Rocco, l’editore Einaudi rimanda in libreria il classico di Ibsen, il più rappresentato al mondo insieme a “Sei personaggi in cerca d’autore”. Perché questo successo planetario? Forse perché, come scrisse George Steiner (La morte della tragedia), “Con Ibsen la storia del dramma moderno ricomincia da capo: E basta questo per farne il più importante drammaturgo dopo Shakespeare”. Come dire che Ibsen inizia dove i tragici antichi avevano finito, avendo dato vita al teatro del pensiero moderno, quello che coinvolge l’uomo in rapporto alla nuova dimensione morale, economica e sociale di fine Ottocento, quando i problemi si risolvevano, non solo nei salotti, ma anche nelle banche, quando si era all’origine dell’età dei consumi, quando per far soldi o per bisogno di soldi si falsificavano le firme, con o senza la consapevolezza di rispondere alla giustizia, magari, credendo, come fa Nora, che una giusta causa possa scagionare dalla colpevolezza.
Ibsen, con “Casa di bambola”, apre una voragine all’interno dell’animo umano, i suoi protagonisti non sono altro che il riflesso di questa voragine, tanto che ciascuno ne rappresenta una parte. Per esempio, i tre personaggi maschili vanno letti come manifestazioni di tre mondi interiori: quello dell’uomo incorruttibile , quello di chi ricorre alla corruzione, quello di chi osserva e cerca di giudicare con la legge della morale. Lo stesso dicasi per le due protagoniste femminili che affrontano le delusioni della vita con spirito razionale, benché Nora debba compiere un percorso di conoscenza più lungo e più accidentato rispetto a quello della signora Linde. Nel testo, comunque, si parla sempre di soldi, di banca, di prestiti, di affari, di firme false, come se i sentimenti fossero bloccati dagli interessi di una società che ha scoperto la felicità del consumo.
In fondo, anche il comportamento bamboleggiante, non è altro che uno schermo; ciò che conta è vivere bene, perché non basta più vivere meglio, la ricerca del meglio era una prerogativa verghiana. Ibsen è andato oltre il naturalismo, il suo è un teatro di idee che tende all’assoluto, quello che si raggiunge col benessere economico e che utilizza, in casi di bisogno, anche la corruzione. Fonte di questo benessere è la banca di cui Helmer è diventato il direttore; anzi la sua stessa abitazione ne è il riflesso, così come lo diventerà il nuovo tenore di vita auspicato da Nora. Il lavoro in banca è diventato il più appetibile, non per nulla la signora Linde è ritornata da Nora per chiederle di raccomandarla al marito, lo stesso Krogstad, l’usuraio che ricatta Nora, aspira a diventare vicedirettore e, col tempo, a scalzare lo stesso Helmer, il quale non si accorge di nulla in quanto tutto preso dal bilancio che, in fondo, diventa un bilancio della sua stessa vita.
Intorno alla banca, si muove tutta una società, quella che impavida assiste al notevole mutamento di fine secolo, con la consapevolezza di non farsi travolgere, benché avverta di essere in preda di debiti e prestiti, di spese e risparmi. Insomma, a mio avviso, tutto ruota attorno alla banca, direi che lo stesso femminismo, rappresentato da Nora, ne è la diretta conseguenza, perché la sua colpa o la sua innocenza dipendono dai soldi da restituire, cioè da un affare economico grazie al quale, otterrà il perdono che, per quel che le è costato, non potrà mai accettare.
Henrik Ibsen “CASA di BAMBOLA”, Einaudi Editore, pp 90, euro 9,50